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Abbiamo smarrito il codice per leggere la realtà

La realtà ci parla per mezzo di segni, e i segni si esprimono per mezzo di simboli: gli uomini l’hanno sempre saputo, in tutti i tempi e in tutte le civiltà, da quelle primitive dei cacciatori e raccoglitori, a quelle più raffinate e complesse, come l’egizia, la greca, la cristiana medievale. Solo noi, unici fra tutti i nostri antenati, non possediamo tale facoltà, l’abbiamo smarrita: e ciò è avvenuto allorché siamo felicemente entrati nel paradiso della modernità. In cambio della fede nel Progresso illimitato e della promessa della Felicità prossima ventura, abbiamo gettato via tutto ciò che i philosophes e i loro degni successori, fino agli intellettuali di mezza tacca del XX secolo – gente piccola che pensava in piccolo e sentiva in piccolo, però si riempiva la bocca di grandi parole e incantava, in apparenza, grandi masse di pubblico – dicevano essere la zavorra a causa della quale, per secoli e secoli, l’umanità era rimasta ferma al palo, non aveva progredito, non aveva capito, non era mai diventata adulta, ma era rimasta in un’infanzia beota. Da Hume e Kant fino a Smith e Comte, fino a Sartre, a Eco, sia pure con sfumature diverse e con una crescente perdita di sicurezza, con un crescente e mal dissimulato disagio — la statura di costoro, già modesta all’inizio, non ha fatto che diminuire nel corso di tre secoli — hanno continuato a ripetere lo stesso ritornello: via le superstizioni, via l’oscurantismo, via l’irrazionale; ci serve un atteggiamento più scientifico, più concreto, più empirico; non abbiamo bisogno di simboli, né, tanto meno, di scongiuri e preghiere, ma di equazioni algebriche, di calcoli infinitesimali, di macchine sempre più perfezionate prodotte dal pensiero matematico. Anche se il loro decantato Progresso si mostrava sempre più problematico, ambiguo e perfino minaccioso; e anche se la promessa Felicità seguitava ad apparire in lontananza e poi subito a svanire, proprio come il miraggio dell’acqua nel deserto. La meta si faceva elusiva, i risultati tardavano a manifestarsi; eppure costoro non sono mai stati sfiorati dal dubbio sulla giustezza della strada intrapresa; anzi, piuttosto che dar torto alla loro impostazione, hanno preferito dare torto al reale. È il mondo che è fatto male, è la vita che è cattiva, ingiusta, incomprensibile: che cosa può fare in questo caos, in questo manicomio cosmico, un pover’uomo, ancorché dotato di salde facoltà razionali e ben deciso a non lasciarsi menare per il naso da stregoni, preti, santi o Madonne? Nondimeno, la strada era giusta, nessuno doveva dubitarne: l’idiozia è sempre dura a morire. Bisognava dunque insistere, resistere allo scoraggiamento, eventualmente tarare gli strumenti del conoscere e anche quelli del vivere, secondo i parametri di una realtà che si era rivelata, in fin dei conti, più ostica, più gretta, più meschina, di quel che i generosi e ottimistici padri dell’illuminismo e del positivismo avessero immaginato.

Non che le cose oggi siano cambiate molto. Il panorama culturale e filosofico è ancora ingombrato e materialmente occupato — cattedre universitarie, giornali, case editrici, televisioni – da quegli stessi signori, o dai loro eredi morali, professionali e biologici: una casta di falliti, chiusi nel loro falso sapere, scollegati dalla realtà, totalmente incapaci di autocritica, totalmente autoreferenziali e resi quasi autistici dall’inveterata abitudine di muoversi in regime di monopolio intellettuale, senza mai contraddittorio, animati dalla rocciosa certezza d’incarnare il Vero, il Bene, il Giusto, e quindi autonominatisi cavalieri senza macchia e senza paura della Buona Causa, in lotta incessante contro i mostri, sempre duri a morire, dell’oscurantismo, del fideismo, dell’irrazionalità. Lasciamoli dunque cuocere nel loro brodo: lasciamo che diffondano le loro ineffabili perle di saggezza dalle posizioni di potere che hanno occupato, o che hanno occupato i loro predecessori, attaccandovisi come le cozze allo scoglio, con la beota sicumera di chi pensa d’aver capito tutto anche se non ha capito nulla e sta sempre in cattedra, col ditino alzato, a far lezione a tutti quanti: inutile discutere con loro, non sanno discutere, ascoltano solo se stessi, amano solo la propria voce. Sono anime perse, alla lettera, malate di ego; sono morti viventi che non sanno di esserlo, perché non sono mai stati capaci di guardarsi allo specchio — di guardarsi onestamente, senza veli e finzioni.

Quel che dobbiamo fare dunque, fra le altre cos, è ritrovare la facoltà smarrita di leggere i segni e i simboli del reale; perché senza tale facoltà ci si perde veramente nel caos: non perché la realtà sia caotica e la vita insensata, ma perché chiunque, dovendo attraversare una vastissima foresta priva di sentieri, se non possiede una bussola, se non sa interpretare il linguaggio delle cose, se non ha mai saputo guardare il muschio sul tronco di un albero, o riconoscere il vanto di un uccello, non riuscirà mai a trovare la giusta direzione per uscirne: vi resterà imprigionato e, alla lunga, soccomberà senza mai aver rivisto la luce del sole, non perché la foresta sia malvagia, ma perché lui ha preteso di attraversarla senza le facoltà e le conoscenze a ciò necessarie, e soprattutto senza possedere neppure un’ombra della necessaria umiltà. I segni ci sono, i simboli anche: dobbiamo per prima cosa vederli, e per seconda cosa interpretarli; c’è stato un tempo lo sapevamo fare, poi abbiamo disimparato; ebbene, dobbiamo recuperare questa facoltà perduta. Armandoci di umiltà e riconoscendo la nostra piccolezza: non per disprezzarci, ma per riconoscere la necessità dell’aiuto che viene dall’alto, mediante la grazia, non a tutti gli esseri umani, ma a quelli che si riconoscono creature bisognose di ricevere lo Spirito di Verità, senza il quale non è possibile fare nulla e neppure vivere da uomini, ma solo trascinarsi da animali.

Uno dei pochi europei contemporanei che ha mostrato di avere una qualche intuizione del vero problema degli uomini moderni, lo smarrimento del linguaggio dei segni e dei simboli, è stato il polacco Witold Gombrowicz (1904-1969), una voce un po’ fuori dal coro, oltretutto fraintesa — a nostro avviso — per la maschera satirica che ama indossare nella scrittura delle sue opere – che solo il nostro doppio provincialismo, di "occidentali" e di "moderni", ha fatto sì che passasse quasi inosservato in quella cosa artificiale, e per molti versi mostruosa, che è la cultura "atlantica", da noi stessi vissuta e considerata come la vera cultura in assoluto, maestra del modo e dei popoli, cioè quella degli Stati Uniti e di quella parte dell’Europa che gli Stati Uniti hanno colonizzato non solo economicamente e politicamente, ma anche intellettualmente e spiritualmente. Nel suo romanzo Cosmo, ad esempio, il protagonista, uno studente che soggiorna in una stanza d’affitto in una casa di campagna, dopo aver visto un passero impiccato a una siepe, comincia a intuire, o sospettare, che intorno a lui vi sia tutta una trama di segni, di allusioni, di simboli, che forse vogliono dire qualcosa, o forse no, forse sono solo delle mere coincidenze; e tuttavia è pervaso da una viva inquietudine, a partire dal momento in cui tale pensiero gli si affaccia alla mente, e pare il riflesso dell’inquietudine dell’uomo moderno in quanto tale. La sua curiosità ansiosa cresce ulteriormente dopo che il suo compagno di stanza ha scorto una vaga figura a forma di freccia sul muro della camera, una macchia che il giorno prima non c’era, e che pare indicare qualcosa, tanto che i due decidono, un po’ per noia, un po’ perché realmente incuriositi, di vedere, uscendo dalla casa ed esplorando il giardino, nel caldissimo pomeriggio d’estate, quale sia la direzione e quale l’oggetto misterioso che la "freccia", forse, sta ad indicare. E lì, nel muretto del giardino, in una nicchia, scoprono effettivamente un oggetto alquanto enigmatico, per quanto minimale: un bastoncino di due centimetri appeso a un filo, che sembra richiamare il passero appeso anch’esso a un filo, ma di ferro, e impiccato al ramo di un albero (da: W. Gombrowicz, Cosmo; titolo originale: Kosmos, Instytut Literacki, Parigi, 1965; traduzione dal polacco di Riccardo Landau, Milano, Feltrinelli, 1966, 46-47):

Come si faceva a fingere di non sapere: il passero appeso — il bastoncino appeso – quell’impiccagione del bastoncino sul muro che ripeteva l’altra impiccagione della macchia — un risultato strano che fece ulteriormente aumentare l’intensità del passero (dimostrando quanto esso fosse radicato in noi malgrado l’apparente dimenticanza). Il bastoncino e il passero, il passero rinforzato dal bastoncino! Era difficile non credere che qualcuno ci avesse condotti con questa freccia fino al bastoncino per ricollegarsi al passero… ma perché? A che scopo? Uno scherzo? Una beffa? Qualcuno ci stava pigliando in giro, si burlava di noi, si divertiva… mi sentivo incerto, lui anche, e ci sentivamo portati alla prudenza.

"Niente di più probabile che ci stiano prendendo in giro".

"Ma chi?"

"Uno di loro… Di quelli che erano presenti mentre raccontavo del passero e mentre avevamo individuato la freccia sul soffitto della camera da pranzo. La stessa persona ha intagliato la freccia in camera nostra e dove ci porta? Al bastoncino appeso al filo. Uno scherzo. Una volare presa in giro."

Tuttavia, la spiegazione non reggeva. Chi mai avrebbe voglia di divertirsi a fare scherzi tanto complicati? A quale scopo? Chi mai poteva sapere che avremmo scoperto la freccia e che ce ne saremmo interessati fino a questo punto? No, non poteva essere… era un puro caso — questa concomitanza, limitata del resto, tra il bastoncino sul filo e il passero sul fil di ferro. Siamo d’accordo, non si vedono tutti i giorni i bastoncini appesi sul filo… ma il bastoncino poteva essere lì appeso per mille ragioni, per nulla legate al passero, noi ne avevamo ingigantito l’importanza, poiché esso ci apparve alla fine delle nostre indagini come una conclusione, anche se se conclusione non era affatto, bensì semplicemente un bastoncino appeso sul filo… Un puro caso quindi? Perché no… solo che esso denotava una certa tendenza alla logicità.., si percepiva in questa serie di avvenimenti un tenebroso elemento agganciante — il passero impiccato — il pollo impiccato — la freccia nella camera da pranzo — la freccia in camera nostra — il bastoncino appeso sul filo — ne emanava una certa tendenza al logico, come nei rebus quando le singole lettere cominciano ad avere le sembianze di una parola. Quale parola? Già, perché sembrava che tutto dovesse svolgersi seguendo un’idea ben determinata… Ma quale?

Quale idea? Idea di chi? Se si trattava di una idea, qualcuno doveva pur starci dietro — ma chi? Chi ne avrebbe avuto voglia?…

I personaggi di Gombrowicz intuiscono che c’è "qualcosa", un nesso, una relazione, non solo analogica e formale, ma intima e sostanziale, fra cose apparentemente diverse e distanti; ma non hanno idea di cosa si tratti. Peggio ancora: abituati, come lo sono in genere tutti gli uomini moderni, a utilizzare solo la logica matematica, crede che la chiave di tale relazione sia simile alla chiave dei rebus enigmistici, insomma una specie di gioco basato sulle regole della logica, come gli scacchi o come i crittogrammi. Non li sfiora il pensiero che possa anche trattarsi, dopotutto, di qualcosa che investe non solo la facoltà logica e deduttiva, ma addirittura l’insieme dell’essere; e che non sia affatto un gioco, tanto meno un gioco ozioso e innocente, ma una partita che ha per posta il significato della vita umana. Essi credono che, quando la logica ha le cose sotto controllo, quando è in grado di misurarle, soppesarle, confrontarle, istituire relazioni basate sul calcolo numerico, come potrebbe fare un computer, il mistero, se pure c’è un mistero, e non una serie di coincidenze fortuite, potrà essere svelato, e tutto diverrà chiaro. Ahimè, non è così: il mistero c’è, e anche le relazioni fra le cose apparentemente lontane ci sono; non si tratta di coincidenze, né di bizzarrie dovute alla dimensione probabilistica del reale; senza contare che sono troppo frequenti per essere "spiegate" in tal modo. Un indizio è solo un indizio, diceva Agatha Christie; due indizi sono una coincidenza; ma tre indizi sono una prova. L’universo è pieno di indizi e solo un idiota tecnologico, come lo è l’uomo moderno, può pensare che si tratti sempre e solo di coincidenze. Il guaio è che abbiamo perso il codice per decifrare gli indizi: perciò li vediamo, ma non vi prestiamo attenzione; e, se pure lo facciamo, in qualche rara occasione, non caviamo un ragno dal buco. È da molto tempo, è da sempre, che il mondo delle cose ci parla: ci parlano i luoghi, ci parlano i nomi, ci parlano i gesti, ci parlano gli sguardi: ma la nostra mente è chiusa e ristretta, non vede e non sente ciò che è essenziale; vede e sente solo ciò che ha deciso di vedere e udire, cioè le cose secondarie e accidentali. Ciò accade perché non siamo più persone, ma numeri nella massa, cioè bestiame: bestiame calzato e vestito, diplomato e laureato, ma pur sempre bestiame. Per vedere e capire i segni e i simboli disseminati ovunque intorno a noi, dobbiamo per prima cosa riconquistare la nostra umanità: cosa non facile, perché ormai ci siamo messi in una posizione da cui è difficilissimo risalire, e tutto congiura contro di noi, specialmente il dilagare di una tecnica deresponsabilizzante e omologante. Se riusciremo a ritornare ciò che eravamo, uomini veri e non manichini accessoriati tecnologicamente, vedremo e capiremo di nuovo, come i nostri avi. Riconosceremo il passaggio degli angeli e quello dei diavoli, ciò che innalza e ciò che degrada: e qual è la strada che porta a Dio.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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