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L’assoluzione “politica” secondo don Milani

Gli anni ’60 sono stati, come tutti sanno e come tutti quelli che li hanno vissuti, ricordano, gli anni del "sei politico": della pretesa, cioè, degli studenti, sia delle superiori, sia dell’università, di vedersi garantita e riconosciuta dai professori la sufficienza, come minimo, per il solo fatto di essere iscritti e di venire, più o meno, alle lezioni, anche se per occupare gli edifici scolastici e proclamare la "lotta dura senza paura" contro il fatiscente mondo borghese e contro le odiate istituzioni scolastiche e accademiche. Non molti, però, sanno o ricordano che essi erano stati preceduti dagli anni ’50, nei quali la Chiesa cattolica era stata il laboratorio di un concetto e di una pratica analoghi: il fedele ha diritto all’assoluzione, per il solo fatto di entrare in chiesa e di presentarsi al sacerdote nel segreto della Confessione. Anche se si trattava di una piccola minoranza di preti progressisti e di laici imbevuti di idee egualitarie, e anche se si era ancora ben lontani dalle aberrazioni odierne, con le cosiddette confessioni comunitarie e le assoluzioni, altrettanto plenarie, in stile argentino e ultrademagogico. E più in generale, si può ben dire che il Concilio Vaticano II sta alla vita cattolica come il ’68 sta alla società laica: anche in questo caso, i cattolici si sono mossi per primi e hanno segnato la via alla società civile: vale a dire la via della rivoluzione. Il Vaticano II è stato la rivoluzione nella Chiesa, il 1789 della Chiesa, in tutto paragonabile alla convocazione degli Stati Generali da parte di Luigi XVI, proprio come il ’68 è stato il prolungamento e l’estensione, sul terreno specificamente politico e sociale, delle idee che erano state espresse dai padri conciliari, o almeno dalla parte progressista di essi, quella che aveva preso la direzione del Concilio e che gli aveva impresso il suo carattere occultamente, ma inequivocabilmente rivoluzionario. Non ci si lasci intimidire dalle parole: "rivoluzione" significa scardinamento della realtà precedente e pretesa di creare un ordine nuovo, del tutto differente dall’antico; ebbene, senza alcun dubbio il Vaticano II fu, per la Chiesa, una rivoluzione, così come il ’68 avrebbe voluto esserlo per la società civile. Avrebbe voluto esserlo, ma non lo fu: perché il ’68 rimase una rivoluzione incompiuta, una rivoluzione solo accennata, una rivoluzione abortita. Sarà per questo che, poco dopo, gli stessi giovani che avevano fatto il ’68, innervati, materialmente e ideologicamente, da alcuni cattolici che avevano "fatto" la rivoluzione conciliare, si trasformarono in partito armato e tentarono di realizzare, a mano armata, quegli ideali di meravigliosa giustizia sociale e di idillica bontà nelle relazioni fra uomo e uomo, che non erano riusciti a far trionfare da dentro i licei e le aule universitarie, e nemmeno coi cortei lungo le strade? Evidentemente, gli uni e gli altri, i cattolici e i marxisti, avevano dei conti da regolare, dei conti restati in sospeso; erano rimasti delusi, gli uni e gli altri, dal fatto che i loro nobilissimi e altruistici ideali non avevano trovato piena, immediata e universale realizzazione, a causa dell’ottusa ed egoistica resistenza dei conservatori. Non furono sfiorati mai dal dubbio — mai: neppure oggi, a cinquant’anni di distanza — che forse quegli ideali non si realizzarono per la semplicissima ragione che erano sballati, velleitari, farneticanti. No: pensarono e pensano tuttora che non si realizzarono per colpa dei "cattivi"; ma loro, che erano i rappresentanti autorizzati del Bene, machiavellicamente erano perciò stesso autorizzati a fare anche il male, essendo comunque buono il fine, e perciò furono benedetti dal Cielo e dalla Storia a fare quel che fecero, cioè a togliere dalle spese, come si dice, qualche decina d’inutili rappresentanti di un ordine ingiusto, di parassiti sociali e di nemici del Bene. Viva la rivoluzione e viva don Milani. Amen.

A teorizzare l’assoluzione "politica" per i fedeli che si confessano fu, naturalmente, don Lorenzo Milani, il grande precursore del ’68, che il signore argentino sedicente papa, nel messaggio del 23 aprile 2017, ha ricordato con queste alate, commosse espressioni: La sua inquietudine, però, non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che talvolta veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un "ospedale da campo" per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati. Don Milani ha teorizzato e rivendicato l’assoluzione "politica" per i cattolici, fra le molte altre cose da lui teorizzate e rivendicate nel libro Esperienze pastorali, pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina nel 1958; libro che valse al suo autore, in privato, questo commento di Giovanni XXIII: Un povero pazzerello scappato dal manicomio (e ciò sia ricordato e beneficio delle anime belle che vogliono porre i due uomini, il prete ribelle e il papa buono, nelle file della stessa, gloriosa armata rinnovatrice). A dispetto del titolo dimesso e "minimalista", Esperienze pastorali è un libro rivoluzionario, tanto è vero che la curia vescovile lo fece ritirare dalle librerie pochi mesi dopo la oubblicazione: perfino più rivoluzionario della famosa, o famigerata, Lettera a una professoressa, che ha ottenuto, nel giro di qualche anno, l’effetto di ignorantizzare l’intera scuola italiana, sopprimendo la grammatica e la letteratura per non recare offesa agli studenti poveri. Ed ecco cosa scrive don Milani, in quel libro (pp. 265-266), là dove immagina di rivolgersi a un sacerdote predicatore venuto nella sua parrocchia per aiutarlo ad amministrare il Sacramento della Confessione, ma mostratosi restio ad assolvere i peccatori impenitenti, proprio come la professoressa cui sarà indirizzata la "lettera" si mostrerà restia a promuovere gli studenti impreparati.

Caro Padre,

c’è usanza che il predicatore sia accolto in parrocchia con onore. Siede perfino nel confessionale del parroco. E il parroco quei giorni tenta di non confessare. Anzi guarda dall’altra parte per non mettere a disagio quei poveretti che han sempre bisogno di un confessore estraneo.

Lui li conosce bene anche senza guardare; son le solute tre categorie: 1. Scrupolosi; 2. Sacrileghi; 3. Quelli che han leticato con lui. Lui tutto questo lo sa. Anzi è PRECISAMENTE per questo che ha invitati il prete di fuori. Perché gli curi questi tre malati e li riporti a lui. In conclusione, Padre, le dirò senza complimenti che, nonostante l’accoglienza d’onore, in pratica noi parroci se vi invitiamo è per Servirci. E se ci pensa converrà che è giusto che sia così.

Peri campagnoli il confessore se non è il parroco non è nessuno Lui li ha ascoltati piccini la prima volta, da lui sono tornati e torneranno nelle ore liete e gravi della loro vita, lui ha da confessarli nell’ora della loro morte. (…)

Ho saputo poi da lei stesso che lei nega l’assoluzione a certi consuetudinarî e recidivi. Noi questo non si fa. Lei stesso ammetterà che una divergenza così mette scompiglio nelle anime. Le chiedo dunque per piacere di adattarsi a confessare come me e al mio servizio.

Da queste parole, e da quel che segue, emerge una concezione personalistica e soggettivistica del ministero sacerdotale; una concezione paternalistica e autoritaria, uguale e contraria, in pratica, a quella che denuncia negli altri preti e soprattutto nei superiori, nei vescovi. Pare che per don Milani il ministero sacerdotale sia una cosa tutta sua, una proprietà privata del parroco, e il rapporto con i fedeli sia un rapporto esclusivo, geloso, intollerante di qualsiasi interferenza: se capita per caso un altro prete di passaggio, o meglio, un prete chiamato apposta per aiutarlo a sbrigare le confessioni di quelli che non vogliono confessarsi da lui, ebbene costui si deve adeguare, si deve uniformare, deve fare come fa il parroco, perché il parroco è tutto e gli altri sacerdoti sono niente. Come se ciò non bastasse, emerge che il prete è colui che ha l’obbligo di assolvere, sempre e comunque; perché è un padre burbero, perfino dispotico, ma è il padre dei suoi parrocchiani, e qualunque padre, alla fine, perdona ed è indulgente, sempre, anche di fronte a chi non è pentito. Infatti, si noti che don Milani dice esplicitamente che il predicatore di passaggio ha avuto il torto di non dare l’assoluzione ai peccatori consuetudinari e recidivi: vale a dire, i peccatori che ripetono all’infinito gli stessi peccati e poi si presentano in confessionale, belli, belli, aspettandosi l’assoluzione, perché così usa il loro parroco, ma senza alcun serio proponimento di non peccare più.

Don Milani ha fatto scuola e oggi esistono migliaia di preti che mettono in pratica la sua idea di ministero sacerdotale. Quel prete di Pistoia, per esempio, quel don Biancalani che intima ai "razzisti" di non entrare in chiesa, nella "sua" chiesa, e si prende i cosiddetti profughi in parrocchia, se li coccola, li porta in piscina d’estate perché fa caldo, poi posta le foto su internet; e che, davanti a uno di questi bravi giovanotti che viene beccato dalla polizia a spacciare droga ai giardinetti, uno di quelli che sono sotto la sua responsabilità, non sa dire altro che costui ha fatto una grande str…, ma che ci penserà lui a rimetterlo in riga, magari a pedate nel sedere; non deve pensarci le legge, il magistrato sbaglia a trasferirlo altrove, perché sa lui come si gestiscono queste cose, come si trattano le pecorelle smarrite. La stessa identica mentalità di don Milani nei confronti del predicatore, anzi ancora più arrogante: perché qui il dialogo non è fra due preti, ma fra un prete e un giudice. E poi il signore argentino ci viene a dire che il peggior male della chiesa e della società è il "clericalismo"; più clericalismo di così: un prete che pretende di dar lezioni a tutti, senza accettarne da alcuno, in una questione di pubblica sicurezza…

Ma loro possono, loro sono al di sopra dei comuni mortali; non perché sono cristiani (questo è da vedere), ma perché sono i Buoni e rappresentano il Bene. Pertanto, non esiste proprio che qualcuno si permetta di criticarli o anche solo di avanzare dubbi o riserve sul loro operato. Come nel caso della presunta pedofilia di don Milani, della quale si è discusso da quando venne resa pubblica una sua lettera all’amico giornalista Giorgio Pecorini, del 10 novembre 1959, in cui fra l’altro scriveva… che se un rischio corre per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!…) e poi chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso. La frase, per quanto estrapolata, è abbastanza eloquente; ma no, proibito interpretarla in maniera "negativa": Alberto Melloni, direttore dell’opera omnia di don Milani, ha ribattuto (sul Corriere della Sera del 121 aprile 2017, in un articolo di Cristina Taglietti significativamente intitolato Non infangate don Milani): Non riesco a credere che don Milani, che ha fatto una vita sacerdotale di un’innocenza assoluta e sofferente, possa essere accostato a questo. Sono le accuse dei suoi persecutori. Don Milani, che era di un’acutezza intellettuale straordinaria, sapeva bene che nel rapporto educativo c’è un equilibrio di amore e potere e sapeva governarlo. Strano modo di ragionare, per uno storico di professione: non riesco a credere che…; con le speranze non si fa ricerca storica, si fa solo ideologia. E del resto, ha risposto alla domanda se don Milani, in base a quella frase, ma anche a numerosi altri indizi, fosse un pedofilo quantomeno latente, nonché un sodomita e un pederasta che a fatica tratteneva i suoi impulsi? Se la vita sacerdotale di don Milani sia stata, come lui asserisce, di un’innocenza assoluta e sofferente, questo lo sanno solo in due, lo stesso don Milani e Dio; ma alle accuse dei suoi persecutori, cosa risponde di appropriato e pertinente? Nulla: dà una risposta ideologica: ossia che don Milani, che era di un’acutezza intellettuale straordinaria, sapeva bene che nel rapporto educativo c’è un equilibrio di amore e potere e sapeva governarlo. Equilibrio di amore e potere, e va bene; ma ha risposto alla domanda? Che significano le parole, e sia pure scritte in privato, parole di un sacerdote e di un educatore di bambini, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!…) Che cosa significa l’espressione, adoperata in senso non metaforico ma letterale, e poi chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo? E che cosa intendeva dire, scrivendo che il rischio che correva la sua anima era di portarsi a letto i suoi ragazzi, rischio cui resiste perché è un sacerdote e ha il timor di Dio, mentre un altro, al suo posto, finirebbe per metterglielo nel culo? Ha risposto a queste domande, il professor Melloni, editore e finissimo esegeta del priore di Barbiana? Evidentemente no: ha risposto alla maniera dei politici, ideologizzando e parlando d’altro. Sono tutti uguali, questo intellettuali di sinistra: se un vecchio scrittore di sinistra, come Günter Grass, rivela, a 78 anni, che aveva militato, da giovanissimo, nelle SS, tutte queste anime belle erompono in un terribile ruggito d’indignazione, si stracciano le vesti come Caifa, vorrebbero lapidare il mostro, il traditore, il nazista rinnegato; ma se si parla di un prete di sinistra le cui idee hanno lievitato nella esperienza delirante e criminale del Forteto, allora c’è una levata di scudi in sua difesa, non infangatelo!, ma come vi permettete?, lui è un santo, lui è un’anima nobilissima, lui è al di sopra di ogni sospetto, di ogni insinuazione, di ogni vile calunnia. Eppure, come aveva detto Qualcuno?, ora non ricordiamo chi, ma forse ci verrà in mente: L’albero si riconosce dai suoi frutti: l’albero buono non dà frutti cattivi, né l’albero cattivo, frutti buoni

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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