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Se non sono dèi, allora cosa sono?

Se gli dèi delle false religioni non sono realmente degli esseri divini, perché Dio è uno solo ed è quello annunciato da Gesù Cristo, che era Dio Egli stesso, allora chi o che cosa sono costoro, come li dobbiamo considerare, come li dobbiamo chiamare? Sono domande che oggi, dopo il Concilio Vaticano II, appaiono quanto di più politicamente scorretto si possa immaginare. Già solo parlare di false religioni fa scoppiare l’orticaria sulla pelle dei cattolici progressisti e vaticansecondisti: pieni di sacro rispetto verso tutte le fedi, e altrettanto pieni di vergogna nei confronti della propria, delle sopraffazioni e violenze compiute in suo nome, dalle Crociate al nazismo (anche se le Crociate sono state guerre difensive a tutti gi effetti, e il nazismo non c’entra nulla col cristianesimo), fremono, schiumano, digrignano i denti. Benché questa occasione di vederli montare in furore si presenti sempre più raramente, per non dire che praticamente non si presenta affatto: quando mai ci è capitato di sentire ancora l’espressione false religioni sulla bocca di un teologo, di un vescovo, di un sacerdote, a memoria d’uomo? Quando mai ci è capitato di leggerla su una rivista o in un libro, o di udirla pronunciare in un film o in un programma televisivo? Che ciò sia accaduto è perfino più improbabile di sentire qualcuno che si permette di contestare la cifra dei sei milioni di morti ebrei nei campi nazisti; perfino più rara di sentire un filosofo che adopera la parola "anima", o un etnologo che usa la parola "selvaggi", o un teologo morale che parla del "diavolo". Per la cultura oggi dominante, anche in ambito cattolico (ma c’è ancora differenza fra le due culture? oppure quella cattolica si è totalmente diluita nella cultura profana, adottando quasi tutto di essa, dall’evoluzionismo alla psicanalisi, e dall’ambientalismo ai diritti dell’uomo e del cittadino?), non si dà più anima, né si crede che esistano, o siano mai esistite, popolazioni selvagge, e soprattutto non si crede più all’esistenza del diavolo. Per favore: non siamo mica nel medioevo. Voltaire, Rousseau e l’Enyclopédie saranno pur serviti a qualcosa…

Da quando la Nostra aetate ha affermato la dignità di tutte le religioni e da quando la Dignitatis humanae ha solennemente proclamato il principio della libertà religiosa (smentendo il Sillabo di Pio IX e aprendo un conflitto di autorità all’interno del Magistero perenne: almeno per chi è disposto a vederlo, perché si può anche far finta di niente), pare che il concetto di false religioni sia caduto del tutto e che sia stato condannato all’eterno oblio. Eppure, è evidente che si tratta di una tolleranza inammissibile verso l’errore: una cosa che il cattolico non può permettersi, se vuol dirsi tale; lo può, se si contenta di essere un modernista, e lascia cadere la maschera del cattolico. Che non ci possano essere due o più religioni egualmente vere, lo capirebbe anche un bambino: non occorre scomodare la teologia. Che quelle non vere, cioè quelle false, non possano nemmeno pretendere la dignità di essere definite, propriamente parlando, religioni, perché una religione falsa è ipso facto una non religione, in quanto la religione è il culto reso al (vero) Dio e non a qualsiasi entità, spirito o demonio, e che quindi esse abbiano a che fare con la sociologia, con l’etnologia, con la storia, ma non con la religione, essendo un’altra cosa: anche ciò dovrebbe essere evidente a chiunque sia disposto a ragionare onestamente. Così come un bambino non può avere due madri (a parte le mostruosità oggi sperimentate da una scienza immorale, con la manipolazione del Dna umano), e si ricordi il giudizio di Salomone in proposito, così gli uomini non possono avere due o più dèi, questo è poco ma sicuro. Il problema, a questo punto, è capire chi o cosa sono quelli che i seguaci delle false religioni adorano come dèi. Sono delle pure fantasie, dei nomi senza sostanza, delle illusioni inconsistenti, simili ai sogni o alle allucinazioni? In teoria, potrebbe essere così: nel qual caso, il culto reso ad essi, nel corso delle generazioni, dei secoli e dei millenni, in fin dei conti non sarebbe stato che uno spreco di tempo e di energie. Eppure, tali culti sono stati intensamente sentiti; i popoli ci hanno creduto; hanno pregato, supplicato, invocato quelle divinità; hanno anche offerto loro dei sacrifici, e lo fanno tuttora: sacrifici che potevano, e possono, anche essere umani.

Il problema di come interpretare le altre religioni e i loro dèi, i cristiani se lo posero fin dall’inizio, fin da quando sorse la prima comunità cristiana e quindi fin da quando cominciò a esistere la chiesa cattolica. Prima ancora delle riflessioni di sant’Agostino, è nella teologia di san Paolo e in quella di san Giovanni, nell’Epistola ai Romani e negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere di san Pietro e nel libro dell’Apocalisse che si trova la questione, posta in termini estremamente concreti, al tempo dell’Impero Romano e del paganesimo tardo-antico, sincretista e polimorfo. La riflessione dei primi cristiani giunse alla stessa conclusione cui sarebbe giunta la speculazione dei grandi pensatori dei secoli successivi: le false religioni non sono neutre, non sono un trastullo, non sono semplicemente un inganno; dietro il culto degli dèi falsi e bugiardi, come li chiama Dante, si celebra, in realtà, il culto dei demoni: dunque, le false religioni sono l’equivalente della religione di Satana, che assume nomi e volti diversi, ma è sempre lui, l’antico avversario. Ora, è proprio questo che i moderni teologi e i vescovi e i sacerdoti dei nostri giorni non possono assolutamente accettare; è proprio questi che milioni di cattolici "aperti", dialoganti e progressisti si rifiutano categoricamente di prendere in considerazione, anche solo in via d’ipotesi: perché, a loro giudizio, contrasta con lo spirito del Vaticano II. Cosa dice, infatti, la dichiarazione conciliare Nostra aetate, del 28 ottobre 1965, pietra d’angolo di tutta la pastorale (e di tutta la retorica più dissennata) del dialogo interreligioso? Dice testualmente (§ 2):

Quanto alle religioni legate al progresso della cultura, esse si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così, nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l’aiuto venuto dall’alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri.

La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.

Sì, avete letto bene: non è uno scherzo della vostra vista; dice: La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Potrebbe sembrare, agli animi superficiali e alle menti grosse, un’affermazione assolutamente innocua, ragionevole e condivisibile; invece, se appena si riflette un poco, ci si accorge che essa è il cavallo di Troia con cui scardinare, se lo si vuole, tutto l’edificio della Chiesa cattolica. Che cosa significa, infatti, l’espressione quanto è vero e santo in queste religioni? Il cattolico, ma anche semplicemente chi fa un uso coerente della logica, sa che se la verità è una, ciò che non è nella verità, è l’errore: pertanto sa e comprende benissimo che nulla di vero e santo può esserci in una religione falsa, come in un sistema di idee falso. La verità non può essere parcellizzata; e, soprattutto, non può coesistere con l’errore, come l’acqua non può coesistere col fuoco: o il fuoco farà evaporare l’acqua, o l’acqua spegnerà il fuoco. Se pure vi fosse qualcosa di vero, ma certamente non di santo, in una falsa religione, la falsa prospettiva da cui essa parte ne inficia fatalmente la bontà. Non si vuol dire, ad esempio, che i seguaci delle false religioni non siano capaci di provare sentimenti di compassione per il prossimo; certo che lo possono: ma se ciò accade, non è grazie alla loro falsa religione, bensì a dispetto della loro falsa religione. Del resto, anche sul piano storico, siamo obiettivi: quale religione, all’infuori del cristianesimo, predica l’amore e il perdono verso tutte le creature umane? Il giudaismo contempla l’amore e il perdono, ma solo all’interno dei suoi membri: per gli altri, per i non eletti, valgono ben alte categorie che l’amore e il perdono. Se, nondimeno, vi sono ebrei che sanno amare e perdonare anche i non ebrei, ciò avviene non grazie alla loro religione, ma nonostante essa, perché non è essa che ordina loro di regolarsi in tal modo, al contrario. Del resto, vi siete mai chiesi perché gli ebrei, in duemila anni di storia, non hanno mai fatto minimamente ammenda del processo e della morte di Gesù Cristo, voluto dai capi della loro religione (anche se ora prevale il misero trucco di far ricadere ogni responsabilità sui romani; ma i Vangeli sono chiari: a voler assolutamente la sua morte fu il Sinedrio)? Perché, per essi, quella condanna è ancora valida; e se si trovassero nella medesima situazione, se Cristo tornasse sulla terra, e nascesse nuovamente ebreo, essi, in base alla loro religione, sarebbero tenuti ad agire come agirono Anna, Caifa e gli altri, a suo tempo. Eppure i papi del Concilio e del post-concilio si sono profusi in scuse e gesti di auto-umiliazione davanti agli ebrei, assumendosi un sacco di colpe che, storicamente, la Chiesa non ha; semmai è vero il contrario: che i papi, per secoli e secoli, hanno cercato di contenere il sentimento antigiudaico delle masse, che non essa insegnava, ma che sorgeva da precise ragioni di ordine economico e sociale. Manca poco che la Chiesa si faccia carico anche della responsabilità dell’Olocausto: ed ecco Giovanni Paolo II chiamare gli ebrei i nostri fratelli maggiori (i fratelli maggiori che hanno messo in croce Gesù Cristo e rifiutato il suo Vangelo!); ecco Benedetto XVI, per primo, affermare a chiare note ciò che era implicito nella Nostra aetate, cioè che l’Antica Alleanza è sempre valida (il che è lo stesso che dire che Gesù Cristo, rispetto agli ebrei, è venuto sulla terra per niente, e per niente è morto e risorto); ed ecco Francesco andare nella sinagoga, mettersi la kippah in testa, e ribadire in maniera ancor più esplicita l’eretica affermazione del suo predecessore. Questa è la dimostrazione evidente dell’inganno che si cela dietro questa idea di "dialogo", dove a dialogare, in realtà, è uno solamente, anzi non solo dialoga, ma si auto-censura e si auto-mortifica, mentre l’altro non fa nulla del genere, si compiace della sua "vittoria" e sorride, posando a vincitore: il fatto che, di fronte a tutto ciò, mai una parola di autocritica è uscita dalla bocca di un solo rabbino quanto alla vicenda storica di Gesù Cristo. Lasciamo stare l’aspetto squisitamente religioso; lasciano stare il piccolo dettaglio che Gesù Cristo, per i cristiani, non è un uomo, non è un profeta (checché ne dica l’eretico Enzo Bianchi), ma è vero uomo e vero Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità; ma era tanto difficile, se davvero c’era una volontà di dialogo anche dall’altra parte, riconoscere che il processo a Gesù Cristo fu ingiusto e le accuse che gli furono mosse erano illegali e pretestuose, come è stato ampiamente dimostrato dagli storici e dai buoni conoscitori della stessa legge mosaica? Invece, nulla di nulla. Qualcuno ha mai sentito un ebreo scusarsi, o anche solo dolersi e rammaricarsi, per la crocefissione di Gesù Cristo, voluta da Caifa e sostenuta da tutto il Sinedrio e dalla folla di Gerusalemme che, davanti a Pilato, continuava a gridare, furibonda: Crocifiggilo! Crocifiggilo!, benché il procuratore romano dicesse: Ma che male ha fatto ? Io non trovo alcuna colpa in quest’uomo! Piuttosto, pur di compiacere gli ebrei e questa falsa idea di dialogo, abbiamo assistito, e stiamo assistendo, a una sporca operazione, vedi padre Sosa Abascal, consistente nel mettere in dubbio l’attendibilità dei Vangeli come documenti storici, al preciso scopo di togliere questa testimonianza della Passione di Cristo, così scomoda per i nostri fratelli maggiori e così imbarazzante per i cattolici campioni del "dialogo".

E la stessa cosa si può dire per l’islamismo. Forse che vi è reciprocità nel dialogo con esso? Vi è reciprocità, mentre 300 milioni di cristiani sono perseguitati e minacciati continuamente di morte, in più di venti Paesi asiatici e africani a maggioranza islamica? Questa è la dimostrazione che una falsa religione non può essere in parte buona e in parte cattiva: se è falsa, è fuori della verità; e se è fuori della verità, è fuori anche dalla retta morale, per quanto i suoi seguaci, presi individualmente e considerati semplicemente come uomini, possano essere delle brave persone, capaci di atti altamente morali. Ma, diranno i soliti noti, i cattolici buonisti e ultraprogressisti: anche i cristiani, storicamente, hanno le loro colpe; non sempre hanno porto l’altra guancia. E qui torniamo al nostro assunto iniziale: se i cristiani peccano verso i non cristiani, lo fanno a dispetto del Vangelo (a meno che si limitino a difendersi, il che non è peccato); ma se i seguaci delle false religioni peccano verso i cristiani, lo fanno perché ciò dal loro punto di vista non è peccato, anzi sovente è un merito, se non un preciso dovere. Forse che i giudici islamici non avevano il dovere di mettere a morte Asia Bibi?

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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