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Omaggio alle chiese natie: la cappella del Seminario

Abbiamo cercato a lungo di ritardare questo momento, rinviandolo per un centinaio di volte: è da qui, infatti, dalla chiesa del seminario che avremmo dovuto partire, per varie ragioni. Un seminario vescovile (o arcivescovile, come nel nostro caso) è, per così dire, la fabbrica dei preti: il luogo ove si scremano le vocazioni sacerdotali autentiche da quelle effimere, e dove si forniscono ai futuri sacerdoti le basi della loro formazione spirituale e intellettuale, oltreché umana: tre aspetti egualmente importanti per fare di essi dei veri ministri di Dio. Dallo stato di salute di un seminario si capisce al primo sguardo lo stato di salute morale e religiosa di una città e di una diocesi: un seminario semivuoto indica una società moribonda, e un seminario del tutto vuoto, costretto a indirizzare verso un altro seminario i pochissimi giovani che vorrebbero entrarvi, indica una società morta. Da ciò si arguisce anche il valore personale di un vescovo: un vescovo la cui diocesi è rimasta, di fatto, priva di seminario e di seminaristi, è in tutto e per tutto simile a un generale senza esercito: che ci sta a fare? E a che gli servono le insegne del suo grado? Va in giro a tenere discorsi, pronuncia belle frasi, va magari in televisione, organizza pranzi per i poveri, forse anche dentro le chiese: ma è un individuo perfettamente inutile, e potrebbe benissimo tornarsene a vita privata: non serve a nulla, è solo un parassita sociale. Sono parole tropo dure? Eppure, si pensi a un generale che prenda lo stipendio da generale, ma non abbia più neanche un soldato ai suoi ordini; oppure a un manager che prenda uno stipendio da manager, ma che non abbia fatto realizzare alla sua azienda neppure un minimo margine di profitto: sono ben guadagnati, quegli stipendi? E quei signori, che ci stanno a fare sulle rispettive poltrone? Se non ci fossero, nessuno noterebbe la differenza. O meglio: se non ci fossero; se, al loro posto, ci fosse qualcuno più degno e più capace, forse quell’esercito risorgerebbe e forse quell’azienda rifiorirebbe. Perciò la permanenza in sede di quel generale e di quel manager è un’autentica disgrazia: occupano un ruolo, ma senza far nulla di buono; e impediscono a qualcuno migliore di loro di prendere il loro posto. Sono solo pietre d’inciampo, nel senso letterale del termine. Dunque: le vocazioni innanzitutto, i seminaristi innanzitutto: è su di essi che un vescovo deve concentrare tutte le sue cure. L’assistenza ai poveri, le visite agli anziani, gli articoli sui giornali, perfino le comparsate in televisione (per esempio se si è amici di giornalisti come Corrado Augias) tutto ciò va bene se fatto nel modo giusto, ma è il contorno, non la sostanza: un vescovo sta a capo di una diocesi per mantenerne desta la vita spirituale e religiosa; se il seminario è vuoto, egli ha fallito nel suo compito, e sarebbe meglio che si facesse da parte. Sappiamo benissimo che non è facile, di questi tempi suscitare e incoraggiare le vocazioni religiose; e sappiamo benissimo che ciò non dipende direttamente dal capo della diocesi. Ma sappiamo anche che lo stesso ragionamento si potrebbe fare per i genitori: non è facile essere genitori, oggi; non è facile fare dei figli, in questo momento storico; e ancor meno è facile crescerli in maniera degna, fornendo loro dei buoni esempi e tenendoli lontani il più possibile da errori e tentazioni di ogni tipo. Pure, un genitore si giudica da quel che può fare, con la farina che ha: un uomo e una donna che vivono insieme e non vogliono aver figli, perché il mondo in cui viviamo è troppo difficile; oppure li fanno, ma li crescono alla meno peggio, occupandosi di mille altre cose e dando la precedenza ai propri comodi e relegando l’affetto e l’educazione dei figli in secondo piano, costoro non son degni di essere genitori e non possono scaricare su altri le proprie deficienze.

Venendo a noi: il seminario di Udine aveva decine di seminaristi ancora alla fine degli anni ’60; oggi ne ha talmente pochi che ha dovuto chiuder bottega, ha ceduto la sua sede a una scuola privata e si è trasferito nella sede extraurbana di Castellerio (Pagnacco), nel 1996, dove, pur unendo le sue forze con gli ex seminari di Gorizia e Trieste e trasformandosi in seminario interdiocesano, non ha che un numero assai modesto di seminaristi, assai meno di quanti ne aveva da solo un tempo (una trentina in tutto). È una ben triste conclusione, per un seminario che è stato fondato più di 400 anni fa, nel 1601 e raccoglie le vocazioni di una delle più antiche, grandi e gloriose diocesi di tutta Italia, l’ex Patriarcato di Aquileia; e ciò la dice lunga sui tanto decantati frutti del Vaticano II: se l’albero si riconosce dai frutti, questi non sono affatto buoni. Eppure, a suo tempo, molti s’illusero: un’altra testimonianza eloquente, della quale abbiamo già parlato, è il grandioso convento dei Cappuccini costruito in via Colugna alla fine degli anni ’60, sull’onda delle speranze accese da quell’evento, e chiuso per mancanza di vocazioni pochissimi anni dopo. Rimasto malinconicamente vuoto con le sue celle mai utilizzate, è stato infine venduto all’università; ora la chiesa è diventata l’aula magna. Frattanto la chiesa del seminario di viale Ungheria, situato quasi nel cuore della città, è diventata… una palestra. Fu monsignor Giuseppe Nogara che volle la costruzione del nuovo seminario, dopo che il vecchio (il terzo) era stato interamente distrutto dalle bombe dei "gloriosi" liberatori angloamericani, la notte del 20 febbraio 1945, a soli due mesi dalla fine del conflitto. La diocesi di Udine aveva allora qualcosa come settecento sacerdoti, per cui Nogara volle far le cose in grande: i lavori iniziarono nel 1946 e si conclusero nel 1956. L’11 giugno 1955, malato e stremato di forze, egli riuscì a trascinarsi fino alla cappella e a benedirla: si sarebbe poi spento il 9 dicembre; la consacrazione vera e propria venne fatta dal vescovo ausiliare, monsignor Cicuttini, quando l’intero seminario venne inaugurato, nel settembre 1956, dopo che, in gennaio, era stato designato il nuovo arcivescovo Giuseppe Zaffonato, proveniente dalla diocesi di Vittorio Veneto.

Il seminario, anzi l’ex seminario di Udine, è una costruzione imponente, allineata lungo l’asse di Viale Ungheria, con un grande busto di Cristo in bronzo che sormonta il portone. La sola cosa che è rimasta in sede è la ricchissima biblioteca, dedicata a don Pietro Bertolla, che conta oltre 100.000 volumi, aperta al pubblico. La chiesa, o cappella, del seminario, non ritenendosi sufficiente la chiesa settecentesca di San Bernardino, è stata costruita all’interno del corpo centrale e, come abbiamo accennato, oggi, dopo che l’intero complesso è stato adibito a liceo, è stata trasformata in una palestra. Per la sua descrizione, e dell’intero seminario, sotto il profilo architettonico, ci affidiamo, come altre volte, al sito http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/, che ringraziamo:

Il vasto complesso del Seminario si articola in due nuclei, quello antico ottocentesco e quello nuovo novecentesco e prospetta su due fronti strada. Il nucleo antico è a ridosso della settecentesca chiesa di San Bernardino cruciforme, addossato al braccio sinistro con l’edificio a tre piani della biblioteca, al quale si innesta il trasversale braccio con andamento Nord-Sud adibito a residenza del clero anziano e a infermeria. Questa parte del Seminario affaccia fronte strada a Nord con un giardino. L’abside della chiesa tramite un ingresso porticato è connessa con il nucleo nuovo composto di tre corpi rettangolari a tre piani, disposti con andamento verso meridione attorno a un grande cortile. Il corpo di sinistra, fronte strada, è quello principale dell’ingresso, monumentalizzato, dalla facciata scandita da coppie di paraste, poste al di sopra di un’alta e unitaria zoccolatura a bugnato, in otto partizioni parietali includenti due finestre suddivise da una mediana partizione decorata da bassorilievi a soggetti simbolici; in mezzeria, preceduto da scalinata, la partizione dell’ingresso rivestita di lastre litiche scabre con il portale dalla superiore iscrizione sul quale insiste il busto bronzeo di Cristo Sapienza. All’interno del cortile il corpo trasversale lungo il lato settentrionale è preceduto in mezzeria da una gradinata e si conclude a cimasa con orologio; il lungo corpo lungo il lato orientale include il prospetto della chiesa preceduto da scalinata, la cui facciata, conclusa a due falde con ampia cornice piana a mo’ di timpano, è suddivisa nella partizione inferiore rivestita di lastre litiche rosacee includente i tre uguali portali timpanati; la superiore partizione più alta è scandita da pilastri cementizi il cui intervallo è occupato da finestrelle quadrangolari a comporre come una setto traforato; l’interno della chiesa è preceduto da un atrio a scalinata che conduce al portale vetrato. L’interno ad unica aula rettangolare presenta le pareti laterali scandite dai setti cementizi raccordantisi nelle travature del tetto entro i quali sono inserite le mense degli altari laterali; il presbiterio sopraelevato ha la parete di fondo interamente decorata in mosaico raffigurante Cristo Sacerdote e Maria in atto di presentargli i sacerdoti e in basso l’offerta del modellino del Seminario. La chiesa è stata trasformata in palestra e per questo non è più in funzione.

Ripensando ai buoni sacerdoti e al buon vescovo della nostra infanzia, monsignor Zaffonato, ci riempie di tristezza pensare che il grandioso seminario, uno dei più belli e maestosi d’Italia, è stato trasformato in una scuola, e che la struttura periferica di Castellerio basta e avanza per accogliere i seminaristi di quasi tutta la regione. Del resto, abbiamo visto quante chiese cittadine sono state chiuse, puramente e semplicemente per mancanza di preti e anche per la scarsità dei fedeli; e quante sono state cedute ad enti pubblici, specie quelle dei collegi religiosi, oppure date in uso ad altre confessioni cristiane. Anche quelle centrali, come San Cristoforo o San Pietro Martire, hanno fatto questa fine; e così l’altra chiesa dei cappuccini, quella di via Ronchi, che esisteva da moltissimo tempo ed era aperta a tutti, specie per la Messa domenicale. Noi personalmente non abbiamo molti ricordi del seminario cittadino, anche se la sua silenziosa e maestosa presenza dava un senso di solidità e pareva garantire la perennità della tradizione cattolica e della vita spirituale, una generazione dopo l’altra, attraverso guerre, carestie, terremoti, senza mai arretrare davanti alle sfide dei tempi, ma sempre fornendo alla comunità cristiana il prezioso nutrimento del Pane Vivo disceso dal cielo, unito alla trasmissione delle Parole di vita eterna insegnate agli uomini da Gesù Cristo. Pareva una presenza destinata a durare per sempre, così come, per i bambini, i genitori esisteranno per sempre, perché ancora non si sono confrontati con il grande mistero della morte; e poiché i preti erano tanti, ci siamo presi il lusso di dare per scontato che le vocazioni ci sarebbero sempre state. Invece abbiamo visto e vissuto proprio la svolta drammatica, fra gli anni ’60 e ’70, in cui la società si è rapidissimamente laicizzata e secolarizzata, le vocazioni sono crollate, i seminari si sono svuotati e, quel che è peggio, il clero ha creduto di poter reagire alla crisi venendo a patti col mondo, accettando alcune cose inaccettabili, mostrandosi possibilista su questioni essenziali della morale cattolica. Tuttavia la disfatta nei due referendum abrogativi del divorzio e dell’aborto ha mostrato, fin dagli anni ’70, che la società era già diventata post-cristiana, e che la politica ecclesiastica di andare incontro al mondo, non per convertirlo, ma per assumere il suo punto di vista, un punto di vista essenzialmente immanentistico e antropocentrico, era la risposta più sbagliata che si potesse dare alla sfida dei tempi moderni. Non si è voluto capire che il male più grande non era, e non è, la penuria di vocazioni, ma l’indebolimento della dottrina, l’abuso della liturgia e l’infiacchimento della morale: perché le vocazioni possono sempre ridestarsi, se il terreno viene arato, concimato e seminato con amore e diligenza; ma se la dottrina è svenduta, se la liturgia è deturpata e la morale è capovolta, non ci sarà mai più alcuna ripresa, perché la gente non vede a che scopo andare in chiesa, se lì trova la stessa mentalità del mondo. In altre parole, i seminari non torneranno a fiorire, finché dei pessimi professori di teologia seguiteranno ad insegnarvi gli errori di Rahner, le eresie di Martin e a disprezzare la vera dottrina per sostituirla con una dottrina adulterata, fatta per piacere al mondo ma non certo a Dio, il solo cui si deve piacere.

Abbiamo parlato delle responsabilità dei vescovi; ora parliamo delle nostre, dei laici che oggi hanno raggiunto o superato la mezza età. La nostra generazione ha ricevuto quanto di meglio avrebbe potuto: buoni esempi e buoni insegnamenti: a casa, a scuola, in chiesa. La sua colpa è stata quella di cedere di schianto alle lusinghe del consumismo nascente, disprezzare la tradizione e mettersi sulla via di un edonismo rozzamente materialista; di non aver capito che il fuoco deve esser tenuto acceso per le generazioni venture, perché, se nessuno lo alimenta fatalmente si spegnerà. Così i ragazzi nati dopo gli anni ’70 hanno trovato il deserto: esempi mediocri e insegnamenti fuorvianti sono stati il loro nutrimento; spiritualità, zero. La chiesa postconciliare ha contribuito a tale sfacelo, inseguendo le mode del mondo; i preti si son messi a far sociologia, psicologia, politica, sindacalismo e perfino psicanalisi, di tutto, tranne che tener accesa la fiammella sull’altare di Dio; ma ciò non attenua la responsabilità dei laici. Ricordiamo d’essere entrati nel seminario di viale Ungheria solo in occasione d’un cineforum dedicato al colonialismo e al neocolonialismo, nella primavera del 1971, pochi mesi prima di lasciare per sempre la nostra città. Cosa c’entrassero Africa addio e Queimada con la vita cristiana, Dio solo sa. Quello doveva essere un segnale d’allarme: il seminario apriva le porte ai giovani, non per invitarli a cerare in sé la vocazione religiosa, ma per parlare di politica, ovviamente da sinistra, seguendo la moda del ’68. Che errore madornale; se non qualcosa di peggio.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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