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La sua manovra è chiara: santificare il Concilio

Lo aveva detto a chiare note, il signore argentino, poco dopo essere stato eletto papa: indietro non si torna, il Concilio Vaticano II è una tappa fondamentale e irrinunciabile nella storia della Chiesa; per essere cattolici, bisogna riconoscere pienamente e incondizionatamente la "svolta" operata da esso. Stano, perché la Chiesa non ha mai proceduto, nel suo cammino, a colpi di svolte; il cammino della Chiesa è sempre stato lineare, coerente e uniforme; quelli che hanno tentato d’imprimerle delle svolte, sono stati chiamati e trattati per ciò che realmente erano, degli eretici desiderosi di trascinare la Chiesa nell’apostasia. E anche i concili, tutti i venti concili ecumenici fino al Vaticano I, hanno seguito questa via: ciascuno di essi ha ribadito le verità fondamentali della fede cattolica; ciascuno si è richiamato ai precedenti concili e a tutto il precedente Magistero; nessuno, mai, ha preteso di porsi come una novità, come una deviazione, e sia pur sotto il trucco linguistico dell’aggiornamento pastorale e dell’approfondimento, rispetto alla fede e al Magistero.

Nessuno, fino al Vaticano II. Il Concilio Vaticano II ha preteso di far questo; non solo: è l’unico concilio ecumenico nella storia della Chiesa che è stato convocato senza un vero ordine del giorno, senza alcuna emergenza di tipo dottrinale o disciplinare; senza niente a cui fosse necessario rispondere per ribadire la fede dei padri, la fede di sempre e il solo Vangelo, quello di Gesù Cristo, affidato ai credenti dai Vangeli e dagli apostoli stessi di Gesù, e poi custodito e tramandato fedelmente, nel corso di millenovecento anni, dai vicari di Cristo in terra. Solo il Vaticano II si è presentato al mondo come un concilio meramente pastorale. In effetti, i documenti del Vaticano II si presentano come confermativi della dottrina e del Magistero, o, per dir meglio, proclamano di voler riaffermare e confermare l’una e l’altro; di fatto, però, alcuni di essi, come la Nostra aetate e la Dignitatis humanae, aprono spiragli a delle sconvolgenti novità: la verità oggettiva della Rivelazione cristiana è attenuata dall’affermazione del principio della libertà religiosa e da quello della volontà di dialogo con le altre religioni; le quali, evidentemente, sono innalzate dal livello di "errori", in senso teologico, a quello di legittimi culti aventi la medesima dignità intrinseca del cristianesimo cattolico. A ciò si aggiunga la cosiddetta riforma liturgica, che è stata, a tutti gli effetti, una rivoluzione; non tanto per le singole norme e per le singole novità, ma per tutto l’insieme che scaturisce da essi, e più ancora per lo spirito, indubbiamente nuovo, che le ispira e che le sottintende: uno spirito nettamente antropocentrico. La riforma liturgica, infatti, non nasconde di essere figlia della cosiddetta svolta antropologica in teologia, ispirata da Jacques Maritain, che poi si è pentito e ha sostanzialmente ritrattato, e soprattutto da Karl Rahner: un laico e un gesuita; e quest’ultimo, allievo del filosofo Martin Heidegger. Costui era un teologo che nessun teologo cattolico, prima della metà del ‘900, avrebbe riconosciuto come un proprio collega, perché il suo pensiero è intessuto di svariate eresie, la più grave delle quali è appunto questa: aver fatto dell’uomo il centro della relazione fra Dio e l’uomo stesso, capovolgendo letteralmente tutta l’impostazione della fede. Il capovolgimento degli altari, il nuovo ordo Missae, la soppressione del latino (non decretata da alcun documento ufficiale; al contrario, i documenti ufficiali confermavano l’uso della lingua latina), la scomparsa del canto gregoriano, e, più tardi, la santa Comunione sulla mano anziché in bocca, ritti in piedi anziché in ginocchio; l’accesso delle donne alle letture della Scrittura e al sevizio dei chierichetti; la scomparsa del velo sui capelli, sempre per le donne; la stretta di mano quale "segno di pace", in stile profano (e massonico) sono tutte cose che hanno spostato il senso profondo della celebrazione liturgica dall’adorazione di Dio alla celebrazione dell’uomo, dall’offerta a Dio del Sacrificio eucaristico all’auto-glorificazione dell’assemblea dei fedeli. Da qui al presentarsi in chiesa vestiti sommariamente o indecentemente; al pretendere di ricevere la Comunione anche in tale stato, come un diritto spettante in ogni caso; e, ancor più, al pretenderla pur trovandosi in stato di conclamato e pubblico di peccato, cioè in stato di adulterio rispetto al coniuge spostato secondo il Sacramento cristiano; e di qui alla licenza per ogni singolo prete di compiere ogni sorta di cambiamento e stravolgimento, togliendo o cambiando le preghiere e le formule, il passo era breve. E infatti, nel giro di pochi anni, è stato compiuto, ma sempre presentandolo come un "progresso", una forma di rinnovamento, una riscoperta del vero significato, quello originario, della Tradizione, evidentemente obliato o travisato per quasi due millenni.

Un solo vescovo, monsignor Marcel Lefebvre, vide e comprese quasi subito che tutto ciò era una rivoluzione, e che una rivoluzione cattolica equivale a un tradimento del vero cattolicesimo e della vera Chiesa, e vi si oppose. Vi si oppose non in nome di qualche personale verità, ma in nome della fedeltà a tutto ciò che la Chiesa, da secoli e secoli, insegnava a tramandava; in nome di quella verità sopranaturale, e perciò perfetta e immutabile, che non può esser modificata a seconda dei cambiamenti storici e sociali. Nessuno infatti poté accusarlo di eresia: sarebbe stato un controsenso; lo accusarono di disobbedienza e di rifiuto della comunione con la chiesa; ma la chiesa che lo accusava di rompere la comunione, se lui aveva ragione, non era più la chiesa di sempre, quella vera, ma un’altra, che, dissimulando i suoi intenti, si preparava a stravolgere il Deposito della fede e quindi a sovvertire il senso stesso della divina Rivelazione. Da parte sua monsignor Lefebvre rispose agli attacchi affermando, semplicemente, di ave difeso ciò che aveva a sua volta ricevuto, senza nulla aggiungere, senza nulla togliere; tradidi et quod accepi: ho tramandato quello che avevo ricevuto. Oggi, che conosciamo molti elementi che allora erano sconosciuti, in particolare le trame del B’Nai B’rith, del cardinale Bea, dell’arcivescovo Bugnini, del teologo eretico Rahner, e della volontà di "dialogare" a qualsiasi prezzo con il comunismo da parte dei due papi in questione, Giovanni XXIII e Paolo VI, anche a costo di abbandonare al loro destino i cristiani viventi nei Paesi del blocco sovietico e in Cina, in base all’erronea convinzione (cui erano giunti i gesuiti, veri artefici della "svolta") che presto il comunismo avrebbe trionfato anche in Occidente e che sarebbe divenuto un elemento stabile e definitivo della società mondiale futura, possiamo capire molte cose che allora parevano incomprensibili, o che, nella maggior pare dei casi, non furono neppure notate, o furono interpretate come un segno di distensione, di pace, di dialogo con il mondo moderno, all’insegna di un generico desiderio di rasserenamento del clima internazionale, reso incandescente dalla Guerra Fredda (la crisi dei missili a Cuba è del 1962) e dal terrore di un conflitto nucleare generalizzato. Resta il fatto che un concilio ecumenico, per la prima volta nella storia della chiesa, si faceva dettare l’agenda e si ispirava a preoccupazioni di ordine politico, sociale, economico; per la prima volta era la chiesa che, dicendo di voler dialogare con il mondo, si metteva sul terreno del mondo, e apriva le porte al modo di pensare e di sentire del mondo; era la prima e unica volta in cui l’assemblea mondiale dei vescovi di tutti e cinque i continenti, con i vescovi extra-europei in netta maggioranza rispetto a quelli europei, e con un forte, agguerrito nucleo di vescovi massoni al centro della ragnatela, appariva subalterna alle logiche del mondo e si metteva in condizione di subire l’influenza del mondo, invece di tenere ben ferma la sua missione originaria e perenne, quella di convertire il mondo. O la chiesa converte il mondo, o il mondo convertirà la chiesa: è strano che pochi, allora, abbiano riflettuto sulla profonda verità di questa massima. Eppure, per quasi due millenni, la chiesa l’ha sempre saputo, e mai si è adeguata alle tendenze del mondo, mai ha ritenuto di dover venire a compromessi col mondo. Il compromesso fondamentale, e inaccettabile per un cattolico, è che la fede si possa ridisegnare sulla misura dei "tempi". La stessa espressione: i segni dei tempi, venuta assai di moda dopo il Concilio, è un vero cavallo di Troia: dietro un’apparenza di tipo profetico (ma puramente verbale), cela quanto di più anti-profetico si possa immaginare. I profeti, infatti, hanno sempre predicato al mondo la conversione a Dio; ora, invece, è un modo per dire che la chiesa si deve adeguare al modo di essere mondano. Esattamente il contrario di ciò che è sempre stata la missione della chiesa e un vero tradimento nei confronti del Deposito della fede, che è quello e non può essere toccato, non può essere rivisto, non può essere aggiornato: è perenne e immutabile, iota unum può essere tolto o cambiato di ciò che la Chiesa, fedelmente trasmettendo ciò che ha ricevuto da Gesù Cristo, tramanda, di generazione in generazione, nel corso dei secoli.

Ora che i nodi stanno venendo al pettine, tutti in una volta, e che anche i più miopi possono vedere, solo che lo vogliano, a quali esiziali conseguenze abbiano condotto le tanto decantate "aperture" e il tanto strombazzato "spirito conciliare", si pone, in maniera urgente e drammatica, la questione che appare come realmente ineludibile: fare il punti sul Concilio, una volta per tutte. Se esso è in linea con la storia della Chiesa, con le finalità della Chiesa, con la fedeltà della chiesa a Dio, al Dio che si è incarnato in Gesù Cristo (non a un Gesù umano, come insegna l’eretico Enzo Bianchi, il teologo di corte del signore argentino), allora ha ragione Bergoglio, hanno ragione i catto-progressisti, bisogna proseguire su quella strada, e non è possibile prescindere da quella stagione e da quella "svolta". Ha ragione don Milani, ha ragione padre Turoldo, ha ragione don Gallo, ha ragione don Farinella, ha ragione don Olivero e hanno ragione i teologi della liberazione; e in tal caso hanno torto (ma che brutta parola; diciamolo in maniera più diplomatica: sono un po’ superati) i don Bosco, i Pio IX, le suor Lucia dos Santos e le suor Faustina Kowalska, i padre Mandic e i padre Pio. Non siamo noi che contrapponiamo artificialmente due differenti modelli di vita cristiana; sono i fatti che lo mostrano. Se, viceversa, il Vaticano II rompe con la tradizione della Chiesa, se modifica e sovverte il Magistero, se capovolge la vera dottrina, se intorbida la liturgia e allontana le anime dalla verità di Cristo, verità soprannaturale e non già verità puramente umana, allora bisogna aver il coraggio di dire chiaro e tondo che il concilio ha errato, che le sue decisioni non erano ispirate dallo Spirito Santo, che i suoi lavori sono stati manipolati da una setta massonica nemica della vera Chiesa, e hanno fuorviato le anime, invece di accostale a Dio, creando le premesse affinché si allontanassero. L’albero, del resto, si riconosce dai frutti: è un concetto schiettamente evangelico. Ebbene, quali sono i frutti del Concilio? Le anime sono più vicine o più lontane da Cristo? La chiesa è più vicina o più lontana dalla divina Rivelazione? Il clero è più coerente e più credibile, o è compromesso da scandali e sozzure da ogni genere, a cominciare dai piani alti, cioè da cardiali e dai vescovi? E il peccato, è ancora all’ordine del giorno? E la grazia? E la lotta fra il bene e il male? Oppure una concezione meramente naturalistica si è sostituita alla visione genuinamente religiosa, e si spaccia questo naturalismo vagamente panteista, per cattolicesimo, mentre non lo è affatto? Come interpretare, ad esempio, tutte le attenzioni rivolte dal signore argentino ai problemi dell’ambiente, al punto da farne oggetto di una enciclica, e da tornarvi sopra in continuazione nelle sue omelie? Che cos’è la natura, per questo signore che si è presentato sin dall’inizio come colui che vuole instaurare definitivamente lo spirito del concilio nella chiesa? Prendiamo la sua affermazione che la natura, oltraggiata dagli uomini, si "vendica", apportando disastri e calamità. È un’affermazione cattolica? I cattolici vedono nella natura una entità a sé stante, che premia o punisce gli esseri umani per il loro comportamento? Non si obietti che l’espressione la natura si vendica è solo un modo di dire: è un modo di dire quando si fanno quattro chiacchiere al bar, fra amici; è qualcos’altro quando esce dalla bocca di un pontefice, rivolto a un uditorio di fedeli.

Del resto, la strategia del signore argentino si fa sempre più chiara ed esplicita: vuole blindare il Concilio, lo vuole instaurare definitivamente nel cuore del Magistero. Se il motto di san Pio X era instaurare omnia in Christo, il motto di Bergoglio potrebbe essere instaurare omnia in Concilio. Tanto per cominciare, ha proclamato santi i tre maggiori papi del concilio e del post-concilio: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, il 27 aprile del 2014, in una ben studiata doppietta (il riformatore e il presunto conservatore), indi Paolo VI il 14 ottobre 2018. L’ultima proclamazione è stata particolarmente scandalosa, perché sulla santità di Paolo VI ci sarebbe veramente molto da dire: pare (e lo diciamo con dolore, ma per aver avuto informazioni da persone direttamente infornate di ciò) che il signore argentino abbia voluto dare concretezza all’affermazione del gesuita James Martin, paladino della causa arcobaleno, secondo il quale la chiesa è piena di santi gay. A parte ciò, resta l’anomalia di questa raffica di canonizzazioni: a un papa non è richiesta la santità, ma la fedeltà al Deposito della fede. I papi proclamati santi sono relativamente pochi: è perlomeno singolare che tre papi degli ultimi decenni siano proclamati santi da uno stesso pontefice, secondo criteri che appaiono assai più "politici" che religiosi. In cosa consisteva la santità di Paolo VI, per esempio? Ma tutto diventa chiaro se si individua la strategia del signore argentino: blindare il Concilio, santificandolo. Se erano santi i due papi che l’hanno attuato e un terzo che l’ha sempre difeso (per non parlare del prossimo, lui stesso, che i suoi fan – è proprio il caso di usare questa parola – vorrebbero santo già in vita), come dubitare che esso sia stato ispirato direttamente da Dio?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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