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Alla modernità resta solo la commedia dell’apocalisse

Al nichilismo della cultura moderna, esauriti tutti i suoi miti e bruciate tutte le sue illusioni, resta una sola cosa da fare: celebrare la commedia della propria apocalisse. Perché l’apocalisse della modernità non può essere qualcosa di drammatico, o di principalmente drammatico; sarà soprattutto qualcosa di comico, e sia pure di una conicità dolorosa e involontariamente tragica. Come potrebbe essere un’apocalisse essenzialmente drammatica, se la modernità ha disprezzato e negato il concetto della verità? Senza verità, nulla è più come dovrebbe essere: neanche il dramma. Questa è la sua nemesi: affrontare l’ultimo cimento, quello da cui uscirà distrutta, seppellita e cancellata, senza neppure la serietà del tragico; e come potrebbe essere diversamente, se la modernità sta uccidendo e seppellendo se stessa? Tale spettacolo è pietoso, con qualcosa di comico: come lo spettacolo del prode Aiace che si scaglia con la massima veemenza contro un gregge di pecore. Fa ridere, anche se il sottinteso è tragico.

Uno degli scrittori che hanno visto con maggiore lucidità e chiarezza il vicolo cieco e l’esito auto-distruttivo, e allo stesso tempo poco serio, della modernità, è stato Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), scrittore e drammaturgo svizzero di lingua tedesca, protagonista, insieme a Max Frisch, del rinnovamento del teatro in lingua tedesca, la cui cifra poetica essenziale è il grottesco. Con piglio implacabile, caustico, irriverente, ha denunciato l’ipocrisia di una società materialmente soddisfatta, ma intimamente sempre più smarrita e alienata, mostrando in maniera impietosa il lato oscuro del mito del benessere di matrice liberale e borghese. È stato paragonato a Bertolt Brecht: ma, a parte l’intento innovativo e la veemenza polemica, le analogie sono forse più apparenti che di sostanza: Dürrenmatt, anche se egualmente impegnato sul piano ideologico, è meno apertamente schierato sul versante della militanza politica: non s’illude che il comunismo sia la soluzione di tutti i mali della civiltà borghese, forse anche perché il suo sguardo è troppo acuto e disincantato per lasciarsi abbagliare dall’ennesima soteriologia. C’è il comune riferimento a Kafka, questo sì; e c’è una comune ansia di rigenerazione e di riscatto: ma lo svizzero, proprio perché più riflessivo e introspettivo, ha, secondo noi, uno sguardo più ampio e più complesso sul mondo, più problematico, più pensoso, quindi meno schematico e meno semplicistico. In lui c’è la chiara consapevolezza di un mistero che aleggia al di là delle nostre certezze, un mistero insondabile, che la civiltà moderna pretende di negare o ignorare, condannandosi, così, al corto circuito e all’implosione. Ma siccome il suo sguardo non arriva a fare il passo successivo, e non può o non vuole oltrepassare ciò che è umanamente visibile, la sua riflessione sulla condizione umana moderna, pur essendo lucida, si risolve in un amaro pessimismo chiuso in se stesso: la vita, dopotutto, si risolve in una tragica beffa, nella quale gli esseri umani annaspano alla ricerca di un senso, forse anche di una redenzione, ma senza riuscire a trovarli.

Si prenda uno dei suoi romanzi a nostro avviso più significativi: La promessa (Das Versprechen), del 1956, dal quale sono stati tratti due film, uno di Ladislao Vajda, Il mostro di Mägendorff (per il quale il libro era stato pensato inizialmente come la semplice sceneggiatura), del 1958, e uno di Sean Penn, La promessa, del 2001; e uno sceneggiato televisivo italiano, diretto dal bravo Albero Negrin, nel 1979, interpretato da Rossano Brazzi. Il commissario Matthäi, efficientissimo elemento di punta della polizia investigativa, rimane molto turbato dall’assassinio di una bambina di sette anni, uccisa nel bosco da uno sconosciuto, e promette ai suoi genitori di trovare il colpevole. Le indagini puntano subito su un povero ambulante che sembra compromesso da alcuni indizi e che, arrestato, s’impicca in carcere, dopo aver confessato. Ma il commissario non è affatto convinto che sia lui il colpevole, e decide di dedicarsi anima e corpo a trovare il maniaco omicida, che, secondo lui, è un serial killer, e che quindi colpirà ancora. Per onorare la promessa fatta ai genitori della bimba, all’ultimo momento rinuncia a prendere l’aero che doveva portarlo verso un nuovo e prestigioso incarico, creando un caso internazionale e venendo licenziato dalla polizia. Divenuto privati cittadino, non solo non rinuncia alla sua personale inchiesta, ma ne fa la sua ragione di vita. Essendosi convinto che l’assassino abita nella zona e possiede una Buick nera, acquista una pompa di benzina, nella speranza che prima o poi egli vi si fermerà per fare rifornimento. Prende inoltre a vivere con sé una ex prostituta e la sua bambina, che ha la stessa età e un aspetto simile a quello della bambina assassinata: la sua intenzione è quella di tendere all’assassino una vera e propria trappola, usando la bambina come esca. I suoi pazienti sforzi vengono premiati quando la ragazzina gli riferisce che un uomo, uno sconosciuto, le ha dato appuntamento nel bosco, proprio lo stesso dov’era avvenuto il precedente delitto. A quel punto egli si mette in contatto con i suoi vecchi colleghi e ottiene che i poliziotti si appostino sul luogo: ma nulla accade, e, dopo alcuni giorni d’inutile attesa, essi se ne vanno. Depresso, rimasto solo, l’ex commissario si dà al bere. Passano gli anni e un giorno il comandante della stazione di polizia viene chiamato al capezzale di una vecchia donna morente. Questa gli confida di essere la madre dell’assassino; suo figlio, minorato mentale, aveva ucciso diverse bambine, benché lei avesse fatto di tutto per trattenerlo, e in seguito lo aveva coperto. Anche l’ultimo giorno della sua vita aveva intenzione di ucciderne una, alla quale aveva dato appuntamento nel bosco, ma era morto in un incidente, schiantandosi con la sua auto. Così, dopotutto, Matthäi aveva ragione: era stato l’unico a vedere giusto, e solo un destino beffardo aveva sottratto l’omicida alla giustizia degli uomini. Il comandante si reca da lui per dirglielo, ma è troppo ardi; alcolizzato, l’uomo non è più in sé e non capisce neppure quello che gli viene detto.

La beffa, dunque, arbitra suprema dei destini degli uomini: nella partita ingaggiata fra l’intelligenza umana e la fortuna, sin dagli albori della modernità (si pensi a Boccaccio, ma anche e soprattutto a Machiavelli), ormai è chiaro che la bilancia pende interamente a sfavore della prima; con in più l’elemento ironico, perché l’intelligenza sa anche vedere giusto, ma non possiede poi gli strumenti per tradurre il suo conoscere in salvezza. Gli anni della maggiore produzione di Dürrenmatt coincidono con la fase acuta della Guerra Fredda e con l’angoscia incombente per un possibile conflitto nucleare, che avrebbe segnato la fine dell’umanità, o, nel migliore dei casi, la sua regressione verso forme di vita primitive e precarie; ed egli è stato uno di quelli che hanno sentito con maggiore urgenza questo problema, e che lo hanno considerato con lucida, ma spassionata chiarezza nella sue dimensioni di crisi complessiva della civiltà. In tale condizione, con la sopravvivenza del genere umano appesa a un filo, ha ancora un senso fare cultura, fare letteratura, fare poesia? C’è un futuro per il romanzo, c’è un futuro per il teatro, oltre a quello di denunciare il non senso, l’assurdo, la nemesi di una civiltà che corre verso la propria fine? Un senso, però, nel dramma incombente sul genere umano, Dürrenmatt non riusciva a scorgerlo, ma solo la nemesi di una tecnica che diventa, da acclamato strumento di liberazione dalla fatica del lavoro, strumento di una possibile distruzione totale. Ed ecco l’apocalisse ridotta alle proporzioni di una commedia: c’è qualcosa di supremamente comico, in tutto ciò; qualcosa che Dürrenmatt ha cercato di tradurre in parola nei suoi romanzi, in azione nelle sue opere teatrali, e in immagine nei suoi quadri (perché il suo genio multiforme si è espresso anche attraverso la pittura).

Scrive Francesco Fiorentino nel suo saggio La commedia dell’apocalisse. Friedrich Dürrenmatt scrittore dell’era atomica (dalla rivista Lingua e letteratura dello I.U.L.M., Istituto Universitario di Lingue Moderne, Milano-Feltre, n. 26, 1996, pp. 87-88):

Friedrich Dürrenmatt è stato uno dei primi scrittori di lingua tedesca a interrogarsi sul destino dell’umanità e della letteratura nell’era atomica. Nel suo saggio "Theaterprobleme" (1955) egli formula quello che — usando un’espressione di Milan Kundera — si potrebbe definire il "paradosso terminale" della modernità, quel paradosso che costituisce il principale motivo propulsore della sua riflessione drammaturgica sul mondo moderno e sulle possibili funzioni dell’arte nell’era atomica. […] Da questa grottesca e paradossale situazione non c’è più scampo, perché i risultati del sapere umano che, senza che nessuno lo volesse, hanno portato ad essa non sono più ritrattabili. E "nel confuso affaccendarsi del nostro secolo, in questa danza finale della razza bianca", dove "tutto va avanti senza alcun intervento diretto", "non ci sono più né colpevoli né responsabili". Questa — scrive Dürrenmatt — "è la nostra disdetta, non la nostra colpa". Ingannato dal proprio sapere, prigioniero di una catastrofe che per la prima volta risulta producibile dall’uomo, erede incolpevole di una colpa commessa dalle precedenti generazioni e di cui egli sembra ormai aver smarrito persino il ricordo, l’individuo moderno cessa di essere soggetto attivo della storia. La producibilità e il "carattere definitivo" della catastrofe sembrano infatti segnare la fine di ogni dialettica evolutiva, producendo quell’"indifferenza", quella "morte per assideramento del soggettivo e dell’umano" che Dürrenmatt rappresenta esemplarmente attraverso la vicenda di Alfredo Traps, il protagonista del suo famoso racconto "Die Panne" (1956), che costituisce un "caso modello" ed esemplificatore della struttura di una società in cui regna una "totale e generale irresponsabilità". La tragicomica vicenda di questo individuo colpevole di un delitto in realtà mai commesso ha come sfondo invisibile una società ormai trasformatasi in un meccanismo oggettivo e indecifrabile, che se da una parte sottrae all’individuo ogni possibilità di intervento attivo sulla realtà, dall’altra lo affranca da ogni vincolo morale.

Sembra essersi realizzato, nella moderna società atomica, quel patto che nel racconto "Der Theaterdirektor" (1945) il diabolico direttore di teatro stringeva con gli abitanti della città in cui si trovava a praticare la sua sinistra arte, offrendo loro, in cambio della subordinazione totale al suo potere, "la liberazione da ogni forma di responsabilità". Affascinati da questo rappresentante di un male ancora possibile, che trasforma il palcoscenico in una mostruosa macchina di tortura per sferrare il suo attacco "al senso stesso dell’umanità", gli spettatori si lasciano coinvolgere sempre più nelle sue diaboliche rappresentazioni, fino ad abbandonarsi, dimentichi di ogni moralità, ad un inumano tripudio di fronte alla fine atroce di un’anziana attrice, che era stata l’unica a non sottomettersi al gioco perverso del direttore-dittatore, a opporsi, seppur passivamente, al suo potere, un potere che in cambio della rinuncia alla libertà offre "la sensazione di essere perdonati e redenti", "perché colpa ed espiazione esistono soltanto nella libertà".

Alfredo Traps, quindi, come gli spettatori del diabolico teatro, si trovano in una situazione analoga a quella del commissario Matthäi e dello stesso assassino di bambine de La promessa, il minorato Albertuccio. Ciò che essi hanno in comune è lo statuto indefinito della verità, il confine ambiguo ed incerto fra colpa e caso, lo sciogliersi e il dissolversi della libertà nella fuga dalla responsabilità. Agisce secondo giustizia il commissario, usando la figlia della sua "moglie" posticcia, come esca per attirare l’assassino? Ed è veramente colpevole un uomo che uccide senza esser capace di distinguere il bene dal male? Non è forse significativo che a punirlo, alla fine, sia il caso e non la giustizia umana? Difficile rispondere a queste domande; difficile trovare un senso nelle vicende umane. Le cose accadono, direbbe Pirandello, non si sa come. Perché accadono? Non si sa. Qualcosa le ha fatte accadere; il mondo, il mondo moderno, è una macchina che procede inesorabilmente, qualcuno lo ha messo in moto e ora è impossibile fermarlo. Verso dove, verso cosa procede? Verso la distruzione dell’umanità? È molto probabile; eppure, pare che non si trovi il macchinista capace di arrestare il treno, o forse non è possibile fermarlo. Ma proprio qui, in questo punto cruciale, crediamo risieda il punto debole dell’analisi della condizione dell’uomo moderno fatta da Dürrenmatt. Secondo lui, l’uomo moderno non è colpevole: si trova nella condizione di chi è salito su un convoglio e si accorge che non c’è il conducente, ma questo non è colpa sua, lui non ha voluto mettersi in quella situazione. Il fatto che tutto va avanti senza alcun intervento diretto, non ci sono più né colpevoli né responsabili, e che questa è la nostra disdetta, non la nostra colpa, non solo non offre una spiegazione soddisfacente del dramma della modernità, anzi non ne offre alcuna, ma va anche contro la logica. Chi ha messo in moto il meccanismo, del quale fa parte l’assenza di responsabilità individuale? Evidentemente, è stato sempre l’uomo moderno: nessun altri che lui. Qui si coglie il riflesso dell’esistenzialismo, specie sartiano: la libertà come maledizione; e della scuola di Francoforte, di Fromm e della sua Fuga dalla libertà (che è del 1941). Ma anche di Kafkfa, specialmente del Processo, e anche della Metamorfosi: che colpa ha commesso Josef K.? E Gregor Samsa, è colpevole della sua mostruosa "malattia", che l’ha trasformato in uno scarafaggio? Troppo facile dire che non vi è alcuna colpa, ma soltanto sfortuna…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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