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Dobbiamo ripartire da zero: prima di tutto, i preti

Vale la pena di rileggersi i versi del ventinovesimo canto del Paradiso di Dante (85-126):

Voi non andate giù per un sentiero / filosofando: tanto vi trasporta / l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero!  E ancor questo qua sù si comporta / con men disdegno che quando è posposta / la divina Scrittura o quando è torta. / Non vi si pensa quanto sangue costa / seminarla nel mondo e quanto piace / chi umilmente con essa s’accosta. / Per apparer ciascun s’ingegna e face / sue invenzioni; e quelle son trascorse /da’ predicanti e ‘l Vangelio si tace. / Un dice che la luna si ritorse / ne la passion di Cristo e s’interpuose, / per che ‘l lume del sol giù non si porse; / e mente, ché la luce si nascose / da sé: però a li Spani e a l’Indi / come a’ Giudei tale eclissi rispuose. /
Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi / quante sì fatte favole per anno /in pergamo si gridan quinci e quindi: / sì che le pecorelle, che non sanno, / tornan del pasco pasciute di vento, / e non le scusa non veder lo danno. / Non disse Cristo al suo primo convento: / ‘Andate, e predicate al mondo ciance’; / ma diede lor verace fondamento; / e quel tanto sonò ne le sue guance, / sì ch’a pugnar per accender la fede / de l’Evangelio fero scudo e lance. / Ora si va con motti e con iscede / a predicare, e pur che ben si rida, / gonfia il cappuccio e più non si richiede. /
Ma tale uccel nel becchetto s’annida, / che se ‘l vulgo il vedesse, vederebbe / la perdonanza di ch’el si confida: / per cui tanta stoltezza in terra crebbe, / che, sanza prova d’alcun testimonio, / ad ogne promession si correrebbe. / Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio, / e altri assai che sono ancor più porci, / pagando di moneta sanza conio. 

Il vizio di sfruttare il pulpito, o l’ambone, allo scopo di fare colpo sull’uditorio dei fedeli, non per attirare le anime alla verità del Vangelo, ma per glorificare se stessi, è dunque molto antico, se già Dante, sul limitare fra il 1200 e il 1300, ne aveva piene le tasche di certi preti che parlano di tutto e di più, che fanno la ruota come i pavoni, che buffoneggiano, che cantano e ridono come personaggi dello spettacolo, come artisti circensi o imbonitori da fiera. Chissà quante volte, entrando in chiesa per ascoltare devotamente la santa Messa, si sarà corrucciato, si sarà indignato davanti a un simile, turpe spettacolo di narcisismo e di esibizionismo; chissà quante volte si sarà morso la lingua per tacere e avrà trattenuto a stento l’impulso di alzarsi e uscire dal tempio di Dio, per poi riversare tutta la sua stizza in questi versi della Divina Commedia. Si vede che anche ai suoi tempi c’erano i don Farinella, i don Olivero e i don Biancalani, i quali, contrariamente all’ammonizione di Gesù Cristo, andavano nel mondo a predicar ciance; quelli, però, non oltrepassavano il segno in termini dottrinali, perché avevano ricevuto verace fondamento; fondamento che, dopo l’istituzione dei seminari, decisa dal Concilio di Trento (un concilio che i catto-progressisti, guada caso, non menzionano mai, se non, eventualmente, in termini negativi, come esempio di chiusura e di contrapposizione, per far meglio risaltare il solo concilio che per essi fa testo, il Vaticano II), era stabilito in maniera ancor più solida, e tale rimase fino al pontificato di san Pio X, allorché la peste modernista cominciò a infiltrarsi entro le mura. Ora, a partire dal Concilio Vaticano II, siamo in piena anarchia: nei seminari s’insegna di tutto, tranne che la sana dottrina teologica; San Tommaso d’Aquinio, in particolare, che già Leone XIII aveva raccomandato fosse studiato come il più autorevole esponente della teologia cristiana, è stato relegato in soffitta; furoreggiano altri nomi e altre tendenze, da Rahner a Kasper, da Martin a Bianchi. E ogni singolo sacerdote si sente libero di regolarsi come crede, sia a livello liturgico che pastorale, e perfino a livello dottrinale. Non c’è più una dottrina, il signore argentino lo ha detto e fatto capire in cento e cento occasioni: la dottrina è una cosa rigida, una cosa morta, una cosa buona per i farisei; no: ora c’è la carità (si vede che prima non c’era), c’è la misericordia, ci sono i poveri e i migranti: vogliamo mettere? E soprattutto c’è il discernimento: la parola magica, la parola passe-partout, la parola grazie alla quale ogni prete può decidere, in coscienza, la sua coscienza, se dare la comunione ai divorziati, se darla ai sodomiti impenitenti ed esibizionisti: come se fosse cosa loro, quasi fossero dei baristi che decidono così, a occhio, se il cliente è minorenne o no, se è sobrio o già ubriaco, e in base a ciò dargli o non dargli un’altra bevanda alcolica. A loro discrezione; cioè, volevamo dire, secondo il loro discernimento. Non in base alla verità oggettiva della dottrina cattolica; no: in base al discernimento, al qui e ora, alla situazione; insomma, storicizzando e individualizzando.

Qui si vedono gli effetti disastrosi della svolta antropologica in teologia, inaugurata da Karl Rahner. L’aver posto l’uomo al centro della riflessione teologica è stata una rivoluzione. Diciamo pure una rivoluzione copernicana: un po’ come l’aver posto il fenomeno al centro dell’intelligibile per Kant, e non più la cosa in sé. Per Kant, ciò aveva significato, in pratica, la liquidazione della metafisica, relegata fra i saperi non verificabili; per Rahner, la svolta antropologica rende in pratica obsoleto il concetto stesso della verità oggettiva, sul quale la teologia cattolica si è sempre fondata. Sempre, e non solo quella di san Tommaso d’Aquino; se si toglie la verità oggettiva, se si relativizza la nozione di Dio, il cristianesimo cade. D’altra parte, se adesso al centro della riflessione "teologica" c’è l’uomo, è perfettamente logico che la santa Messa sia trasformata in una sorta di conciliabolo protestante, e l’omelia del sacerdote si trasformi in un’arringa personale, dove ciascun prete è libero di dire e improvvisare tutto quel che gli pare. Ed è ciò a cui stiamo assistendo. Un cattolico entra in chiesa, prende posto per assistere alla santa Messa, ed è costretto a sopportare tutte le stravaganze, le intemperanze e le eccentricità di questo o quel parroco. C’è chi in chiesa non riesce nemmeno ad entrare, e alla Messa deve rinunciare, come succede in quel di Genova, dove don Paolo Farinella, ormai da due anni, si regola così: l’anno scorso per "rispetto verso i migranti", così diceva, e quest’anno per protesta contro il "decreto sicurezza" del governo Conte, che limita le possibilità di sbarco e di accesso al territorio nazionale. Ma se è fortunato, il nostro cattolico trova la porta aperta e riesce ad assistere alla Messa. Ma quale Messa? Non sappiamo più nemmeno se scriverlo con la maiuscola o con la minuscola: in effetti, talvolta si dubita che vi sia la cosa più importante, la Presenza Reale di Cristo nel Sacrificio eucaristico. Fra chitarre e tamburelli come "musica sacra", buffonate e arringhe politicizzate al posto dell’omelia, divorziati o protestanti che accedono tranquillamene alla Comunione, ovviamente prendendo l’Ostia colle mani e portandosela in bocca (e guai se un prete si azzarda a tentare di darla in bocca: i primi a protestare sono proprio i religiosi, a cominciare da certe suore femministe che si rivolgono direttamente al vescovo per far sgridare il reprobo), gente che va da tutte le parti a stringersi la mano, frizzi e lazzi di ogni tipo al posto della vera liturgia, e qualche canto stile rock o rap al posto del vero canto liturgico, c’è di che restare più che perplessi: scandalizzati. Di fatto, conosciamo moltissime persone che hanno smesso di recarsi alla santa Messa per questo preciso motivo: che non sopportano più di vedere il sacro rito trasformato in una kermesse in stile televisivo, sulla falsariga di Maria De Filippi invece che su quella di San Pio da Pietrelcina. C’è anche il prete che pronuncia l’omelia col microfono in mano, girando fra i banchi e interrogando scherzosamente i fedeli, anche su argomenti frivoli e del tutto estranei, non diciamo alle letture sacre del giorno, ma anche al senso religioso sia pur concepito in senso ampio. C’è il telefonino che squilla e c’è il prete scherzoso e accomodante che inframmezza la predica con battute del tipo: Risponda, risponda pure, non faccia complimenti. Speriamo solo che non sia la sua amante. E giù ammiccamenti, ridate e risolini del pubblico, cioè, volevamo dire, da parte dei fedeli. Ma fedeli di cosa? Non crediamo di essere retrivi né bigotti, ma in simili frangenti crediamo sia inevitabile arrossire, sentirsi profondamente a disagio. Ci si chiede dove si sia capitati, cosa si stia facendo in quel luogo, con quelle persone. Ma quel prete, ma quei fedeli, lo sanno che cos’è la santa Messa? Lo sanno che è la celebrazione del Sacrificio eucaristico? E lo sanno che è l’offerta del Sacrificio di Cristo che si rinnova e che il sacerdote, coi fedeli, offre al Padre celeste; non già qualcosa che gli uomini offrano a Dio di tasca propria? Che cosa ha l’uomo da offrire a Dio, che Dio già non possieda, e in grado incommensurabilmente più perfetto? La sola cosa che possono offrire, umilmente, devotamente, è il Sacrificio che Gesù stesso, il Figlio divino, ha fatto per amore di essi: ed è rivolta al Padre, con la mediazione dello Spirito Santo. Questa è la messa.

La radice del problema è nella nuova idea di Chiesa che si è affermata a partire dal Concilio Vaticano II; in subordine, il problema risiede nei seminari. Evidentemente, oggi nei seminari si insegna di tutto un po’, perfino corsi di ateismo (lo sappiamo per certo: ce l’ha confessato, desolato, un sacerdote che ha frequentato il seminario negli anni ’70), nonché una quantità di autori e testi non cattolici, in particolare protestanti della scuola cosiddetta liberale: Rudolf Bultmann, Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer (quest’ultimo automaticamente santificato dall’essersi opposto al nazismo ed esser morto in un campo di concentramento). E poi sociologia, psicologia, psichiatria. Non sarà che la vocazione religiosa è un caso psichiatrico? Sta di fatto che anche questo abbiamo dovuto vedere: il cardinale Braz De Aviz che, in un documento ufficiale, consiglia alle donne che desiderano votarsi alla verginità religiosa, di farsi per prima cosa una bella visita psichiatrica. Lo stesso succede a quei sacerdoti cattolici che non condividono la svolta gay-friendly, specie negli Stati Uniti: i loro vescovi li spediscono dallo psichiatra, per capire cosa c’è nella loro testa che non funziona. E uno pseudo papa che, in un documento ancor più ufficiale, dice chiaro e tondo che non è sano cercare il silenzio: come dire che migliaia di monaci e suore sono altrettanti casi patologici. Il soprannaturale scompare, si scioglie nel dato naturale: tutto si può e si deve spiegare in termini scientifici, o meglio parascientifici, cioè freudiani o junghiani (e Jung è ancora più nocivo di Freud, coi suoi svolazzi pseudo mistici e pseudo spirituali). Oggi un divorziato che chiede consiglio al prete, si sente rispondere che è la sua stessa coscienza che deve dirgli se la sua vita è impostata bene oppure no: chi è il prete per giudicarlo? Se ha rotto la sacra promessa del matrimonio, avrà pur avuto le sue ragioni. E un giovane con tendenze omosessuali, che si rivolge al sacerdote per aver consiglio, si sente dire che non c’è nessun problema, che è tutto a posto, che Dio ama ciascuno così com’è, non pretende di cambiarlo, l’importante è che siamo felici e che ci realizziamo. Felicità, realizzazione: da quando in qua sono i concetti fondamentali della morale cattolica? Eppure, per moliti preti, lo sono diventati. Quando, come? In questi ultimi cinquant’anni: a partire dal Concilio e sulle orme della svolta antropologica. Ma tutto questo è ancora cattolicesimo? Ovviamente no; ma guai a dirlo in giro. Bisogna fare finta che vada tutto bene, anzi, che questa sia la migliore interpretazione possibile del cattolicesimo. E da quando in qua il Vangelo è una faccenda d’interpretazione soggettiva? Dai tempi di Lutero, naturalmente. Quindi i cattolici sono diventati luterani? Ovviamente sì. Ma anche questo, meglio non dirlo; del resto, parlano i fatti: per i cinquecento anni della sciagurata apostasia luterana e dello scisma protestante, le Poste Vaticane hanno pensato bene di emettere un francobollo commemorativo, con Cristo in croce e, ai suoi piedi, non la Vergine Maria e San Giovani, bensì Martin Lutero e Filippo Melantone. Splendido, vero? Già: peccato solo per un piccolo dettaglio: che tutto ciò non è per niente cattolico. Lo chiamino pure ecumenismo, lo chiamino come vogliono: del resto, sono padroni del linguaggio, perché sono riusciti a impadronirsi di tutta la stampa (ormai ex) cattolica, da L’Avvenire a Famiglia Cristiana, da Vita Pastorale a La Civiltà Cattolica. Ma è evidente che si tratta di una grossa, grossissima menzogna. Una menzogna blasfema, che grida vendetta a Dio. Una menzogna che ha lo scopo d’ingannare deliberatamente oltre un miliardo di cattolici sparsi nei cinque continenti.

Che consiglio dare, a questo punto, a un giovane che sente la vocazione religiosa e vuole entrare in seminario? Più o meno, lo stesso che ci sentiamo di dire a un giovane che si iscrive all’università: che cerchi di imparare, ma non si faccia strumentalizzare dai professori, non si faccia contaminare dal conformismo culturale, non lasci che gli facciano il lavaggio del cervello. Naturalmente, il giovane aspirante sacerdote ha un potentissimo alleato in più: Gesù Cristo; e una potentissima Madre che intercede presso di Lui: Maria Vergine. È a loro che un giovane seminarista deve affidarsi, oggi; altro che discernimento, svolta antropologica e ciarle senza costrutto, come direbbe il padre Dante. E lasciamo che Enzo Bianchi dica le sue eresie, e Vito Mancuso scriva le sue sciocchezze: ciascuno segua la sua strada. Gli eretici e gli esibizionisti vadano per la loro, dietro al pifferaio magico; i buoni cattolici vanno dietro a Gesù Cristo, consapevoli che dovranno affrontare incomprensioni e persino persecuzioni, anche dentro la chiesa. Non è successa la stessa cosa ai francescani e alle francescane dell’Immacolata, fin da quando il soglio pontificio è stato occupato dall’indegno signore argentino? Questi sono tempi di eroismo; ma la fede è sempre eroica, o non è…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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