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Là dove c’è il pericolo, là cresce ciò che salva

Il nostro mondo, il mondo al quale apparteniamo e dal quale siamo stati forgiati, è in pericolo; ed è in pericolo quella civiltà cristiana che ha creato l’Europa e che ha operato così profondamente anche sul resto dell’umanità, iniziando a farne una sola famiglia. Non è un pericolo vago e generico, ma concreto e immediato: un pericolo che ci minaccia talmente da vicino, e con tale forza, da poter predire, numeri alla mano, che, senza una brusca inversione di rotta da parte nostra, entro una o al massimo due generazioni, non ci sarà più l’Europa e non ci sarà più il cristianesimo cattolico. Il pericolo non si chiama invasione o sostituzione di popolazione, né asservimento alla tirannide plutocratica della società civile, e alla tirannide modernista nell’ambito religioso: queste sono le manifestazioni del vero male, assai più profondo, che ci sta portando verso l’annientamento, e che consiste nell’odio di noi stessi. Noi ci odiamo, in quanto europei e in quanto cristiani, e stiamo mascherando il nostro odio da misericordia: misericordia che rivolgiamo verso tutti gli altri, purché siano, appunto, altri. Non abbiano neppure un’ombra di misericordia verso noi stessi, in compenso ci prodighiamo nell’essere misericordiosi verso chi è diverso da noi, verso chi non vuole accettare i nostri valori, verso chi ci vorrebbe imporre i suoi. La recente sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che apre le porte ad una accettazione della sharia nell’Unione, con la motivazione che le tradizioni devono essere comunque rispettate, va nella direzione dell’auto-disprezzo, del masochismo e del suicidio: è come aprire la porta a ciò che è incompatibile con il nostro modo di pensare, di sentire, di essere, per un malinteso senso di tolleranza (o forse inteso anche troppo bene). Eppure, è dell’altro giorno la notizia di un neonato nigeriano che è morto in casa durante una rudimentale intervento per la circoncisione. Quella sentenza shock, che non è certo la prima e non sarà l’ultima, prolunga, sviluppa ed estremizza ciò che, in piccolo, tanti zelanti e infaticabili misericordiosi, tutti assai bene intenzionati, stanno già facendo: come quelle maestre che tolgono la parola Gesù dai canti di Natale, e la sostituiscono con laggiù, oppure li eliminano, e magari li sostituiscono con Bella ciao, e ciò per non offendere i bambini non cristiani; o come gli aderenti delle associazioni di volontariato che trasformano le chiese e le basiliche in m se e dormitori, perché diventino, da luoghi di preghiera dei cristiani, luoghi per mangiare e per dormire, sempre in nome e con la scusa dei "poveri"; come se Gesù non avesse cacciato i profanatori dal tempio proprio per ricordare ai suoi concittadini che il Tempio è la casa di Dio e non un mercato, per quanto autorizzato da certi sacerdoti.

D’altra parte, là dove c’è il pericolo, là cresce anche ciò che salva, o che potrebbe salvare: è il pericolo a mettere in moto la reazione difensiva, come gli anticorpi si mettono in azione quando un virus attacca l’organismo. È un pensiero di Heidegger, ed è ricavato, a sua volta, da un’intuizione di Hölderlin; e vi è innegabilmente un fondo di verità, che apre il cuore alla speranza anche nei frangenti più tempestosi, e fa brillare una luce, sia pur tenue, anche nelle tenebre più fitte. Tuttavia, la salvezza non è assicurata, anzi, è quanto mai problematica: non basta fare appello a ciò che il pericolo ha messo in moto, cioè una reazione difensiva; bisogna che ci sia anzitutto una volontà difensiva, cioè una volontà di battersi, di lottare veramente, e non solo per finta; e inoltre bisogna che questa volontà sia sorretta da chiara linea d’azione e da una piena consapevolezza di quali sono le forze in gioco. Finché non avremo compreso che non è la civiltà moderna la civiltà che dobbiamo difendere, perché non è essa la nostra madre, colei che ci ha formati, bensì la civiltà cristiana, che la modernità ha cercato di sovvertire senza aver nulla di meglio da offrire, tranne la licenza del piacere e il proliferare dei diritti a senso unico, nulla cioè di costruttivo e di durevole, non ci sarà salvezza, né alcuna speranza di salvezza. Dobbiamo capire che il nostro vero nemico è la modernità; gli altri pericoli sono solo una conseguenza. La modernità ha introdotto, silenziosamente, nascostamente, l’odio e il disprezzo verso noi stessi: o, se si preferisce, l’odio e il disprezzo per le nostre radici, il che è la stessa cosa. Nessun albero può vivere in buona salute se odia e disprezza le proprie radici: e questo è quel che è accaduto alla civiltà europea quando ha rifiutato e respinto la visione cristiana per sostituirla con una visione, e con la relativa pratica di vita, radicalmente antropocentrica. La malattia dell’uomo moderno è incominciata nel preciso momento in cui ha proclamato la propria "libertà": una libertà fondata sul nulla, priva di prospettive, priva di sbocchi, priva di speranza, priva di compassione. Gli orrori della modernità, dai genocidi alle guerre mondiali, dalla manipolazione genetica all’imbarbarimento tecnologico, sono racchiusi in questo peccato d’origine: nella pretesa dell’uomo di farsi dio, di innalzarsi al di sopra del proprio statuto ontologico, conquistando una libertà priva di senso, che poteva — e può — essere adopera solo in maniera puramente distruttiva.

Tornando al pensiero di Heidegger, citiamo una pagina del saggio di Alfred Jäger, L’apparire di Dio nella tarda filosofia di Martin Heidegger (nel volume Heidegger e la metafisica, a cura di Mario Ruggentini, Genova, Marietti, 1991, pp. 236-238):

Il pensiero della svolta nella storia dell’essere dall’esplodere della totale sventura alla salveza offre la chiave adatta comprendere la tara opera heideggeriana. La tara filosofia, con la sua acuta critica dell’epoca, rappresenta il tentativo di una soteriologia filosofica che nel suo andamento linguistico — in ciò nuovamente vicino ai rappresentanti della rivoluzione conservatrice – si presenta consapevolmente come non cristiana. Per altro verso, però, nonostante ogni dissomiglianza, balza agli occhi in questo punto nodale un’ulteriore, non trascurabile analogia strutturale con l’idealismo tedesco. Come Schelling vedeva all’opera Dio e nella storia universale l’attività del principio dialettico dell’"Amore" e dell’i"Ira", nella convinzione della definitiva vittoria dell’Amore sul potere del nulla, così anche in Heidegger il destino dell’essere è rivolto non verso l’annientamento, ma verso la salvezza. Poco importa che egli non si richiami a Schelling, ma al suo amico di gioventù Hölderlin: "Dove ha luogo il pericolo, là cresce anche ciò che salva". La tendenza di fondo nel destino dell’essere è rivolta alla salvezza escatologica. Il pensiero dell’"insieme dei Quattro" [cioè terra, cielo, mortali, divini, come esemplificato da Heidegger con la celebre metafora della brocca] proietta anticipatoriamente una nuova struttura del mondo della vita. Nel punto di intersezione dell’"insieme dei Quattro" accade l’apparire di Dio come meta escatologica del destino dell’essere, che in esso luminosamente si compie. Nell’intersezione assiale "cielo e terra", "mortali" e "divini" si fa evento, come Dio salvifico, la schiarita (Lichtung) dell’intima essenza dell’essere, nella cui incomparabile luce comincia un nuovo gioco del mondo, un gioco che salva.

Ogni escatologia va compresa a partire dal suo τέλος. Lo stesso vale per l’idea heideggeriana dell’apparire di Dio. Un’interpretazione della sua tarda filosofia che non vi si orienti in modo fondamentale non coglierà l’aspetto decisivo.

Non vogliamo qui aprire una discussione sul valore soteriologico della tarda filosofia di Heidegger e nel suo farsi teologia, né ritornare sul suo troppe volte citato ormai solo un Dio ci può salvare. Se ci mettessimo per questa via, dovremmo constatare che quella filosofia ha fatto assai più male che bene, per esempio vedendo come un suo discepolo, di nome Karl Rahner, ha introdotto un modo di pensare non cristiano nel cattolicesimo, e ha spacciato per il "vero" Vangelo un tale modo non cristiano, ma gnostico e velatamente panteista. Vogliamo invece soffermarci sul concetto della salvezza che viene dal pericolo, da lui espresso in Die Technik und die Kehre, del 1962; integrandolo, ovviamente, con un altro pensiero "abissale", di Nietzsche questa volta: non puoi guardare a lungo nell’abisso senza che l’abisso guardi entro di te. Perciò, se è vero quel che dice Heidegger, che l’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico, è altrettanto vero che l’essenza più profonda della nostra crisi non ha a che fare con la tecnica, né si può risolvere con strumenti tecnici, perché l’uomo ha bisogno di ben alto che delle macchine… ha bisogno di raccogliersi… di una discesa nel profondo, come notava Drieu La Rochelle. La nostra crisi ha bisogno di una risposta che viene dalla riscoperta delle nostre radici, dalla rivisitazione e dalla riappropriazione della nostra vera identità, che è stata forgiata dalla civiltà cristiana, la quale, a sua volta, aveva inglobato in sé quanto c’era di vivo e valido nella civiltà greca. Solo la civiltà moderna, unica fra tutte, ha preteso di costruire se stessa rifiutando le proprie radici e disprezzando l’esperienza di mille anni di storia, nei quali la civiltà cristiana era fiorita: in pratica, ha preteso di costruirsi sul nulla, perché anche il richiamo umanistico e rinascimentale al mondo classico era puramente strumentale, dato che del mondo classico ha voluto celare o minimizzare la sostanza intimamente religiosa.

Se l’uomo europeo, oggi, è quello che è, se ha una certa idea di se stesso, è perché glielo ha insegnato il cristianesimo, che a sua volta si è nutrito di filosofia greca. Lo storico Filippo Moisè (1803-1856) fa questa acuta osservazione nella sua monumentale Storia dei dominii stranieri in Italia (Firenze, 1839, vol. 1, p. 142):

L’uomo [nello Stato romano] ci si è mostrato sempre assorto nel cittadino, il cittadino nella repubblica; la dignità dell’individuo non s’è appalesata sennonchè dopo il promulgamento delle dottrine cristiane, poiché solo quelle ci hanno fatto apprezzare tutto il valore dell’anima.

Che cosa vi è di sostanziale, nella civiltà cristiana cui la modernità ha volto le spalle con disdegno? Guarda caso, proprio la cosa che, a parole, sta al centro della civiltà moderna, e ricorre, sempre più ossessivamente sbandierata, in tutti i discorsi degli intellettuali, dei politici e dei magistrati progressisti: la persona, la sua dignità, il suo diritto a realizzarsi. Benissimo: è un’idea cristiana; prima, non esisteva: non in questi termini. Solo che nella visione cristiana la persona ha una dignità, perché è una creatura di Dio, fatta a immagine e somiglianza di Lui; di un Dio che l’ha talmente nobilitata, da farsi uomo e da nascere dal ventre di una donna, per amore degli uomini. Ma nella visione moderna, da dove viene la dignità dell’uomo? Non da Dio, questo è certo; dalla natura, tanto meno: da dove, allora? Evidentemente, da se stesso: lui se la dà; lui se la toglie. Quando decide che la vita gli spetta per diritto, anche se rifiuta l’unione della donna e dell’uomo da cui essa si genera, ma pretende di farla nascere per vie traverse, artificiali, perfino manipolando il DNA; o quando decide che la vita non merita di venire al mondo, o non merita di proseguire, e ricorre all’aborto e all’eutanasia, egli si fa il dio di se stesso, se la dà e se la toglie. La toglie anche a quelli che ritiene indegni di esistere, la dà anche a quelli che sono sterili, perché rifiutano l’amore dell’uomo e della donna. Oppure pretende di suscitarla nelle donne di sessant’anni, che prima si sono costruite la carriera, poi non vogliono invecchiare senza aver provato le gioie della maternità, e invece di far le nonne vogliono essere mamme. La tecnica, appunto: è la tecnica che rende possibile tutto ciò. Ma la questione della vita non è una questione tecnica; nessuna questione essenziale lo è. Le questioni essenziali sono sempre di natura spirituale: e anche decidere chi vogliamo essere e per cosa vogliamo continuare a esistere. Le questioni essenziali riguardano le scelte, sono delle decisioni da prendere: e decidere vuol dire mettere in gioco la volontà, non escogitare strumenti, perché gli strumenti sono solo mezzi per fare qualcosa, ma quel che va fatto non ce lo dicono essi, dobbiamo deciderlo noi. Ora riprendiamo la nostra domanda, e chiediamoci: che cosa ci può salvare? Da dove ci può venire la salvezza? Rispondiamo: dal capire in cosa è consistito il nostro errore; e dalla ferma volontà di porvi rimedio. Il nostro errore è stato quello di voler creare una civiltà senz’anima, delle cattedrali senza Dio: nulla di nuovo, in effetti; è l’antichissimo progetto della Torre di Babele. Ma la Torre di Babele rimase incompiuta, muta testimonianza della stoltezza degli uomini, i quali, a un certo punto, non s’intesero più e finirono per disperdersi, lasciando interrotta la loro opera gigantesca e follemente ambiziosa. Così siamo noi; ma in noi moderni non c’è neppure quella smisurata, titanica volontà di affermazione. Al suo posto è subentrato il tedio (Leopardi, Schopenhauer); al tedio, la nausea (vedi Sartre: un altro discepolo di Heidegger; ma quanti cattivi discepoli, il maestro!); alla nausea, l’auto-disprezzo e l’auto-denigrazione. Ecco perché non ci vogliamo più bene: abbiamo puntato troppo in alto, e male, cioè senza umiltà e timor di Dio; e per questo stiamo facendo tutto il possibile per essere sopraffatti e scomparire: stiamo perfino avvelenando i pozzi dietro a noi. È vero: ormai solo Dio ci può salvare.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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