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29 Dicembre 2018Chi siamo noi? Che cosa siamo diventati, che cosa ci definisce, in quanto cittadini europei, in quanto cristiani, o almeno eredi della civiltà cristiana? Può essere che non ci capiti mai di farci questa domanda; può essere che viviamo alla giornata, senza troppe complicazioni, come quella di sapere chi siamo e perché esistiamo, impegnati come siano a farci domande assai più concrete ed essenziali, come quale nuovo cellulare scegliere al centro commerciale o quale tipo di schedina acquistare per tentar la fortuna. Guardarsi allo specchio è faticoso; scoprire se il naso ci pende un poco a destra oppure a sinistra, sono problemi troppo complessi e probabilmente irrisolvibili, che lasciamo a Vitangelo Moscarda e a tutti i pirandelliani come lui. A noi, basta già la pena di sapere se siamo iuventini o milanisti, europeisti o sovranisti, accoglienti o xenofobi: per le questioni più sottili e cavillose, c’è sempre tempo per riflettere, possibilmente domani; anzi, meglio ancora se dopodomani.
Ebbene, c’è un artista italiano, un pittore del XVIII secolo, che riassume meravigliosamente, nella sua opera, il senso della nostra civiltà e della sua decadenza, del suo esaurimento, della sua consunzione: il veneziano Francesco Guardi [1712-1793], figlio del pittore Domenico Guardi, nonché fratello minore di Gian Antonio e fratello maggiore di Nicolò, anch’essi pittori (mentre la sorella Maria Cecilia aveva spostato il grande Giambattista Tiepolo). Francesco Guardi è stato talvolta associato agli impressionisti, perché la sua pennellata si frange e si risolve in una sorta di smaterializzazione fatta di pura luce, anche se in realtà non è un impressionista ante litteram, perché la sua non è una ricerca "tecnica" degli effetti luministici, non ha nulla di scientifico e oggettivo, ma è un’interpretazione soggettiva, emozionale, semmai romantica, o pre-romantica, del dato esteriore, che diventa poco più di un pretesto per evocare paesaggi irreali, evanescenti e quasi onirici, e atmosfere sospese fra la realtà e l’immaginazione. Lo si è accostato anche al genovese Alessandro Magnasco (1667-1749), che appartiene, peraltro, alla generazione precedente, e che non ha legami diretti con l’ambiente veneziano; e certo è significativo che due pittori delle due più antiche compagni statali italiane, le repubbliche marinare dell’Adriatico e del Tirreno, siamo anche gli acuti interpreti di una crisi irreversibile della società italiana e, per alcuni aspetti, europea; tuttavia la pennellata del Magnasco è più drammatica, più nervosa e beffarda, soprattutto più tagliente, quasi crudele, mentre quella del Guardi, il quale ha pur sempre studiato e imitato, in gioventù, il Canaletto, non perde mai una certa compostezza formale, e conserva, anche nello sciogliersi della forma e nel dissolversi degli elementi oggettivi, una malinconica pacatezza, una sobrietà che la trattiene dal discendere la china del compiacimento vittimistico.
E tuttavia: contemplare un dipinto di Francesco Guardi, uno qualsiasi, anche un ritratto o un soggetto religioso, ma soprattutto un paesaggio, una veduta, sia essa ispirata alla dimensione quotidiana della sua Venezia, e popolata di figure di nobili o di popolani, gli uni e gli altri come smarriti in un mondo che forse non è più il loro, come disorientati in una realtà divenuta misteriosamente enigmatica, sia indugiante su luoghi di pura fantasia, i famosi "capricci" tanto cari ai pittori del Settecento, specie se disseminati di rovine o di architetture incongrue e incomplete, e ombreggiati da boschetti che hanno conservato l’ambientazione arcadica, ma la rivivono in forme stranite e un po’ inquietanti, sempre dalla pittura di questo sensibilissimo interprete del suo tempo emerge una sensazione di solitudine, di distacco, di sfaldamento, di disgregazione e perfino di suprema alienazione. È come se Francesco Guardi sentisse, e perciò anche vedesse, una progressiva dissoluzione della società del proprio tempo, l’evaporazione dei suoi valori, lo smarrimento delle sue certezze, e contemplasse, dietro la maschera di una facciata che si sostiene inalterabile nelle apparenze sempre più irrigidite, la rovina irreparabile di tutto un mondo e il presentimento di una fine ormai certa e imminente.
Così descrive l’arte del pittore veneziano il critico d’arte Pietro Zampetti, già direttore delle Belle Arti di Venezia, scomparso a Treviso nel 2011, a novantotto anni di età, ma nativo di Ancona, nel volume-catalogo della mostra tenuta a Palazzo Grassi dal 5 giugno al 10 ottobre 1965, sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica (in: Mostra dei Guardi, a cura di P. Zampetti, Venezia, Edizioni Alfieri, 1965, pp. LXIV-LXV):
Confesso che non ho mai potuto comprendere il Guardi come svagato e sperduto rappresentante dell’estremo incantato rococò", lui che pure lavorava per "la pagnotta" quotidiana, come crudelmente — e forse non senza disprezzo — affermava l’Edwards. Nei suoi quadri sacri — e son pochi, ma significativi — si vede subito che ben altra sostanza morale li anima rispetto a quelli del fratello [Gian Antonio]. Ci sono in lui interna tensione, espressione drammatica, inquietudine che mancavano all’altro. Si guardino la Crocifissione, la Deposizione, lo stesso Santo adorante di Trento: tutto vi è forza interiore, violenza di sentimenti, impeto e dramma. Si mediti sulla scena del "Miracolo" di Vienna. Quei frati fuori equilibrio, nel momento di cadere nelle acque limacciose, sono un capolavoro di immediatezza espressiva. Si provi un attimo a porli accanto alla Magnanimità di Scipione o le storie dell’Angelo Raffaele [del fratello maggiore, Gian Antonio]: un abisso! E la pala di Roncegno? Ecco Francesco ancora pieno di forza interiore, assalito da una carica di drammaticità che cerca di esplodere nei movimento scomposti dei due Sant, nelle nuvole tormentate come acque in tempesta, nella violenza stessa del segno. Si è fatto il nome del Magnasco. Non c’è dubbio che i due autori, anche se lontani di qualche decennio, hanno grande affinità tra loro. […]
Anche nelle vedute, nei suoi capricci — sui quali è inutile insistere talmente sono noti — Guardi non è quel pittore "facile" o "piacevole" o "spiritoso" che a taluno potrebbe sembrare. Se noi pensiamo che egli è l’ultimo pittore che lavora a Venezia fin quasi alla caduta della Repubblica, che la città era in decadenza anche visibile, come testimoniano i viaggiatori ed i cronisti del tempo, allora s’avverte che egli, pur facendo il quadretto "ricordo" per i "forestieri" di passaggio, non può nascondere l’interna sua amarezza.
Persino quando documenta le feste ufficiali della Repubblica, il cui fasto è ormai solo esteriore decoro senza sostanza, e vanagloria di personaggi fuori dal tempo, ebbene anche allora, e ben guardare, la sua pittura colpisce nel segno; non esalta, forse non condanna, ma certo annota con malinconica tristezza. Nella "Piazza", tante volte ripetuta, vanno i gentiluomini tronfi e le dame agghindate, ma s’agita anche il popolo minuto, ch’egli osserva con occhio attento indagatore, sollecito d’una conoscenza umana: e sono, quelle figure, quasi un Goya, quasi un Doumier [evidente refuso per Daumier]. Ma perché far nomi: Francesco è soltanto lui. Quando guarda la sua città, o la laguna, che rivela l’intonaco cadente o la casa diroccata, non è più un "capriccio", non un abile modo di raccontare, ma un malinconico, talora drammatico insistere sulla visione d’una decadenza, che l’artista sente, con struggente e profonda malinconia, nel momento stesso che di quella luce, di quel mondo, di quella atmosfera riesce a dar la suggestione, a far vivere l’immagine con una verità poetica, nascente dalla contemplazione commossa. È questo pre-impressionismo? Non so e non credo che abbia importanza. Certo che nessuno, allora, ha saputo dare sentimento così acuto, così pungente, così nostalgico, alla contemplazione del suo mondo, della sua Città, attentamente veduta, magicamente rievocata.
Se vogliamo guardarci allo specchio, se ne abbiamo la curiosità ed il coraggio, allora andiamo a contemplare i quadri di Francesco Guardi: lì c’è tutto, ci siamo noi, c’è il nostro mondo che se va in pezzi, che si dissolve; e c’è anche la nostra frivolezza, la nostra cecità, la nostra assoluta incapacità di comprendere quel che sta accadendo, di rinnovarci, di reagire, di batterci per sopravvivere. Ci sono la nostra stanchezza, la nostra ignavia, la nostra pusillanimità; ci sono la nostra amarezza, la nostra delusione, il nostro disincanto; e c’è la mancanza di onestà nel confrontarci con le nostre opere, con quel che siamo diventati, con ciò che rappresentiamo e con ciò che siamo ancora capaci di fare. E su tutto quel velo di tristezza, di malinconia, quella nebbia crepuscolare che si posa su ogni cosa, che rende liscia come l’olio l’acqua della laguna, che fa sfumare le prospettive delle piazze e la fuga delle colonne, che sembra gravare sulle spalle degli esseri umani, e ciò, curiosamente, proprio quando si direbbe che le loro figurette si librino sul terreno senza peso e senza sforzo, facendole apparire inconsistenti più che deboli, spaesate più che leggere, insomma dotate di una lievità che non è un pregio, ma una sorta di maledizione, come lo è la libertà degli uomini, a giudizio di Sartre e degli esistenzialisti. Libertà per fare cosa, leggerezza per andare dove, se ormai tutto è diventato vacuo, fluido, elusivo, quasi beffardamente illusorio? Pur nella loro leggerezza, le figure del Guardi paiono quelle di condannati, o, peggio, delle maschere di teatro, costrette a recitare la loro parte sino all’ultimo, a ridere e far ridere, anche se ormai non ci credono più, anche se non credono più a niente.: anche se la città, che è il loro palcoscenico, sta lentamente ma inesorabilmente sprofondando nel mare.
Ecco: tale è il nostro ritratto; tale è lo stato della nostra civiltà. Siamo gli attori improbabili e straniti di una recita, che inizialmente era una commedia, ma si sta trasformando in un dramma, mentre il terreno ci sta franando sotto i piedi. Recitiamo come se avessimo ancora il futuro davanti a noi, mentre è già dietro le nostre spalle: e non ce ne siamo accorti! Che cosa rappresentiamo? Nulla. Chi siamo? Nulla. Dove stiamo andando? Verso il nulla. Che cosa abbiamo costruito? Nulla. Che cosa lasceremo alle prossime generazioni? Nulla. Questa è la realtà: non facciamoci illusioni. I diritti dell’uomo e del cittadino? Una gigantesca presa in giro per giustificare la tirannide plutocratica. Le libertà civili, le conquiste sociali? Niente affatto: le prime sono solo di segno distruttivo — aborto, eutanasia, droga — e le seconde ce le stiamo rimangiando, di fatto se non di nome, l’una dopo l’altra, a cominciare dal diritto al lavoro. L’emancipazione della donna? Ma quale emancipazione; del resto, basta guardarle le donne: sono diventate più felici oggi di quanto lo fossero le loro madri o le loro nonne? Il diritto allo studio? Certo: il diritto di essere appiattiti, omologati, di sottoporsi al lavaggio del cervello; e, intanto, l’ignorantizzazione certificata da un diploma. La pace, allora? Ma le guerre, ormai, non si fanno più coi carri armati, gli aerei e i sommergibili: si fanno con lo spread, con i giudizi delle agenzie di rating, con le speculazioni di borsa: con quelli si possono mettere in ginocchio i popoli e i governi, si possono sottomettere gli Stati, senza bisogno di sporcarsi le mani, né di fornire aiuti per la ricostruzione. È migliorata la salute, si è allungata la vita umana? Niente affatto. Non si muore più di peste o di vaiolo, questo è vero, e nemmeno di tubercolosi; però si nuore di tumore, o d’infarto, o ci si ammala alle vie respiratorie a causa dell’inquinamento. Tutti mali che un tempo erano rari; e non parliamo delle depressioni, delle nevrosi, dei suicidi; quanto alla durata della vita media, è solo diminuita la mortalità infantile. Le persone sane campavano ottanta o novant’anni, e così anche oggi, ma sempre più malandate e sempre meno autosufficienti: ospedalizzate, medicalizzate, ricoverate nelle case di riposo, assistite dalle badanti. In compenso ci si distrae con l’effimero, non si pensa mai alle cose serie, per non intristirsi: si fa finta che la morte non esista, che la vecchiaia e la malattia non verranno mai a bussare alla porta di casa nostra, che andranno sempre da qualcun altro. Arriva la fine e si è impreparati: ci si rende conto di non aver vissuto nel modo giusto, di aver sprecato l’occasione. Oppure si vuol conservare la maschera sino all’ultimo, ci si vanta del proprio nulla, ci si proclama orgogliosi dei propri vizi, di tutto l’egoismo che ha impastato la propria esistenza. Mai un pensiero per quelli che verranno dopo, i nostri figli e nipoti, che faticheranno a trovare perfino l’acqua per dissetarsi. Molti sciagurati vecchi si studiano di bruciare ogni filo d’erba dietro a sé, di avvelenare anche l’ultimo pozzo. Non sopportano l’idea che la vita continuerà senza di loro: se potessero, annienterebbero il mondo intero. Eccoli questi vecchi che odiano il futuro, che non hanno imparato niente dalla vita, nemmeno la compassione, e vogliono lasciare solo fumo e rovine, rendere inabitabile il mondo per quelli che verranno: occorre farne i nomi? Sono in politica, nella finanza, nell’economia, nella magistratura, nelle professioni, nella cultura, nell’informazione, perfino nella chiesa cattolica: li conosciamo bene, li vediamo all’opera ogni giorno. Un’opera infernale, in verità. Sono loro le tragiche, allampanate figure senza materia, senza sostanza, dipinte da Francesco Guardi: manichini più che uomini, fantasmi più che esseri viventi. Morti che camminano e tuttavia non sanno di esserlo già da molto, molto tempo…
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