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Omaggio alle chiese natie: il convento di S. Agostino

Ogni volta che ritorniamo col pensiero alla nostra cara città natale, c’è un luogo, in particolare, che ci si mostra, per così dire, allo sguardo interiore, il quale, pur non essendo legato direttamente alla sfera intima dei nostri ricordi, come lo sono la casa e la strada della nostra infanzia, tuttavia ha in sé qualcosa di riassuntivo, come se compendiasse in uno spazio ristretto l’anima dell’intera città, quasi un concentrato di linee, forme, colori, profumi, sensazioni, atmosfere, in un distillato della udinesità. Ed eccoci proiettati con l’immaginazione, o forse con la memoria, o con entrambe queste facoltà, in un punto ben preciso: sul margine nord-orientale del Giardino Grande, quasi di fronte all’imponente scalinata che introduce alla facciata della Madonna delle Grazie; e diciamo "quasi" perché la nostra attenzione è rivolta più a sinistra, all’altezza dell’osteria Alle Grazie, di fronte a un piccolo giardino pubblico, dove un passaggio seminascosto, intervallato da alcuni scalini, conduce nella sovrastante via Liruti. Questo locale, preceduto da un tratto stradale pavimentato con i ciottoli di fiume, e, all’interno, arredato con le sedie impagliate e i tavoli di legno e le pareti tappezzate di antiche stampe, è ancora oggi uno dei più caratteristici della città; tuttavia non ci soffermiamo qui, ma procediamo verso quella sorta di bacino collettore che dalla piazza conduce oltre, a fianco della basilica. Il terreno è visibilmente in salita: è uno dei dislivelli più sensibili della città, dato che anticamente tutta la piazza Primo Maggio era occupata da un vasto lago, poi prosciugato, e che ancora oggi la roggia di Palma vi si versa un po’ dall’alto, scorrendo lungo il suo margine orientale, dietro un terrapieno, apparendo e sparendo sotto alcuni ponticelli e proseguendo fino al Palazzo Ottelio, poi lungo la via Verdi, indi in piazza Patriarcato, e poi ancora in via Piave, in via Gorghi, in via Manzoni e fino in via Ciconi, insomma attraversando da un capo all’altro tutta la città, per poi dirigersi a Cussignacco e infine terminare a Palmanova. Questo dislivello non era sfuggito né all’architetto veneziano Giorgio Massari, che ha dato alla basilica l’assetto definitivo, nel 1730, ristrutturando la chiesa cinquecentesca, sorta, a sua volta, sulla più antica chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, e che lo ha sfruttato in modo da dare alla facciata il massimo risalto scenografico per chi viene dalla porta di San Bartolomeo, con il maestoso pronao poggiante su quattro massicce colonne; sia, molto più tardi, a quel genio matematico che è stato Arturo Malignani (1865-1939), il quale vi aveva individuato uno dei tre punti della città in cui era possibile installare delle centraline idroelettriche (gli altri due sono in viale Volontari della Libertà e in via Castelfidardo), un progetto pionieristico oggi tornato di attualità in considerazione del risparmio energetico che consentirebbe, abbassando il tasso d’inquinamento dell’aria.

Si sale, dunque, per portarsi all’altezza del lato sinistro della basilica, lungo il Largo delle Grazie. Sulla sinistra, dopo l’osteria sunnominata, un edificio di tipo colonico, lungo e basso, con le finestre del piano terra ad altezza d’uomo, una seconda fila al primo piano, con gli scuri di legno, e sopra di esse, sotto il tetto, una fila di ocelli per dare luce alle mansarde: disposti a coppie, al centro, sopra le finestre, più altri due isolati alle estremità, sempre sopra altrettante finestre. Anche questa robusta costruzione d’impianto quasi campagnolo ospita un locale pubblico. La strada in forte pendenza, il tetto in coppi, i due grandi comignoli ai due lati, il verde rigoglioso dei platani che stormiscono nella vastissima piazza antistante, tutto dà un’idea di serenità e di pace, l’esatto contrario dei ritmi convulsi di una città moderna. È come se ci fosse più tempo per guardare e per riflettere, per camminare con calma, osservando ogni particolare. Superando l’angolo, si scopre che la casa è addossata a un altro edificio, sempre a due piani, ma più alto e pretenzioso, a metà del quale si inserisce a formare un angolo retto; e oltrepassato anche questo, sempre in salita, si scopre un muretto di pietre a secco, fittamente disposte una sull’altra, e sormontato anch’esso da un lungo tettuccio di tegole, come non ce ne sono più molti in città, da dietro il quale erompe una bella macchia di alberi di diverse specie; e già quasi si ha la vaga impressione di tornare indietro nel tempo, a un passato in cui questa parte della città conservava qualcosa, come dice l’antico toponimo, di un vasto, enorme giardino. Di fronte, sul lato destro, un tempo c’era un gruppetto di vecchissime case e perfino due mulini di una certa importanza: ne fanno fede delle fotografie di fine ‘800; ora l’elemento che attira l’attenzione è il "salto" della roggia che emerge all’altezza del lato ovest della basilica e dove un tempo stazionavano i cigni, per poi passare sotto lo scalone della chiesa e riaffiorare subito dopo. Ora, al posto delle case e dei mulini, c’è una macchia di verde: alcuni abeti allungano i loro palchi sull’acqua che scorre mormorando. Dimenticata e nascosta — per fortuna, diciamo noi — c’è una scultura che celebra il servita David Maria Turoldo, un volto in pietra con la bocca aperta, da cui scaturisce una fontanella: perfettamente in linea con la personalità egocentrica di questo pessimo sacerdote che ha lasciato trista fama di sé fra i buoni cattolici, avendo sostenuto pubblicamente la campagna per il no ai referendum abrogativi sul divorzio e sull’aborto, e avendo una volta spezzato in pubblico una corona del Rosario, per mostrare che bisogna finirla con simili superstizioni medievali; ma esaltato dai mass media come un araldo e un precursore del Concilio Vaticano II. Lasciamo che resti nell’oblio questa brutta opera celebrativa, ignoriamola come si merita, e alziamo gli occhi all’altezza dell’imbocco di via Liruti, poco prima della diramazione delle due vie che conducono oltre il largo delle Grazie, a destra la via Pracchiuso e a sinistra la via sant’Agostino: qui, di fronte a noi, anzi sopra di noi, al civico 36 si erge maestoso, sobrio, bellissimo, uno dei palazzi aristocratici più insigni e tuttavia meno conosciuti (e celebrati) della città: il palazzo della nobile famiglia Agricola (da non confondersi con il palazzo Orgnani-Agricola-di Caporiacco, in via Giovanni da Udine, sull’altro lato del Giardino Grande). Che dire di tanta bellezza? Il palazzo tardo-settecentesco, possente, e tuttavia quasi modesto nella essenzialità delle sue linee e nel nitore delle sue superfici, nei cui saloni si trovano ancora dipinti e stucchi ornamentali di notevole fattura e ingentilito, nei vani sotto-finestra, da un bellissimo rivestimento di piastrelle di ceramica (caso unico in città), offre, nella sua struttura complessiva, e tranne pochi particolari importati, come i comignoli, uno dei più puri esempi di architettura gentilizia friulana.

Così lo ricorda Maurizio Buora nella sua Guida di Udine (Trieste, Lint, 1986, pp. 356-357):

Oltre il vicolo Agricolo [per chi viene da palazzo Liruti] sorge il palazzo Agricola con le ali leggermente rientranti, Nella bella facciata settecentesca da ammirare il portale sormontato da una testa di Ercole e le soprastanti trifore, insieme con i tipici camini di gusto veneziano. Il palazzo fu sede, al tempo del regno italico, del Liceo del Dipartimento di Passariano, erede napoleonico della scuola dei Barnabiti [che aveva sede sul luogo dell’odierna Scuola Media "Manzoni", in piazza Garibaldi]. Interventi moderni all’interno e verso il cortile sono opera di E. Gilberti (1932-1933).

Si resterebbe a lungo a guardare, ammirati, lo spettacolo di una grande casa nobiliare che riunisce la funzionalità di una dimora destinata ad ospitare una numerosa famiglia di antico lignaggio e il buon gusto di un’opera bella, proporzionata e armoniosa, che conferisce lustro e decoro non solo ai suoi proprietari, ma anche, per osmosi, al luogo sopraelevato ove sorge e all’intera città nella quale s’inscrive. Lo spazio aperto che la fronteggia le consente di spiccare con maggiore evidenza architettonica; la testa di Ercole sul portone e le tre teste che sormontano i tre archi della trifora centrale al primo piano (di un uomo barbuto quella centrale, di due creature semiumane, o piuttosto di due mascheroni grotteschi, ma non orridi, anzi sorridenti, quelle ai lati), uniche note decorative in tutta la vasta superficie della facciata dalle ali incurvate verso l’interno, ad accrescere l’effetto da quinta teatrale; i comignoli colossali, simili alle torri d’un piccolo maniero, che scandiscono lo spazio aereo e spiccano netti contro il cielo azzurro dell’estate, o grigio e nuvoloso dell’inverno; il portone con le lesene in pietra disposte a formare delle superfici orizzontali alternate, più grandi e più piccole, e formate da un asse centrale più avanzato dei margini, che esalta il senso della profondità prospettica e crea delle ombre di tipo pittorico; i colori chiari dei muri e delle imposte in legno, e perfino del sottotetto (unica nota stonata, ma dovuta all’incuria odierna: la ruggine che deturpa le saracinesche della trifora centrale): tutto parla un linguaggio armonioso, ma virile, che sa di naturale eleganza e di maschia risolutezza, in un connubio perfetto.

Dopo aver sostato per tutto il tempo necessario, prendiamo a sinistra del palazzo e imbocchiamo la via Liruti, che prende il nome dalla nobile famiglia friulana che possedeva un bel palazzo proprio in fondo ad essa, sull’angolo con il viale della Vittoria: silenziosa, aristocratica, decisamente tranquilla e quasi trasognata, è una contrada che si direbbe trasportata qui da un altro luogo e da un altro tempo, coi suoi bei palazzi e il selciato romantico a grosse pietre tondeggianti. L’antico toponimo è Rive dal Zardin, riva del Giardino, perché si affaccia proprio sull’estrema propaggine settentrionale della piazza Primo Maggio, conosciuta ancora oggi come il Giardino Grande. Le case sono tutte addossate sul lato destro, il latro sinistro è aperto sul giardino pubblico cui si può accedere da un cancello, oltre che dal già citato cammino prospiciente l’antica osteria sottostante. Ed ecco, proprio all’inizio della via, si apre quasi inosservato, sulla destra, un vicolo, subito dopo il palazzo Agricola, che s’incunea, lungo e strettissimo, fra due alti muri, anch’esso col pavimento acciottolato. Oggi si chiama vicolo Agricola, ma un tempo era noto come Androne dai Ebreos, o Rive dai Ebreos, perché qui c’era il ghetto e, spiega lo storico Arduino Cremonesi, c’era anche il cimitero israelitico, dopo che, nel 1387, erano arrivati a Udine gli ebrei, come prestatori e commercianti, stabilendo la loro dimora inizialmente fuori città, presso l’attuale piazzale Chiavris; e avevano anche, aggiungiamo noi, un oratorio presso l’odierna via Manin, a fianco della Porta di San Bartolomeo, precisamente nel suggestivo vicolo omonimo. L’imbocco del vicolo Agricola si trova vicino a dove un tempo sorgeva la Porta di Cassina, così chiamata perché conduceva dall’attuale via San’Agostino, dove la roggia di Palma entrava in città, ad una cascina situata presso Planis, ma fu chiusa già nel 1412 perché ritenuta poco sicura; e lì presso c’era il cimitero ebraico, che rimase in funzione dal 1400 al 1700, ma alcune lapidi del quale erano ancora visibili nel 1829, finché, nel 1850, una sezione del cimitero urbano di San Vito venne riservata alla comunità ebraica. Fin dal 1556 gli ebrei erano stati cacciati dal centro perché accusati di aver causato la peste che in quell’anno aveva duramente colpito la città (cfr. l’articolo di Elena Comessatti, La Udine invisibile degli ebrei coi segni di sinagoghe e cimiteri, sul Messaggero Veneto del 17 ottobre 2010). Ci troviamo in un angolo suggestivo e incredibilmente nascosto della vecchia Udine; un angolo del quale, pur abitando in questa città dalla nascita, non avevamo mai neppure sospettato l’esistenza. Il destino volle che la scoprissimo in circostanze imprevedibili: quando, molti anni dopo, svolgendo il servizio militare nella brigata alpina Julia, salimmo a bordo d’una camionetta militare che imboccò l’entrata del vicolo a una velocità da mozzare il fiato e lo percorse tutto, sempre fra due alti muri laterali, in gran parte di pietre a secco, senza mai rallentare, quasi come in un film di James Bond, grazie al senso unico che rendeva impossibile incrociare un veicolo proveniente dalla direzione opposta. Fu così che scoprimmo questo vicolo acquattato nel cuore di Udine, attraversandolo come in un sogno; e ci trovammo, entrando nel cortile dall’ingresso posteriore, nella caserma Di Prampero, la cui entrata principale si apre sul lato opposto, cioè sulla via Sant’Agostino. Uscendo, poi, per tornare alla nostra caserma, sulla via Cividale, scoprimmo che il vicolo Agricola va a sboccare nel viale della Vittoria, proprio di fianco al Parco della Rimembranza, un altro giardino pubblico dove, da bambini, eravamo stati a giocare qualche volta; precisamente, sulla destra dell’ingresso principale, formato da un grande arco formato da una siepe opportunamente potata. Eravamo trasecolati: come immaginare che vi fosse una stradina così lunga, non meno di duecentocinquanta metri, che s’interna come un serpente, in una zona così centrale della città, restando tuttavia nascosta?

C’è una Sala della Rimembranza della Julia (oggi integrata in un comando interforze con unità slovene e ungheresi) nella caserma Di Prampero, il cui accesso per i visitatori è appunto in vicolo Agricola, e che contiene cimeli delle campagne militari del 1885-96 in Africa, del 1915-18, del 1940-43 in Grecia e Russia. Ed eccoci al nostro tema: le chiese di Udine. La caserma sorge infatti nell’ex convento di S. Agostino, da cui prende il nome la via. Fu costruito nel 1448 per iniziativa della beata Elena Valentinis, terziaria agostiniana o mantellata, desiderosa di trovare una sede per sé e le sorelle, presenti nella chiesa di Santa Lucia, in via Mantica. Espropriato nel 1806 dal Regno Italico e messo all’asta, passò all’esercito nel 1899. Così il cerchio si chiude, il presente tocca il passato e lo chiarisce. La civiltà che si esprime in queste vie, queste chiese, queste caserme e anche queste osterie, è una sola. Questo significa avere le radici: sapere ciò che si è e da dove si proviene…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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