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Omaggio alle chiese natie: la Madonna di Chiavris

Chi, uscendo da borgo Gemona, entra in Piazzale Osoppo, e poi percorre il lunghissimo viale Volontari della Libertà, dritto come una freccia e fiancheggiato, sulla destra, da un terrapieno oltre il quale scorre la roggia, alla fine giunge in piazzale Chiavris, una località posta a circa 3 km. dalla stazione ferroviaria e che un tempo non lontano era un villaggio a sé stante, dalle caratteristiche marcatamente rurali. Solo nel XX secolo, anzi, solo dopo la Prima guerra mondiale, è stato lambito dall’espansione edilizia della città in crescita demografica, essendo uno snodo obbligato per raggiungere, lungo la via Forni di Sotto, il nuovo ospedale cittadino, che veniva a sostituire il vecchio ospedale situato in centro, accanto alla chiesa di San Francesco; ed essendo posto sulla linea elettrica che, fino ai primi anni ’50, conduceva i viaggiatori del tram bianco fino a Tricesimo e a Tarcento, e quelli del tram verde fino a San Daniele. Ora, proprio il fatto che vi passasse la linea tramviaria ha dato il nome al vecchio bar che sorge nell’edificio d’angolo fra via Forni di Sotto e via Colugna, sul lato sinistro del piazzale, al numero civico 18, e che è uno dei locali storici friulani, conosciuto da tutti come Bar al Tram, da Bianca. Si tratta di una costruzione molto caratteristica e che costituisce, per chi giunge dal centro cittadino, un vero e proprio annuncio della campagna; o meglio, suggerisce come doveva essere l’aspetto di questa località prima che la crescita di Udine la raggiungesse e la inglobasse definitivamente, cosa che è avvenuta solo a partire dagli anni del boom economico, gli anni ’50 e ’60, che sono stati anche gli anni del boom edilizio. Prima di allora, permanevano ancora i segni del vecchio mondo contadino: c’era perfino un mulino, lungo la roggia del viale Volontari della Libertà, dietro la chiesa di San Marco, che si può vedere ancora oggi, ma, ahimè, fermo e in abbandono; e un poco più avanti, sulla destra, lungo il viale Vat, passava la progettata linea ferroviaria destinata a collegare il tronco principale, Udine-Tarvisio, con una diramazione fino a Majano, e rimasta incompiuta, con tanto di viadotto interrotto sopra la roggia, che è un vero e proprio monumento di archeologia industriale.

L’edificio consiste in una casa a due piani, dai solidi muri perimetrali, coperta da un ampio tetto aggettante con travi a vista, sormontato da un grande comignolo, tre finestre sul lato est e due sul lato sud, su ciascun piano; sul lato di via Forni di Sotto il muro si prolunga ad inglobare un’altra casa e si apre in un portone ad arco, in pietra, sormontato anch’esso da un tettuccio in coppi, uguale a quelli che si trovano nelle vecchie case rurali del medio Friuli; all’interno, un cortile che, dalla strada, passa quasi inosservato, e che un tempo doveva ospitare gli attrezzi agricoli, il magazzino, la legnaia e forse la stalla. Il colpo d’occhio che si offre, guardando dal centro del piazzale è singolare: la robusta, antica casa appare come un’isola sopravvissuta a testimoniare la vita passata: su entrambi i lati, infatti, s’innalzano e torreggiano degli enormi edifici moderni: un complesso di condomini residenziali sul lato di via Forni di Sotto, al di là di un gigantesco Cedrus Deodara dai grandiosi palchi che pur sembrano piccoli sullo sfondo del palazzo di sette piani, e sul lato opposto, in fondo al piazzale, un altro condominio di sette piani, che pare ancor più alto perché anch’esso in posizione d’angolo, fra via Colugna e l’imbocco di viale Tricesimo. In mezzo, l’edificio che ospita il Bar al Tram resiste coraggiosamente e conserva, quasi spavaldo, una sua dignità, diremmo quasi una sua fierezza d’atri tempi, una sorta di ostinazione contadina che incute rispetto. La cosa che più colpisce, oltre alla posizione d’angolo, coi due lati leggermente convergenti, è il fatto che proprio lo spigolo sia stato eliminato mediante una piccola parete frontale su cui si apre l’ingresso del locale. Al di sopra della porta, all’altezza del primo piano, e sotto il secondo che non ha finestre se non sulle due vie laterali, spicca, sul muro un po’ annerito dal tempo della solida casa contadina, un’ampia edicola religiosa di forma rettangolare, alta quanto una persona, che ospita una pittura a fresco raffigurante la Madonna. Ed è questa edicola, commovente nella sua semplicità, che, ai nostri occhi, ingentilisce l’intero piazzale e gli conferisce un aspetto amichevole e devoto.

La parte inferiore dell’affresco è gravemente deteriorata e quasi indistinguibile; per fortuna, il grosso della scena è posto nella parte superiore. La Vergine Maria è seduta, al centro, il capo velato, la testa gentilmente voltata di tre quarti, e tiene il suo divino Figlio in braccio, la testina poggiata sul suo petto; alla sua destra, e alle spalle del Bimbo, un San Giuseppe canuto e con la barba, dall’aria molto protettiva, e affettuosa, secondo una iconografia popolare assai diffusa; alla sua sinistra, tre figure di cui si vedono solo i busti, senza dubbio dei pastori adoranti; si scorgono anche, alle loro spalle, delle pietre e un grande ramo di palma. Deve perciò trattarsi, senza dubbio, di una Natività; in ogni caso, il pittor ha voluto raffigurare la Sacra Famiglia e porla a protezione degli abitanti di quella casa, come si usava un tempo. L’edificio riflette la tipica struttura architettonica delle case della borghesia rurale, o della piccola nobiltà, del XIX secolo, con minime pretese, non diciamo di eleganza, ma di decoro, che lo pongono socialmente appena un gradino più in su delle abitazioni contadine della gente comune; difficile stabilire la data dell’affresco, che, a occhio, si direbbe della stessa epoca, cioè della seconda metà dell’Ottocento. Non siamo riusciti a sapere nulla tramite una apposita ricerca: pare che nessuna guida turistica e nessun sito informatico si sia ricordato di questo dipinto che non sarà uscito dal pennello di un maestro, ma che possiede, comunque, una sua innegabile leggiadria, una rustica grazia campagnola che riesce quasi a far scordare l’anonima e banale pretenziosità delle vicine architetture moderne.

Ci siamo sempre chiesti da cosa derivi la suggestione di questa edicola che, posta entro una cornice di pietra sopra la porta d’ingresso di un bar, pochi decimetri più in alto dell’insegna sostenuta da due liste metalliche, potrebbe riuscire incongrua e quasi sgradevole alla vista, in ogni caso fuori contesto, e invece, chi sa come, si amalgama perfettamente non solo alla casa cui appartiene, ma all’intero paesaggio urbano circostante, non disturbata, ma anzi valorizzata dal traffico abbastanza intenso e dal semaforo che è posto proprio sotto di essa. Certo, l’effetto è dovuto anche all’assetto viario e architettonico: all’esser situata sul muro di un edificio che fa angolo fra due strade ampie e diritte, poste non perpendicolarmente l’una rispetto all’altra, come nei normali incroci stradali, ma a formare un angolo di circa 45 gradi, sul margine di un piazzale assai più ampio e con un grande cedro proprio nell’aiola centrale spartitraffico, così che si crea un effetto scenografico da quinte teatrali, e l’edicola votiva spicca proprio al centro di tale doppia prospettiva. E tuttavia ci par di capire che il fascino e la grazia che emanano da questa Sacra Famiglia dipendono anzitutto dal suo fare tutt’uno con il luogo, dal suo partecipare all’anima di esso. Per merito suo, il piazzale trafficato possiede un’anima; se non ci fosse, non l’avrebbe. La gente che sosta accanto al semaforo, in attesa del verde, ce l’ha sopra la testa, oppure, dal lato di via Forni di Sotto, ce l’ha di fronte: difficile non vederla, difficile ignorarla. Ma anche ammesso che ciò accada, visto che bisogna alzare lo sguardo all’altezza del primo piano, è certo che tutti gli udinesi l’hanno vista bene e da vicino, decine o centinaia di volte, per la semplice ragione che ci passa davanti l’autobus urbano che conduce in ospedale. Chiunque si reca per fare un esame o per visitare un amico o un parente, ci passa davanti, e ci passa davanti all’altezza giusta per vederla bene. Arrivando dal viale Volontari della Libertà, l’autobus numero 1 si ferma all’incrocio, poi compie una curva di novanta grandi per imboccare la via Forni di Sotto: l’autista sterza tutto, e i passeggeri che stanno seduti sul lato destri del veicolo, per un lungo momento, si trovano proiettati proprio davanti all’edicola del Bar al Tram, si vengono a trovare a un paio di metri da essa, nel momento in cui il mezzo rallenta e ruota su se stesso; chi è n piedi, deve reggersi alle maniglie: ed è allora che la poesia gentile e un po’ ingenua dell’affresco si mostra agevolmente allo sguardo. Ma, naturalmente, una cosa è vedere, e un’altra cosa è guardare. Il modo di vivere degli abitanti di una città è talmente meccanico, che non suscita stupore il fatto di passare davanti a un certo oggetto, anche ammirevole, magari più volte il giorno, e tuttavia non farci caso, cioè senza permettere che le immagini portate dagli occhi al cervello si impongano alla mente consapevole, si fissino in una immagine distinta da tutte le altre, e magari susciti una qualche forma di emozione: le persone sono come anestetizzate dai ritmi frettolosi e ripetitivi della vita moderna.

Noi stessi non sapremmo dire quando abbiamo scoperto la Sacra Famiglia di piazzale Chiavris; non c’è una prima volta che si riveli alla superficie della memoria; certo non è stato neppure quando, di ritorno da un esame del sangue all’ospedale, siamo entrati nel bar con nostro padre, in un bel mattino di primavera, per fare colazione. Un bambino affamato e felice per la piccola vacanza da scuola, sia pure per un prelievo all’ospedale, non ha la statura fisica, né, soprattutto, l’attitudine mentale ad alzare lo sguardo sopra la porta e ammirare una sacra immagine dipinta al primo piano, cento anni prima, da una mano devota. È più probabile che l’abbiamo notata proprio passandoci davanti a bordo dell’autobus urbano, diretti alla casa di un amico che abitava in via Aonez, al di là dell’ospedale, una via secondaria che mette in collegamento via Chiusaforte con la lunga via del Cotonificio (e qui scommettiamo che pochissimi udinesi sapranno che Aonez non è il nome, magari valdostano, di qualche generale o altro personaggio illustre, ma deriva dal sostantivo aonâr, aunâr, olnâr, che è l’alnus glutinosa, l’albero chiamato ontano nero). Così, passandoci davanti chissà quante volte, e registrandola in qualche scaffale dell’attenzione e, poi, della memoria, essa vi ha preso dimora, ne ha occupato uno spazio, e pur senza essere notata dalla mente conscia, è andata a depositarsi in quel misterioso bagaglio di sensazioni e di ricordi che forma il substrato affettivo che ci lega alle cose e alle persone e dal quale, talvolta, emergono, a distanza di giorni o di anni, singoli frammenti, che la nostra parte razionale riconosce solo a cose fatte, dopo che il subconscio ha lavorato in perfetta autonomia. Ciò vale per i suoni, per una musica, ad esempio, come per i colori, per i profumi, e naturalmente anche per i luoghi: ecco perché i luoghi dell’infanzia hanno sempre qualcosa di mitico e di arcano: perché non sono stati registrati dalla coscienza lì per lì, ma, il più delle volte, riappaiono dopo essere stati rielaborati lungamente, in una maniera che la nostra mente desta non giungerà mai a comprendere del tutto. La cosiddetta poesia dell’infanzia è, in realtà, il risultato di una serie di operazioni mentali che qualcosa mette in moto per suo conto, dopo aver immagazzinato e tenuto in quiescenza i materiali da cui verrà estratta; e più tempo è trascorso dalla emozione originaria, più essa acquisterà una connotazione favolosa. La sensibilità individuale e una certa predisposizione alla fantasia vi aggiungeranno, poi, la loro nota personale; e più sviluppati saranno questi aspetti, maggiore sarà la distanza fra l’esperienza sensitiva evocata e la sua versione "originale", immediata e diretta. In pratica, la dimensione della memoria non ci offre mai una registrazione fedele, ma sempre e comunque una nostra creazione, che attinge al lontano vissuto per dare vita a un qualcosa di nuovo, anche se di solito non ce ne rendiamo conto e pensiamo che si tratti semplicemente di ricordi, nel senso più banale del termine. Di qui la delusione e il senso quasi d’incredulità che proviamo se, a distanza di molti anni, torniamo sui luoghi che per noi sono legati a quelle immagini e a quelle memorie, e li troviamo così terribilmente diversi, anche nel caso in cui fossero cambiati ben poco in senso oggettivo.

Di oggettivo, comunque, nella Sacra Famiglia del numero 18 di Piazzale Chiavris — a proposito, il toponimo deriva da cjavre, in friulano "la capra": il che dà un’idea di come apparisse un tempo questa località — c’è la presenza di una edicola sacra che spicca sulla facciata di una vecchia casa e testimonia l’antica abitudine di porre le abitazioni private sotto la protezione del Signore, della Vergine Maria o di qualche Santo; protezione che idealmente si estendeva a tutti quanti si trovassero a passare nelle vicinanze, e che erano invitati a farsi il segno della croce, o mormorare una preghiera, o rivolgere un pensiero devoto verso di essa. Tale era la pietas dei nostri antenati, che si è tramandata lungo il succedersi delle generazioni, l’una dopo l’altra, fino a quando la modernità ha fatto irruzione nel mondo sobrio e gentile dei nostri nonni, che lavoravano duramente ma conservavano il timor di Dio, e giudicavano normale prendersi in casa il nipote orfano o la parente vedova, così, con semplicità e generosità, come cosa dovuta alla propria famiglia, sul modello di quella Sacra Famiglia che tanto frequentemente si vedeva rappresentata sui muri delle case, o il cui ritratto, con un rametto d’ulivo, abbelliva la parete della camera nuziale, vegliando silenziosa e ispirando al bene gli sposi. L’irruzione del consumismo e dello stile di vita americano è avvenuta fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso e, nel giro di un decennio o poco più, ha spazzato via, fisicamente e spiritualmente, quel caro vecchio mondo, portando i grattacieli e i supermercati, la smania del guadagno e l’egoismo ultraindividualista, ma soprattutto portandosi via l’anima dei luoghi e anche quella delle persone. Guarda caso, erano gli anni del Concilio: quando una parte del clero ritenne di rispondere alla sfida andando incontro al mondo. Con quali risultati, si è poi visto…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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