
Destra e sinistra: che ne è stato?
21 Dicembre 2018
La verità è ricerca e grazia
22 Dicembre 2018Il mondo, negli ultimi cinquant’anni, è stato rivoltato come un guanto, e praticamente nulla di ciò che era vero cinquant’anni fa viene passato per buono oggi. Dall’economia alla finanza, dalla critica letteraria e musicale alla televisione, allo sport, al diritto, alla psicologia, alla medicina, alla biologia, perfino alla geologia (le zolle tettoniche: e chi ne parlava, allora?), nulla è rimasto come prima: le certezze sono state annientate, e nuove verità, o presunte tali, sono emerse dopo ogni crollo. Ma là dove il mutamento è stato più impressionante, è nell’ambito religioso e morale. Quale sacerdote, quale vescovo, quale pontefice avrebbe potuto tollerare di sentir dire, in chiesa, come oggi avviene, da parte di membri del clero, ma anche da parte di personaggi invitati ad hoc, e che rappresentano l’esatta antitesi della fede cattolica come la signora Bonino, cose che allora sarebbero state considerate eresie e autentiche bestemmie? E non è solo una questione di forma e di gusto: no, è una questione di sostanza. Un papa che dice che le Persone della Santissima Trinità sono sempre in discordia fra loro; un papa che afferma che il proselitismo è un’auentica sciocchezza; un papa che dà ragione a Lutero sulla predestinazione, un papa così prima del Concilio, ma, crediamo, anche dopo, e fino a pochissimi anni fa, avrebbe suscitato delle reazioni immediate e così forti, da costringerlo a rettificare le sue parole o a dimettersi. Invece, oggi ciò non suscita una piega. Nell’ambito politico i cambiamenti sono stati quasi altrettanto radicali: i vecchi partiti sono pressoché scomparsi; l’ultimo che resta in piedi, il Pd, erede del vecchio Pc e passato attraverso numerosi restauri, aggiustamenti e maquillage, è avviato a sua volta alla rottamazione, e vende cara la pellaccia proprio perché era, ed è tuttora, il più radicato nelle istituzioni e anche sul territorio, ma in maniera semi-mafiosa, cioè monopolizzando cooperative di consumatori e organizzazioni di volontariato, e militarizzando i propri iscritti, in un modo che nessun altro partito ha mai saputo, potuto o voluto fare. Eppure, anche’esso è giunto agli sgoccioli. Cinquant’anni fa si parlava di utopia al potere, di fantasia nelle strade, di dare l’ultima spallata alla marcia borghesia, di instaurare il comunismo e liberare i lavoratori dallo sfruttamento di classe; oggi questi discorsi fanno sorridere, o forse piangere, ma certo sono percepiti come lontani e inverosimili, quasi quanto quelli che si potevano tenere nel senato dell’antica Roma o magari nell’arengo dei comuni medievali. Ma anche discorsi relativamente più moderati, come quelli che si potevano udire nell’agone politico fino a due decenni fa, apparirebbero oggi surreali: la lotta politica ha completamente cambiato volto e strategie, il vero potere si è definitivamente spostato al di fuori del Parlamento e degli stessi partiti, le modalità con cui ci si affronta per esercitare l’egemonia sono completamente diverse: e chi non l’ha ancora capito è irrimediabilmente tagliato fuori e destinato all’estinzione, così come si estinsero i dinosauri e poi altre specie del Quaternario.
Gli ultimi a capirlo sono proprio quelli che avevano messo le radici più profonde, i militanti della sinistra e gli attivisti del vecchio Pc, riciclatisi in "moderni" democratici, grazie anche ad una robustissima iniezione di quel mortifero "ricostituente" che è il cattocomunismo. Ora che, orfani di Marx, hanno la benedizione di Bergoglio. Bassetti e Galantino, e hanno anche, il che non guasta, i finanziamenti delle grandi banche e dei grandi imprenditori; ora che si sentono doppiamente forti del vangelo di Che Guevara e di quello di Gesù Cristo, non capiscono perché gli operai se ne vanno, i lavoratori gli voltano le spalle, il loro elettorale si sfarina, e, fra poco, resteranno alla testa di un esercito scomparso, evaporato nelle sabbia come l’armata perduta di Cambise. È una vera ingiustizia, una beffa del destino, un qualcosa d’inspiegabile il fatto che proprio ora, che hanno, o credono di avere tutti gli assi in mano, la gente non li capisce più, non li ascolta, non li segue. La loro reazione è d’incredulità rabbiosa, di sacra indignazione, di furore impotente e sempre più rabbioso: come osa la plebe voltar le spalle a loro, i migliori, i più puliti, i più onesti e lungimiranti? Roba da matti: par di essere tornati ai tempi della Vandea. Vuoi vedere che, per rieducare questo popolo così egoista, così xenofobo, così restio ad accogliere le loro splendide ricette per la salvezza dell’Italia (e del mondo), si troveranno costretti a ricorrere a misure estreme, come i loro bisnonni giacobini, ad esempio bruciare la casa o fucilare alcune migliaia di superstiziosi e oscurantisti popolani? Perché, se una cosa del genere dovesse mai accadere, sia ben chiaro che la colpa non sarebbe loro: loro sono il bene, sono la giustizia sociale più il progresso: come potrebbero dire o fare cose sbagliate? Se il popolino smette di ascoltarli, se smette di votarli, se preferisce votare Lega e Movimento Cinque Stelle, non c’è neanche bisogno di precisare che è il popolino a uscir dal seminatio, pertanto è il popolino che merita una severa lezione.
È significativo non solo di un modo di far politica, ma di una condizione sociologica e, vorremmo dire, di una certa antropologia, osservare le reazioni degli esponenti del Pd al fatto che il popolino si sia permesso di snobbarli, riducendo il suo consenso verso di essi, secondo gli ultimi sondaggi, a un misero 17%, mentre i Cinque Stelle sono attorno al 26% e la leghisti al 33%. Sia quando prendono la parola in parlamento, sia quando rilasciano dichiarazioni alla stampa, i Renzi, i Martina, i Fiano, i Delrio, Marattin, i Romano, le Moretti, non parlano, ma abbaiano e ruggiscono; non analizzano i fatti, ma si lanciano in furiose reprimende; non argomentano, ma insultano e inveiscono con un’acredine, con una rabbia, con un’indignazione che ricordano quelli di Caifa nel sinedrio, quando aveva davanti Gesù Cristo e cercava il pretesto per accusarlo di empietà e sacrilegio. Parlano come se la nascita del governo giallo-verde sia stata uno schiaffo intollerabile alla democrazia e una offesa nei confronti della stesa civiltà umana; si arrabbiano come un cane affamato al quale è stato sottratto l’osso; vomitano contumelie come se loro soltanto avessero governato bene, anzi meravigliosamente, e ora la nostra cara Patria, da loro così eccellentemente servita, fosse caduta nelle mani di un’orda barbarica, di un’accozzaglia di delinquenti. Non è soltanto il furore di chi si è visto sottrarre il proprio elettorato tradizionale dagli ultimi arrivati; non è solo l’amarezza di chi ha perso la presa, l’aggancio pratico e ideale con la gente comune, di cui si riteneva il solo legittimo interprete e difensore; è molto di più: è la furia incontenibile di chi si trova messo alle strette, cioè viene messo di fronte alla propria pochezza, alla propria inettitudine, al vero e proprio tradimento operato ai danni della classe lavoratrice, diventando il partito dei ricchi, delle banche e, a livello internazionale, dei Soros e della Goldman Sachs, e non può sopportarlo, non può ammettere di esser diventato così, e quindi preferirebbe veder l’Italia distrutta, calpestata, ridotta a un cumulo di macerie — dalla BCE, per esempio — pur di assistere alla disfatta di quelli che hanno preso il suo posto. Per la verità, non c’è niente di strano nel loro atteggiamento: sono sempre gli stessi, culturalmente, psicologicamente e antropologicamente, e la perdita del potere li sta facendo tornare alle origini, fa emergere la loro natura profonda. Sono nati così, dal sangue della guerra civile, sfruttando la vittoria di uno straniero che veniva ad occupare l’Italia e che, da vero nemico, qual era, si fingeva amico, attizzando gli odî e le divisioni di casa nostra; sono sempre quelli delle gloriose giornate dell’aprile e del maggio 1945, quando impazzavano, uccidendo, stuprando, picchiando chiunque non piacesse loro, solo perché avevano i mitra in mano e i vincitori avevano concesso loro qualche giorno di follia, per lasciarli sfogare, stile macelleria messicana, come si fa coi ragazzacci violenti, prima di rimetterli in riga, magari a bastonate.
E tutto questo non vale solo per i politici, ma anche, e a maggior ragione, per i cosiddetti intellettuali. Gli intellettuali di sinistra hanno vissuto e spadroneggiato in regime di monopolio per settant’anni; per settant’anni se la son cantata e suonata da soli, senza contraddittorio; hanno dettato legge, hanno scritto e imposto i libri di testo nelle scuole, perfino le canzoni che le maestre di musica insegnavano ai bambini nelle scuole, Bella ciao in testa. Ahimè, quelli dell’ultima generazione hanno assistito all’oltraggio di una Italia che è diventata, chissà come, populista e razzista e non riescono a darsi pace: i Saviano, i De Luca, gli Evagelisti, i Camilleri, schiumano rabbia e digrignano i denti, sostenuti da testate come Famiglia Cristiana e L’Avvenire, che, se è sempre vero che il mondo è rotondo e non piatto, non dovrebbero stare dalla loro parte, né dire le stesse cose che dicono loro: ma tant’è, oggi accade anche questo miracolo sulla via della Open Society Foundation del grande filantropo internazionale, lo zio George. La loro indignazione e la loro rabbia offrono uno spettacolo più che eloquente di arroganza, ma soprattutto di ridicolaggine: ecco, sono semplicemente ridicoli. Non patetici, ridicoli. È patetico colui che è stato qualcosa e poi è decaduto; ma costoro sono sempre stati piccoli e meschini, eppure strepitano e tuonano come se fossero gli dei dell’Olimpo, defenestrati da una scellerata rivolta di schiavi. Come nel caso — paradigmatico — del poeta Salvatore Quasimodo. Vale la pena di rievocarlo, perché in esso c’è tutta la psicologia di questi signori.
Correva l’anno di grazia 1959 e gli accademici svedesi ritennero di assegnargli il Premio Nobel per la letteratura, per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi. Quegli stessi signori, l’anni prima, avevano ritenuto di onorare del Nobel lo scrittore russo Boris Pasternak per il romanzo Il dottor Živago, il quale, però, non aveva potuto recarsi a Stoccolma a ritirarlo, perché le autorità sovietiche gli avevano detto chiaro e tonde che, se lo avesse fatto, sarebbe stato espulso e non avrebbe potuto tornare, inoltre gli avrebbero confiscato i suoi magri beni. A qualcuno venne perciò spontaneo istituire un confronto fra il poeta siciliano, riverito e onorato in rutto il mondo, ma non da tutti ritenuto meritevole del Nobel, e il grande scrittore russo, autore di un capolavoro assoluto, che quel premio non aveva potuto riceverlo perché impedito dalla stesso potere che tanto piaceva a Quasimodo, il quale in URSS era di casa. Apriti cielo! Il nostro poeta non poteva certo ignorare una persecuzione così sfacciata, una soperchieria tanto becera: doveva reagire, e infatti reagì. Ma ecco come riferisce l’incidente Kjell Strömberg (ne Il conferimento del Nobel a Salvatore Quasimodo, collana I Nobel, Milano, Fabbri, 1968):
Sotto il fuoco di fila dei suoi rapporti con Mosca, nel corso della conferenza stampa tenuta al suo arrivo a Stoccolma, Quasimodo negò con veemenza di appartenere a un partito politico e di essersi mai lasciato influenzare da reconditi pensieri politici nella sua creazione artistica. Infatti il caso Pasternak sembrava essere la sua più seria preoccupazione. Certo, Quasimodo si trovava a Mosca, su invito ufficiale, ma inchiodato per lunghi mesi al letto di un ospedale da una grave crisi cardiaca, quando imperversava l’affare Pasternak. Ma non aveva pronunciato le sdegnose parole che gli venivano attribuite sullo sfortunato poeta vilipeso dai suoi pari, cioè che "Pasternak era lontano dalla generazione attuale quanto la Luna dalla terra"; al contrario aveva sempre sostenuto che se gli era stato attribuito il premio Nobel, doveva essere per una ragione valida. E ai costernati giornalisti presenti a quella conferenza stampa fece sapere senza equivoci che se Pasternak aveva dovuto sopportare qualche contrarietà nella Russia sovietica a causa del suo premio Nobel, questo era poco in confronto al vero martirio che lui, Quasimodo, aveva dovuto subire per la stessa ragione, e questo per gli attacchi inqualificabili a cui era stato fatto segno nella stampa occidentale, e in particolare nella stampa parigina. Non aveva forse, perfino nel suo stesso paese, detrattori che – ne aveva talvolta l’impressione – avrebbero voluto bruciarlo vivo in Campo de’ Fiori a Roma, come vi fu bruciato un tempo Giordano Bruno? Quanto alla famosa lirica dedicata allo Sputnik, egli non aveva voluto celebrare "l’ordigno russo in sé", ma "quella nuova luna creata dal genio degli uomini con l’aiuto di Dio". È vero — osservò il giorno seguente l’editorialista di un grande quotidiano svedese — che la stampa italiana non si era fatta rappresentare a Stoccolma, per assistere al trionfo di Quasimodo, che da un solo inviato speciale, ma nessuno, a quel che si sapeva, gli aveva impedito di andarci a cercare il suo Premio.
Quasimodo, quindi, si riteneva molto più perseguitato di Pasternak, e assai più ingiustamente. Ora, per dare il giusto significato a quelle sue affermazioni, bisogna sapere che: 1) durante il fascismo aveva collaborato intensamente alle riviste di Bottai, e questo nel 1940, a Seconda guerra mondiale già iniziata; 2) aveva inviato a Mussolini una supplica per ricevere aiuti economici; 3) non partecipò affatto alla Resistenza ma si dedicò a svariate traduzioni per tutto il tempo del conflitto; 4) nel 1945 si iscrisse al Pc; 5) era anche membro della Massoneria; 6) nessuno voleva bruciarlo in Campo de’Fiori. Ma tant’è: rancorosi, arroganti, vittimisti e ridicoli. Sono loro; sempre gli stessi. Quelli che ora si battono strenuamente, coi loro colleghi francesi, per l’altro grande perseguitato innocente, quel Cesare Battisti che da anni la giustizia italiana insegue ovunque per fargli scontare quattro omicidi: ma finora invano, forse perché protetto dai servizi segreti dei nostri cari cugini d’Oltralpe…
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