
Si sente la sua puzza, ma non lo si vuol vedere
11 Dicembre 2018
La pioggia di rose che gli uomini non vogliono vedere
11 Dicembre 2018Stiamo perdendo il senso — il senso di quel che siamo; il senso di quel che dobbiamo fare; il senso di quel che dobbiamo temere e che possiamo sperare — perché ci siamo chiusi e appiattiti sul presente, e così abbiano perso, insieme alla tradizione, alle radici, all’identità, anche la continuità storica. Pertanto ci muoviamo disordinatamente come sospesi nel nulla, ignari e indifferenti persino alla direzione da prendere. La cultura del fare ha ucciso la capacità di pensare, di valutare, di decidere: si fa tanto per fare, si va avanti perché non si può neanche immaginare una scelta diversa: chi si ferma è perduto. Così, viviamo e facciamo le cose, ma quasi costretti, come se fossimo sotto ricatto; come se qualcuno ci costringesse, puntandoci una pistola alla tempia, a fare tutto quel che facciamo, e anche qualcosa di più. È talmente grande la paura di restare indietro, che non vogliamo perdere tempo a soppesare, a stimare costi e benefici del nostro agire; però, inevitabilmente, in questo modo finiamo per andare alla cieca e, forse, per girare in circolo, senza avanzare realmente, ma solo illudendoci di farlo.
Non è solo la crisi dell’Italia, è la crisi della civiltà di cui l’Italia fa parte, la modernità; e non è solo una crisi economica, una crisi di crescita ( o di decrescita…), ma è anche e soprattutto una crisi spirituale, cioè, appunto, una crisi di senso. Non vediamo più il senso delle nostre esistenze e di quel che stiamo facendo. I nostri ragazzi non vedono il senso di andare a scuola e studiare; i giovani non vedono il senso di creare una famiglia; gli adulti non vedono il senso di avere dei figli, di crescerli, di educarli: meglio acquistare un cane o un gatto. E i cittadini non vedono un senso nel cercare un lavoro o risparmiare un po’ di soldi. Lo cercano, il lavoro, più o meno (tranne quelli che si sono rassegnati a farsi mantenere da qualcuno) perché lavorare bisogna, altrimenti non si mangia; però non ne vedono il senso. I professori non vedono più il senso di insegnare: tanto, nessuno ha più la voglia o l’interesse di imparare alcunché. Gli studenti, pare che facciano un favore a presentarsi in aula: purché non li si stressi, non si pretenda qualcosa da loro. E l’imprenditore non vede più il senso di fare impresa: fra le tasse, le normative cervellotiche e opprimenti, le banche che non prestano un centesimo, tanto vale investire il capitale in prodotti finanziari. Perfino il commerciante non vede il senso del proprio lavoro: se lo vedesse, avrebbe quelle piccole attenzioni nei confronti del cliente che, invece, non mostra affatto; al contrario, si direbbe che non gliene importi molto se questo entra, oppure no, nel suo negozio, nel suo locale. E il poliziotto o il carabiniere non vedono il senso di fermare lo spacciatore, di controllare i documenti del probabile clandestino: oltre a rischiare di prendersi una coltellata, sanno già che il solito magistrato progressista e buonista li rimetterà in circolazione, anche se risultasse che hanno commesso parecchi reati e che sono entrati e usciti più volte, ma sempre di striscio, per così dire, dalle patrie galere. Le culle vuote sono solo l’ultimo anello della catena: una società che ha azzerato il passato non può che andare in corto circuito e bruciarsi anche il futuro, anche se i suoi intellettuali e i suoi uomini politici hanno sempre la parola "futuro" sulla bocca.
L’atro giorno, fermi a un semaforo, siamo stati testimoni involontari di una piccola ma significativa scena. Davanti a noi c’era un’automobile enorme, un qualche tipo di Ranger Rover, con due passeggeri a bordo: un cane e la donna che stava al volante; la quale, sia detto fra parentesi, nello spazio di pochi metri aveva mostrato di non saper guidare o di aver la testa altrove, visto che non si capiva nemmeno se volesse svoltare a destra o a sinistra, e si era messa più o meno in mezzo alla strada, senza aver acceso la freccia per indicare le sue intenzioni Il cane era l’animale più grosso, della sua specie, che avessimo mai visto: una specie di cavallo; stava dietro, in piedi, cioè, ritto sulle quattro zampe, e guardava noi attraverso il finestrino. La donna, giovane e carina, prolungandosi la sosta forzata – il rosso durava piuttosto a lungo — a un certo punto si è voltata, ha carezzato il cane e gli ha scoccato un bacio sul muso: e lo ha fatto con un trasporto, con un’impazienza, con una passione quali avrebbe potuto mostrare per il suo fidanzato. Non era un bacio d’affetto, ma di passione; era il bacio di chi non ce la fa ad aspettare neanche qualche secondo, deve assolutamente esternare i suoi sentimenti, qui e adesso, dovunque si trovi e in qualsiasi circostanza, altrimenti scoppia. Sì, lo sappiamo: non si dovrebbe mai pensar male; e, del resto, omnia munda mundis. Noi, comunque, non vogliamo insinuare nulla; ci limitiamo a descrivere, in modo assolutamente oggettivo, una scena cui abbiamo assistito. E di scene così, ciascuno di noi ne vedrà chissà quante, nell’arco della settimana: sono ormai frequenti. Nel corso di un programma televisivo, qualche giorno fa, milioni di telespettatori hanno potuto vedere e ascoltare una donna che si era presentata in studio accompagnata dal suo amico inseparabile: un maiale, perfettamente lustrato e agghindato. Al presentatore ha detto l’immancabile ovvietà, che gli animali sono meglio degli uomini, e ha sorriso compiaciuta davanti a una domanda esplicitamente maliziosa, se la sera andassero a dormire insieme. La signora Brambilla, che ci delizia, sempre dal piccolo schermo, con la sua zuccherosa rubrica domenicale dedicata ai "nostri migliori amici", ovviamente a quattro zampe, va incontro ai gusti di un pubblico ben preciso e risponde a una "domanda" effettiva: tutte quelle persone, e ormai sono moltissime, le quali trovano più soddisfacente e più gratificante la compagnia di un animale domestico a quella dei propri simili.
Benché scritte circa vent’anni fa, quando la situazione era relativamente meno drammatica di oggi, fanno riflettere le parole di Giuseppe Mammarella e Zeffiro Ciuffoletti nel loro libro, scritto a quattro mani, Declino. Le origini storiche della crisi italiana (Milano, Mondadori, 1996, pp. 3-4):
Dall’ultimo rapporto del Censis sull’Italia per il 1995 non viene fuori il ritratto di una Repubblica nascente, la tanto evocata "seconda Repubblica", ma semmai quello di una "repubblica senza senso". La società italiana sta perdendo il sentimento del passato e del futuro, la sua fluidità, il suo senso perché sempre più chiusa nel presente. Una percentuale altissima, più dell’80% dei messaggi che ci arrivano attraverso i media, riguarda l’attualità, la cronaca, gli "eventi". Troppo spesso si smarrisce il senso della storia e l’"evento" finisce per diventare semplicemente una voce, un pettegolezzo, come se il villaggio globale non fosse altro che la gigantografia di un "chiacchiericcio di paese". Gli "eventi" sparati a raffica dai media perdono, così, i contorni e lo spessore. Persino alla crisi che viviamo, la più grave dopo la caduta del fascismo, passa da "evento" ad "evento", da elezione a referendum, da svalutazione della lira a risalita del marco, da un avviso di garanzia ad un altro, da un dossier ad un atro, svalutandosi fino al punto di perdere consistenza e significato. Nel cercare di capire si resta confusi e disorientati. […]
Solo tentando di recuperare la dimensione storica della crisi si può sfuggire al senso di smarrimento e di angoscia che aleggia sopra di noi…
Il nostro problema fondamentale è che la modernità nasce da un taglio voluto, intenzionale, nei confronti della tradizione, cioè nei confronti delle proprie radici. Si tratta di un fenomeno probabilmente unico: la modernità è l’unica civiltà al mondo che nasce da un progetto di rivolta contro ciò che esisteva prima di essa. Tutte le altre civiltà si sono succedute con il ritmo dei popoli che le hanno create: l’egiziana, la mesopotamica, la greco-romana, la cinese, l’indiana. Solo in Europa, in una fase di espansione demografica ed economica e di fioritura culturale, si verifica lo strano fenomeno di una civiltà che prende in odio se stessa, rifiuta ciò che è stata e pretende di costruire una civiltà nuova, di segno opposto a quella dei propri antenati. Ogni cambio di paradigma culturale, fino a quel momento, si era verificato per il collasso della vecchia civiltà, che ha creato le condizioni per la nascita di una nuova. Ad esempio, la civiltà greco-romana è finita quando ha esaurito la sua creatività, le sue forze vitali: oggi nessuno storico serio prende per buona la tesi di Edward Gibbon, cioè che essa è stata assassinata dai barbari e dal cristianesimo. I barbari e il cristianesimo, infatti, se pure hanno contribuito, gli uni dall’esterno e l’altro dall’interno, al collasso del mondo greco-romano, hanno anche fornito la materia prima per la nascita di una civiltà nuova, quella medievale, che non ha per niente rifiutato il retaggio della civiltà precedente, ma lo ha accolto e integrato in tutto ciò che era suscettibile di essere accolto e integrato, e lo ha respinto solo in ciò che, in esso, era totalmente incompatibile con la nuova visione e con i nuovi valori. Gli spettacoli del circo, espressione di un supremo disprezzo per la vita e di un vero e proprio sadismo, di massa, quindi di una depravazione morale esibita ed ostentata, non erano compatibili e non vennero tollerati: l’imperatore Onorio li soppresse fin dal 404, senza temere l’impopolarità; e allo stesso modo si regolarono il potere civile e quello religioso per i mille anni seguenti. Il diritto romano e la filosofia greca, invece, erano compatibili, e, nonostante qualche perplessità iniziale e qualche rifiuto isolato, il corpo principale della cultura cristiana li accolse entrambi e li integrò nel proprio orizzonte spirituale e materiale. Perfino i barbari ebbero un atteggiamento di riverenza per la civiltà greco-romana, tale da favorirne l’integrazione culturale: il re Teodosio era solito dire che qualunque goto desidera assomigliare a un romano, ma che sarebbe pregevole un romano il quale volesse sembrare un goto. E che altro è la resurrezione dell’Impero Romano ad opera di Carlo Magno, se non la romanizzazione e la cristianizzazione della barbarie germanica? Certo, non tutti i barbari potevano essere integrati: Stilicone ed Ezio, gli ultimi grandi condottieri di Roma, avevano visto giusto quando avevano operato una distinzione fra i barbari che avrebbero potuto essere, se non assimilati, trasformati, però, in alleati, ed altri, come gli Unni di Attila, i cui costumi non erano compatibili con la civiltà romana, e che andavano combattuti e respinti al di là del limes, nelle steppe euroasiatiche dalle quali erano emersi. Più fortunato, o più abile, Ottone il Grande, alla fine del X secolo, sarebbe riuscito a fermare, sedentarizzare e iniziare l’assimilazione e la conversione al cristianesimo degli Ungheri, ultimi eredi delle invasioni barbariche provenienti dall’Asia. Divenuti europei, questi ex barbari sarebbero stati il nuovo antemurale d’Europa e si sarebbero sacrificati, fra il 1396, con la battaglia di Nicopoli, e il 1526, nella battaglia di Mohacs, combattendo strenuamente per arrestare o ritardare l’irruzione ottomana verso il cuore dell’Europa.
La civiltà moderna, che fa capolino nel XIV secolo, con l’Umanesimo, ma si sviluppa pienamente fra il XVII e il XVIII, cioè fra la Rivoluzione scientifica e l’Illuminismo, nasce, invece, da un disprezzo dichiarato e da un deciso rifiuto nei confronti della tradizione cristiana e medievale. Gli umanisti pretendevano, saltando l’aborrita "età di mezzo", di riallacciarsi al mondo greco-romano, ma in realtà ne tradivano uno degli aspetti più profondi, la religiosità: con il suo antropocentrismo, la modernità è stata la prima civiltà umana che ha preteso di costruire, per usare l’espressione dello scrittore Nino Salvaneschi, una cattedrale senza Dio. La civiltà moderna nasce da una tensione faustiana dell’uomo che non vuol servire e adorare Dio, che non vuole riconoscere niente e nessuno al di sopra di sé, e che pretende di essere, lui, fine e misura di tutte le cose. Ma l’uomo è caduco, le generazioni sono labili, le stesse civiltà tramontano e muoiono: da ciò il caratteristico senso di angoscia che permea e condiziona tutti gli aspetti della vita moderna. Vi è un fondo di disperazione, in essa, che nasce dalla non accettazione del limite, dal rifiuto della finitezza e quindi della morte. La creatura rifiuta di essere tale, vuole rivaleggiare con il suo Creatore, vuole divenire artefice e manipolatrice della vita; e recentemente, con la scoperta del Dna e della possibilità di modificarlo, s’illude di essere giunta vicinissima al traguardo: rendere l’uomo pari a Dio, trasformarlo nel dio di se stesso. E poiché Dio deve essere adorato, gli uomini moderni si accingono ad adorare l’Uomo: un feticcio meraviglioso e terribile, che non è più l’uomo reale, finito, mortale, bisognoso di verità, di amore e di perdono (chi mai lo perdonerà, se, come Caino, uccide suo fratello?), ma una entità astratta, in nome e per conto della quale è possibile attuare qualsiasi cosa, portare avanti qualsiasi progetto, ma sempre sotto il segno del dominio, dell’ambizione e della forza. In un primo tempo la civiltà moderna rivolge la sua volontà di dominio sulla natura e sulle cose (sapere è potere, teorizza uno dei padri della civiltà moderna, Francesco Bacone), ma subito dopo, o anche nel medesimo tempo, la rivolge contro i propri simili, con una giustificazione ideologica bella e pronta: si tratta di portare la civiltà (ma quale?) a chi ancora non è stata toccato e beneficato dai lumi della ragione, e, nello stesso tempo, di affermare contro qualsiasi resistenza i sacri Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Quanti crimini sono stati commessi, da allora, in nome di quei Diritti; e quante se ne commettono tuttora, sotto il nostro naso, senza che vi facciamo più caso; senza che neanche li riconosciamo per quel che sono, cioè crimini. Sopprimere legalmente milioni di nascituri, ad esempio, non è un crimine? No, certo: è l’esercizio di un diritto. Appunto: la logica aberrante di un mondo senza Dio…
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