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Omaggio alle chiese natie: la Madonna di via Piave

Una delle scoperte che ci ha portato questa ricognizione fra le chiese della nostra città natale è che l’archeologia non riguarda solo le ziggurat mesopotamiche e gli acquedotti romani, ma si occupa anche dei palazzi e delle chiese delle città nelle quali viviamo, delle trasformazioni che hanno subito nel corso dei secoli, di quelli che sono scomparsi e di quelli che sono sorti al loro posto, succedendosi lungo le generazioni e modificando, più o meno velocemente, il volto dei luoghi a noi familiari e che credevamo di conoscere così bene, mente non li conoscevamo affatto, perché il nostro sguardo si limitava alla sola dimensione del presente. Tali trasformazioni, a loro volta, non devono essere considerate come opera del caso o di vicende sempre e solo contingenti: sì, certo, il fatto che un certo palazzo sia stato venduto da un’antica famiglia e che sia stato acquistato da un nuovo proprietario, magari di estrazione borghese, per il quale le tradizioni sono cosa di poca importanza, ha il suo peso nel fatto che esso venga ristrutturato secondo criteri di tipo puramente funzionale. Però, guardando le cose da una maggiore altezza, e abbracciandole in una più vasta prospettiva, ci si rende conto che i singoli cambiamenti nel volto del paesaggio urbano sono la manifestazione esteriore di mutamenti assai più profondi, che riguardano la dimensione culturale, spirituale, religiosa, oltre che politica, economica e sociale.

Ad esempio, abbiamo visto che tutte le famiglie nobili avevano, nel loro palazzo di città, una cappella privata per le funzioni religiose: così la chiesa di Santo Stefano per il Palazzo Savorgnan; la chiesa di San Leonardo per il Palazzo Arcoloniani; la chiesa di Sant’Ermacora per il Palazzo Sbrojavacca; la chiesa di San Bartolomeo per il Palazzo Gubertini; la chiesa di Santa Barbara per il Palazzo Torriani; la chiesa di San Pietro Apostolo per il Palazzo Polcenigo-Garzolini. Anche il Palazzo della Porta, in Borgo Treppo, e il Palazzo Asquini-Pavona, in Borgo San Bartolomeo (via Manin) avevano la loro cappella privata. Tuttavia, a un certo punto, questa pia abitudine edilizia si perde: sorgono palazzi imponenti, come il Palazzo Antonini, all’inizio di Borgo Gemona, progettato alla metà del ‘500 da un architetto della statura di Andrea Palladio, il quale, pur essendo sfarzosissimo e potendo disporre di una enorme superficie edificabile, qualcosa come 3.000 metri quadrati, con un giardino che arriva fino a lambire la Piazza Primo Maggio, non è dotato di una cappella domestica; o, se l’aveva, essa si è persa nel corso del tempo. E la stessa cosa si verifica in altri fastosi palazzi di città: Palazzo Florio; Palazzo Organi-Agricola di Caporiacco; Palazzo Liruti; Palazzo Colloredo-Orgnani; e così via. Sappiamo, ad esempio, che ancora nel 1837 il palazzo Antonini-Mangilli-Del Torso (nella odierna piazza Garibaldi), era dotato, al primo piano, di una cappella domestica, con la volta del soffitto dipinta, della quale in seguito di perdono le tracce, evidentemente adibita ad altro uso nel corso di lavori di ampliamento che più volte furono attuati nella imponente struttura ad ogni passaggio di proprietà (cfr. il saggio della professoressa Francesca Venuto, Palazzo Antonini-Mangilli-Del Torso, cultura e prestigio familiare, Udine, Liceo Classico Jacopo Stellini, Giornate FAI di Primavera, 2016, p. 7). E una cappella privata, quasi certamente, esisteva nel Palazzo Ottelio-Giacomelli, in Piazza del Mercato Nuovo, sul lato sinistro della chiesa di San Giacomo; infatti è ancora visibile un locale, denominato "cappella", un singolare ambiente rivestito in legno, più tardi probabilmente adibito ad altra destinazione (cfr. Maurizio Buora, Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze, Trieste, Lint, 1986, p. 170). Per tutte le cappelle o chiesette private, il modello era la cappella palatina del Patriarca, che ancora oggi esiste ed è vistabile nel Palazzo Arcivescovile di Piazza Patriarcato, ma che, in origine, si trovava nel Castello di Udine, quando esso era la residenza dei Patriarchi: non nel castello attuale, quindi, ma in quello che venne costruito, o meglio ricostruito, alla fine del 1200, e dotato, oltre che di una cappella, di un grandioso salone di rappresentanza, destinato a ricevere i membri del Parlamento della Patria del Friuli (cfr. Castello di Udine sul portale del turismo in Friuli www.scoprifvg.it/site/).

Inutile dire che, nel corso delle modifiche che hanno comportato la chiusura di una serie di cappelle private nei palazzi della nobiltà e della ricca borghesia, è andato disperso un gran numero di opere d’arte, pitture, sculture, decorazioni, arredi; valga per tutti il caso dell’ex chiesa di Sant’Ermacora, in Borgo Aquileia, che conteneva un altare settecentesco e decorazioni di Andrea Urbani, notevole pittore veneziano, oggetti che andarono dispersi dopo che la chiesa fu sconsacrata, nel 1836, e infine abbattuta, nel 1864. L’altare e le due statue, le pietre della porta d’ingresso e la pietra sepolcrale di famiglia vennero trasferiti dal nobile Orazio d’Arcano nella chiesa di sua proprietà, oggi in comune di Rive d’Arcano (cfr. il sito http://www.parrocchiacarmine.it/); ma le decorazioni dell’Urbani andarono disperse. E Dio sa quante opere, anche di pregio, sono scomparse mano a mano che questa o quella cappella privata veniva chiusa e questo o quel proprietario ne decideva il riutilizzo sotto altra veste. Un censimento dei beni artistici andati perduti in questo modo non è mai stato fatto e probabilmente è impossibile; ma si tratta sicuramente di un patrimonio ingente, la cui consistenza possiamo solo intravedere dall’esame dei documenti notarili e dalla descrizione delle antiche case di Udine, come quella, preziosissima, redatta dal conte Giovanni Battista della Porta, da noi altre volte ricordata e utilizzata, figura benemerita di studioso e di conservatore del patrimonio storico e bibliotecario della città: Memorie su le antiche case di Udine, pubblicata, a cura di Vittoria Masutti, fra il 1984 e il 1987, nella quale vengono passate in rassegna, con tutti i documenti relativi, circa 2.100 edifici del centro storico. Tanto più sono meritevoli di elogio quei proprietari i quali, nel succedersi dei tempi, nell’avvicendarsi delle famiglie e attraverso le drammatiche vicende storiche, come le due guerre mondiali, hanno saputo conservare integre, con ammirevole pietà, le cappelle private dei loro palazzi, offrendole intatte, anche ai nostri giorni, al visitatore che vi entra emozionato e commosso, quasi trattenendo il fiato, davanti allo spettacolo tangibile di tanta bellezza e di tanta devozione religiosa, come accade per la cappella del Palazzo della Porta o per quella del Palazzo Asquini-Pavona.

Un fenomeno come l’abbandono della tradizione di far costruire una cappella gentilizia privata non è determinato semplicemente dai gusti, dalle convinzioni e dalla scelte delle singole famiglie e tanto meno di singoli individui; esso riflette una tendenza di ordine generale, è indicatore di un nuovo orientamento spirituale della società. Le classi dirigenti iniziano a prendere le distanze dal sacro; prima il Rinascimento, poi l’Illuminismo, aprono un solco rispetto alla religione. Pur astenendosi da aperte professioni di ateismo, esse cominciano a vivere il cristianesimo come un fatto sociale ed esteriore. Se in un palazzo grande e costoso di tre piani, dotato di decine di locali, di salotti, di camere, di saloni di rappresentanza, non si provvede ad adibirne nemmeno uno a cappella privata, ciò vuol dire che la secolarizzazione ha fatto molta strada e ha modificato gradualmente, ma, alla fine, radicalmente, il modo di sentire e di pensare delle classi superiori. Si tratta di un fenomeno ancora più interessante, dal punto di vista sociologico, delle soppressioni napoleoniche o delle soppressioni sabaude, rispettivamente nel 1810 e nel 1867. Queste hanno portato alla chiusura e, in un certo lasso di tempo, alla demolizione totale o parziale di chiese venerande, come quella dei padri Agostiniani in Borgo Santa Lucia (attuale via Mantica), peraltro sopravvissuta pur se completamente trasformata, o come quella dei Filippini in Borgo Santa Maria Maddalena (attuale via Vittorio Veneto: però, appunto perché si è trattato di atti d’imperio del poter politico, non attestano se non che Napoleone prima, e Vittorio Emanuele II poi, hanno deciso di colpire con molta durezza la Chiesa cattolica, cominciando dai suoi ordini religiosi e dal suo patrimonio edilizio, prontamente confiscato. Invece la rinuncia a costruire una cappella privata nel proprio palazzo di città, da parte di famiglie nobili o facoltose dell’alta borghesia, appartiene a un ordine di fenomeni individuali e spontanei, ed è, pertanto, assai più indicativa di quale fosse il sentimento religioso, fra le classi dirigenti, nel vasto arco temporale che da al XVI al XIX secolo. Il XX esce da questo schema perché nessuna famiglia ricca del Novecento, nel costruirsi la propria residenza urbana, ha pensato di dotarla di una cappella: e sì che l’edilizia residenziale delle classi abbienti ha registrato, a Udine, un formidabile impulso nei primi decenni del Novecento, dall’alba del secolo agli anni della Seconda guerra mondiale e anche oltre, cioè dalla Secessione viennese al Funzionalismo, registrando la costruzione di decine di palazzi e palazzine più o meno belli, più o meno ambiziosi, molti dei quali firmati dai migliori architetti dell’epoca, Raimondo e Girolamo D’Aronco, Luigi Taddio, Pietro Zanini, Gino e Giuseppe Tonizzo, Gino e Provino Valle, Antonio Measso, Ettore Gilberti, Davide Badini, Ermes Midena, dunque senza badare a spese (per farsene un’idea, si consulti il sito del Piano Regolatore Comunale: http://www.comune.udine.gov.it/; si resterà stupiti dalla quantità e varietà degli edifici civili sorti in città nella prima metà del ventesimo secolo). Questo fatto, di per sé, non testimonia necessariamente un orientamento irreligioso delle classi dirigenti, ma l’ormai universale convinzione che, per frequentare la Messa e le altre funzioni religiose, battesimi e matrimoni di famiglia compresi, le chiese pubbliche cittadine sono più che sufficienti, idea che esprime una mentalità assolutamente impensabile prima del 1900. Né si venga a dire che questo è un effetto della diffusione della mentalità democratica; perché, quando si tratta della sauna, o della piscina, o della sala per l’abbronzatura, o della palestra, o del campo da tennis, in tutti questi casi il supposto "spirito democratico" si arresta sulla soglia di casa e chi ha dei soldi da spendere si fa costruire i relativi spazi ed ambienti ad uso privato, non si adatta a frequentare le strutture pubbliche. Evidentemente, la pietas religiosa era uno di quegli aspetti della vita, se non il principale, in cui le classi abbienti mostravano il loro zelo e il loro desiderio di distinguersi dalla massa; salvo poi destinare, in molti casi, la propria cappella privata ad uso pubblico, come un dono fatto alla comunità e alla Chiesa cattolica (mentre i ricchi di oggi non fanno doni, o, se li fanno, hanno sempre di mira un qualche tipo di "ritorno"), al contrario di quelle odierne, le quali a tutto pensano, fuor che alla fede religiosa.

Possibile, per fare un esempio, che un palazzo fastoso e carico di storia come il Palazzo Pontoni, all’angolo fra via Aquileia e via Piave, di origine cinquecentesca, ma ristrutturato nel 1912 da Luigi Taddio, cui si deve anche il disegno delle inferriate e dei cancelli; possibile che in questo ampio palazzo, il cui giardino è dominato dalle quattro grandi statue seicentesche di Orazio Marinali, e i cui locali interni sono decorati da pittori del valore di Giovanni da Udine, Francesco Chiarottini, allievo del Tiepolo, e Giuseppe Morelli, lungo un arco temporale che va dal 1500 alla fine del 1700, non si trovi un locale adibito a cappella per le funzioni religiose? Forse, in origine, doveva esserci, ma poi si è perso nel corso del tempo. Anche questa, ripetiamo, è archeologia: non occorre andare a Giza o a Machu Picchu, c’è materia di ricerche e di scoperte anche nella via sotto casa — almeno in un Paese come il nostro, talmente ricco di arte e storia che quasi ad ogni angolo si trova o si trovava un edificio di qualche valore, un’opera meritevole d’interesse. Dobbiamo tuttavia accontentarci, quando passiamo davanti a questa bella architettura, giunti proprio sull’angolo di via Piave (l’antica Contrada dei Gorghi), di ammirare e rivolgere un pensiero devoto all’immagine del bassorilievo in pietra con la Madonna col Bambino, che non sarà antico e forse non sarà neppure un capolavoro, ma possiede sicuramente una sua grazia quattrocentesca, una purezza ed essenzialità di linee, che ricordano vagamente lo stile di un Luca della Robbia; bassorilievo che fa da pendant con l’altro, raffigurante il medesimo soggetto e del quale abbiamo già parlato, esistente sulla facciata di Casa Spezzotti, nella vicina Via della Prefettura. Dalla sua nicchia rettangolare, leggermente rientrante nello spessore del muro d’angolo, la Santa Vergine Maria, con il suo divino Figlio che sembra rivolgere un gesto di benedizione verso i passanti, in un punto particolarmente trafficato della città, quasi all’altezza del semaforo sull’incrocio fra via Aquileia, via Piave, via Gorghi e via Vittorio Veneto, è una presenza dolcemente familiare, che scioglie una nota gentile e spirituale sopra il movimento agitato della vita moderna. Siamo grati a chi l’ha pensata, l’ha voluta e l’ha realizzata; siano benedetti tutti quelli che hanno contribuito a tener viva la fiammella della fede e hanno fatto qualcosa, anche il più piccolo gesto, per indicare la via alle generazioni venture. Tutta la nostra vita, sin dall’infanzia, è stata scandita dalla presenza dei simboli del Soprannaturale, a ricordarci che la cosa più importante non è correre qua e di là, affannosamente, inseguendo le pur legittime necessità e aspirazioni dell’esistenza quotidiana, ma rientrare in noi stessi e trovare, in fondo all’anima, la presenza del Dio vivente, del nostro Creatore, Salvatore e Redentore. Senza quei segni, noi scorderemmo la via e ci perderemmo nel buio. E ci viene in mente il titolo di un romanzo di Nino Salvaneschi, scrittore oggi ingiustamente, ma comprensibilmente dimenticato: La cattedrale senza Dio. Tale rischia di essere la nostra civiltà, se non torniamo in noi stessi: una cattedrale senza Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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