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Omaggio alle chiese natie: la cappella di casa Asquini

È incredibile: ma più si scava, più si scopre; e più si crede di esser giunti quasi alla meta, e più ci si accorge di essere solo al principio. Andare alla scoperta delle pietre e dell’anima della propria città natale non finisce mai di sorprendere: è come inoltrarsi nelle profondità di una miniera che non finisce mai di rivelarci i suoi tesori nascosti. Strato dopo strato, sempre nuove ricchezze vengono alla luce: e allora si comincia a comprendere l’immensa ricchezza del passato, la successione delle generazioni, il magnifico affresco della vita che i nostri antenati hanno intessuto con le loro esistenze per lo più modeste, e tuttavia laboriose, oneste, piene di dignità; e l’immenso patrimonio di fede, bellezza e amore, che ci hanno affidato in custodia, e che noi dovremmo trasmettere a nostra volta alle generazioni che verranno, senza in nulla offuscarlo o menomarlo, anzi, se possibile, incrementandolo e arricchendolo a nostra volta, con il nostro lavoro, con la nostra fede, con il nostro amore per la vita.

Già era stata una grossa sorpresa venire a sapere che un’antichissima chiesa, la chiesa di San Bartolomeo, sorgeva praticamente in aderenza al luogo ove sorge la casa in cui siamo nati (perché fino a circa sessant’anni fa si nasceva ancora in casa, non in ospedale; e anche in casa, di solito, si chiudevano gli occhi alla fine: la vita non era stata ancora del tutto medicalizzata e ospedalizzata), la quale anzi, dava il nome all’antica contrada che noi, da bambini e anche in seguito, abbiano sempre conosciuto come la via Manin; così come abbiano sempre chiamato la porta medievale, che si apre in fondo ad essa, verso il Giardino Grande, Porta Manin, mentre per secoli era stata chiamata Porta di San Bartolomeo. Ma quale ulteriore stupore ci ha provocato la scoperta che quelle vecchie case, da noi guardate sempre con la distrazione di chi vede una certa via tutti i santi giorni, e non vi fa più caso, perché cammina con il pilota automatico inserito nel cervello, sono, in effetti, una successione di antichi palazzi di notevolissimo pregio, sia storico che artistico, vecchi di secoli, e con dei saloni interni di straordinaria bellezza, impreziositi dai migliori artisti dell’epoca, dei quali non avevamo mai neanche lontanamente sospettato l’esistenza. Parliamo, naturalmente, soprattutto del lato settentrionale della via Manin, quello addossato al colle del Castello, che s’intravede innalzarsi al di sopra dei tetti: una vista per noi assolutamente familiare, dato che ogni mattina, uscendo di casa, l’avevamo sotto gli occhi, nel sole caldo dell’estate o nelle grigie e fredde giornate invernali. Su quello meridionale, cioè il "nostro", non vi era che un edificio notevole, o almeno così credevamo, il Palazzo Contarini, a tutti noto come il Palazzo d’Oro: un nome favoloso, che evocava esotici splendori e riflessi orientali: ma era moderno, in stile liberty, e questo lo capiva perfino un bambino che, di storia e antichità, non sapeva praticamente nulla. Ma sul lato settentrionale — lungo il tracciato del fossato che correva sotto la prima cerchia delle mura -, che ci fossero dei palazzi piuttosto antichi, questo era evidente anche per lui; quel che ignorava, era quanto fossero importanti per la storia e l’arte cittadine. Sono almeno quattro quelli degni di particolare attenzione e cioè, andando da Porta Manin verso Piazza Libertà, cuore di Udine: il Palazzo Mantica (con l’adiacente Palazzo Chizzola), il Palazzo Asquini-Pavona, il Palazzo Manin e infine il Palazzo Caimo-Dragoni, proprio sull’angolo con la Piazza Libertà; ai quali si può aggiungere quella che, per noi bambini, era semplicemente la drogheria dei sior Sparavier, dove si andava a comprare il sapone o il dentifricio, mentre è un palazzo di tutto rispetto, sia pure moderno, o meglio rimodernato: la casa Susanna (che non va confusa col Palazzo Susanna, all’angolo di via Stringher e via Savorgnana), realizzato nel 1907 in stile liberty viennese, e che un tempo ospitava, nel seminterrato, la storica osteria Ai Piombi, chiusa e poi riaperta negli anni ’60, e così chiamata perché sorgeva forse sul luogo delle antiche carceri. Moltissimo tempo fa esisteva anche una stradina che da qui saliva al castello e si chiamava contrade del picjât, cioè dell’Impiccato; ma allora non c’era, probabilmente, il portico del Lippomano, del 1486, che conduce dall’Arco Bollani alla sommità del Castello.

Percorrendo la via Manin, a nostra discolpa possiamo dire che sia la prospettiva non molto vasta consentita dall’ampiezza stradale, sia la mole retrostante del Castello, sia, soprattutto, il fatto che questi antichi edifici sorgono tutti in aderenza reciproca, e quindi senza che alcuno di essi si stagli in modo speciale rispetto agli altri, come invece accade per altri palazzi storici costruiti in posizione più scenografica, come ad esempio il Palazzo Agricola in via Liruti, o il Palazzo Manin in via dei Torriani, tutto concorre a far sì che il passante non abbia l’esatta percezione di quanta storia e quanta bellezza vi siano in questa successione di facciate e di architetture civili. Se a ciò si aggiunge la presenza di negozi e di locali, come la storica osteria L’Aquila Nera, forse la più antica di Udine, allogata nel corpo del Palazzo Manin, i quali, con le loro vetrine e il loro andirivieni, distraggono l’attenzione di chi passa dalla dimensione storico-artistica (la mente umana è fatta così: non riesce a vedere contemporaneamente due cose distinte che coabitano nel medesimo oggetto), si può, almeno in parte, spiegare come mai, quando si parla dei palazzi storici di questa città, l’antico borgo di San Bartolomeo è l’ultimo, probabilmente, che viene in mente, o comunque uno degli ultimi, non solo al turista frettoloso, ma perfino a molti udinesi nati e vissuti proprio qui, e magari in via Manin o nelle sue immediate vicinanze.

Questo borgo situato in posizione centrale, ma che conserva nondimeno l’atmosfera un po’ paesana dei vecchi borghi, forse per la presenza pittoresca della poderosa Torre di San Bartolomeo, a testimoniare che qui, un tempo, la città finiva (un tempo lontanissimo, certo), era negli anni ’60, gli anni della nostra infanzia, decisamente animato, e lo è ancora adesso; anche se oggi ha perso quasi del tutto quell’atmosfera popolana che gli conferiva la presenza di alcune botteghe un po’ alla buona, come il calzolaio nell’androne dell’Albergo Manin, e il fatto che i suoi edifici storici erano anch’essi adibiti ad usi quotidiani: l’osteria L’Aquila Nera nel Palazzo Manin, il negozio A.C.E.R. nel Palazzo Asquini-Pavona, e addirittura un’autorimessa privata nel prestigioso palazzo Mantica-Chizzola, che è la parte più recente, del 1700, del cinquecentesco Palazzo Mantica. E quante volte abbiamo varcato quel portone e siano entrati in quell’ombroso cortile, per noleggiare una macchina, con il bravo e simpatico autista sior Italo, o con il titolare, il signor Giuseppe Zenzi, con cui fare qualche gita domenicale, noi che non avevamo l’automobile privata. Anni straordinari, i primi anni ’60: quando esisteva ancora il ceto medio, oggi pressoché scomparso, e la lira era così forte che una famiglia di certo non ricca poteva permettersi di affittare una macchina per l’intera giornata, e mangiare al ristorante insieme all’autista, cosa che oggi costerebbe un patrimonio e sarebbe accessibile solo a qualche ricco industriale o professionista.

Così descrive il vecchio borgo lo storico Arduino Cremonesi nel suo libro Udine. Guida storico-artistica (Udine, Arti Grafiche Friulane, 1978, pp. 157-159), da noi già altra volta utilizzato:

Iniziamo a percorrere questa via, che ha per sfondo l’alta caratteristica torre di San Bartolomeo, l’unica della terza cerchia salvatasi dal piccone demolitore. Il primo edificio che vediamo a sinistra è il bel palazzo Caimo-Dragoni ora sede di una succursale del Credito Italiano e rima ancora della nota Birreria Puntigam. Contigua al palazzo è la Trattoria dell’Aquila Nera, allogata in una delle tante case che appartennero alla nobile famiglia Manini (Manin). Il locale è ritenuto la più antica locanda di Udine. Un documento del 1352 dice che quella era la "domus in qua fit concilium terrae Utini", ossia la casa in cui si riuniva il "Consei de Citât", come dire il Consiglio Comunale, prima che fosse fabbricata la Loggia del Lionello. Immaginiamo che quelle riunioni, soccorse da varî "bocàls" di ribolla e terrano [due celebri vini del Friuli orientale], dovevano riuscire senz’altro piacevoli e animate, per non dire movimentate. Intorno al 1800 la trattoria era chiamata "A la Providenze" e assunse l’attuale nome verso il 1865.

All’angolo con via Prefettura sorge un palazzo che ospitava il cinema Serenissima. "Un vagone piuttosto che un salone. Un cinematografo che quando pioveva aprivano gli ombrelli in più di qualche posto, ma che egualmente resse impressionanti" (Renzo Valente). Gli Udinesi in quegli anni si contentavano di poco: ma erano indiscutibilmente più felici. Dall’altro lati della via, vicino alla Porta San Bartolomeo, sorge l’artistico Palazzo Mantica del XVI secolo, di stile lombardesco. La facciata presenta una bella pentafora con finestre ad arco e due poggioli. Sotto la finestra centrale un ottimo bassorilievo rappresenta la Madonna. Nel palazzo ha sede la Società Filologica Friulana.

Ora, fermando la nostra attenzione sul meno appariscente di tutti, il palazzo Asquini-Pavona (anch’esso da non confondersi con la Casa Lovaria-Asquini, all’angolo di via Vittorio Veneto e via Lovaria, proprio di fronte all’abside del Duomo), al numero civico 16, col suo ampio portone ad arco, in pietra, e le finestre rettangolari, dignitose, certamente, ma insomma niente affatto speciali, abbiamo scoperto che proprio al suo interno si cela un piccolo gioiello di architettura sacra: una cappella privata della famiglia Asquini e magnificamente decorata, che è un vero scrigno nascosto di notevolissimo valore. Facciamo ricorso al saggio di Giuseppe Bergamin, Via Manin tra Otto e Novecento, contenuto nel bel libro curato da Liliana Cargnelutti, che qui ringraziamo per la citazione, Il "Palazzo d’Oro" nella città di Udine (edito dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone, 2012, p. 14):

Altri segni [dei palazzi storici di Via Manin] si sono nel tempo perduti (tra questi gli affreschi di Giovanni Battista Grassi sulla facciata di Casa Onestis raffiguranti la battaglia di Farsalo, combattuta nel 48 a. C. dall’esercito del console Gaio Giulio Cesare contro quello di Gneo Pompeo Magno), mentre gioielli d’arte di epoche diverse ricordano ancor oggi l’importanza e la cultura delle nobili famiglie che nei secoli abitarono i palazzi di Borgo San Bartolomeo: affreschi trecenteschi con "Fatti della storia di Troia" eseguiti probabilmente da due frescanti, uno friulano e uno di scuola bolognese, e venuti alla luce nel 1982 durante i lavori di restauro del Palazzo Manin ed ora depositati nel museo cittadino, una pala d’altare di Pietro Antonio Novelli ("L’Immacolata", 1792) e affreschi di Giambattista Canal nella cappella domestica che gli Asquini acquistarono dagli eredi di Nicolò Pavona e trasformarono in elegante palazzo dotandolo di una ricca quadreria comprendente anche due straordinarie "Vedute" di Andrea Urbani.

La pala di Pietro Antonio Novelli (Venezia, 1729-ivi, 1804), notevole pittore, incisore e anche poeta della seconda metà del XVIII secolo, che ha lasciato una grandissima quantità di opere, sia pittoriche, sia incisioni, e che non va confuso col pittore palermitano quasi omonimo, ma vissuto un secolo prima, Pietro Novelli (1603-1647), con L’Immacolata circonfusa di luce, circondata dagli Angeli e con la luna e il serpente sotto i piedi, spicca al di sopra di un altare di modeste dimensioni, ma elegantissimo, in pietra bianca. Essa sembra irradiare una magica aura nel piccolo locale, quasi un sacello, impreziosito dagli affreschi di un altro artista non certo secondario nel panorama del ‘700 veneziano, Giovanni Battista o Giambattista Canal (Venezia, 1745-ivi, 1825), noto come frescante dalla prodigiosa rapidità di esecuzione, autore, anch’egli, di una quantità impressionante di opere presenti in molte chiese e palazzi del Veneto e del Friuli. Solo nella città di Udine sue opere sono presenti nella casa Sabbadini-Cuoghi in via Mercatovecchio, nel palazzo Mantica-Chizzola, sempre qui, in via Manin, nel Palazzo Valvason-Morpurgo in via Savorgnana e nel Palazzo Brazzà in via Zanon, tutti aperti al pubblico in occasione della XX Giornata del F.A.I. (fondo Ambiente Italiano), il 24 e 25 febbraio del 2012.

È commovente pensare che, un tempo, quasi ogni casa nobiliare aveva la sua cappella domestica, e quasi ogni casa popolare aveva la sua edicola, la sua icona, il suo capitello votivo; che tutta la città e tutta la comunità si ponevano sotto la protezione di Dio, della Madonna e dei Santi; e che a nessuno sarebbe parso una cosa da uomini civili ignorare o disprezzare il lato spirituale della vita, tanto più che dalle cento chiese e conventi cittadini ed extra urbani saliva continuamente il suono delle campane, che si mescolava ai richiami e ai rumori festosi del mercato e a quelli della vita e del lavoro quotidiano. La città era viva; ed era viva anche perché era forte e sentita la vita religiosa. La gente, nel complesso, era povera, o poco al disopra del livello di povertà, almeno in base agli standard della modernità; e tale la ricordiamo anche noi, nella primissima infanzia, a cavallo tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60. Però ci sembra giustissima l’osservazione di Arduino Cremonesi: Gli Udinesi in quegli anni si contentavano di poco: ma erano indiscutibilmente più felici.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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