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A Dio ci si arrende, senza pretendere che si riveli

Negli uomini c’è, innato, il desiderio della verità; basta osservare i bambini: sono curiosi, fanno domande su tutto, vorrebbero sapere ogni cosa (almeno i bambini sani, non quelli drogati e intorpiditi dall’abuso della televisione, del computer e del telefonino). Ma poi la maggior parte di loro, crescendo, lascia che quel desiderio di assopisca, si perda, sopraffatto da mille altre cose, nessuna delle quali è essenziale, ma ciascuna, sul momento, pare che lo sia, o almeno che sia indispensabile. Dimentichi dell’essenziale, gli uomini si allontanano dalla cosa più preziosa che vive in loro: la sete di verità, senza la quale la vita si riduce a una insensata routine, a una serie di riti sempre più banali e sempre più stanchi; tanto è vero che, per tentare di renderla sopportabile, o interessante, o piacevole, molti si gettano sulla via dell’auto-istupidimento: con l’alcool, con il sesso, con la droga e con stili di vita trasgressivi o autodistruttivi. Sono le vie tortuose che prende il bisogno della verità, una volta che il disordine sia entrato nell’anima e le abbia fatto smarrire la consapevolezza di sé, della meta cui è chiamata. Anche a causa di cattive filosofie che danno agli uomini una immagine immiserita, deformata e limitata di se stessi, di quel che l’uomo è, molti si scordano di essere chiamati a grandi cose, a realizzare la parte più ricca e nobile che alberga in loro, quella spirituale, e si riducono a vivere nelle cantine del proprio palazzo interiore, simili a dei pezzenti, a degli straccioni pidocchiosi, quando invece potrebbero vestire abiti di seta e godere delle cose più belle.

La ricerca della verità, dunque, non solo è pienamente legittima, ma è precisamente lo scopo e la meta dell’esistenza umana: e dunque sarebbe assurdo porla in una luce negativa, o condannare il desiderio di sapere, o essere diffidenti nei confronti della scienza. Il problema non sorgere dal desiderio di conoscere, e quindi di arrivare alla verità, ma da un uso distorto e da una erronea impostazione della ricerca, che giunge, non di rado, a perdere completamente di vista l’obiettivo, cioè la verità, per inseguire obiettivi parziali, limitati e puramente strumentali, che danno un senso euforico, ma superficiale, di dominio sulla realtà, e che spingono gli uomini sulla via della hybris, della dismisura, dell’arroganza, abolendo in essi il senso del limite e cancellando il senso del mistero, premessa necessaria per porsi nella giusta relazione con il Creatore. Chi non ha il senso del mistero, chi lo ha perduto, non ha nemmeno il senso del sacro; e chi non ha il senso del sacro, non giunge all’intuizione del divino, cioè al riconoscimento della scintilla divina che abita in noi, e della sorgente di luce divina che sta al di sopra di noi. Chi, poi, non possiede, o ha smarrito, il senso del limite, si pone automaticamente in una relazione sbagliata non solo con il divino, ma anche con se stesso: perché un uomo che non riconosce il proprio limite ontologico è, letteralmente, una mina vagante, una bomba a orologeria pronta ad esplodere: con risultati disastrosi, innanzitutto per se stesso, ma anche per quanti gli stanno intorno. Di fatto, gli uomini che hanno calpestato il limite ontologico della propria umanità sono proprio quelli che hanno inferto le peggiori ferite ai loro simili e che più di tutti hanno sfigurato l’immagine dell’uomo, abbassandola a livelli di ferocia animalesca o di suprema, aberrante stupidità.

Eppure, noi sappiamo che la ricerca della verità urta, nelle condizioni che sono proprie della civiltà moderna, contro un ostacolo fortissimo, anzi, contro un duplice ostacolo: da un lato, lo scetticismo cronico e indurito, che spinge gli uomini moderni a diffidare, e perfino a deridere, qualunque pretesa di cercare e di poter trovare la verità; dall’altro, la gelosia e l’istintiva inimicizia verso quanti intraprendono questa strada, intuendo in loro il modo di vivere che dovrebbe essere proprio di ciascuno, ma che, appunto per il substrato psicologico e culturale della modernità, appare ormai utopistico, improponibile e donchisciottesco: sicché pare che chi cerca la verità voglia porsi al di sopra degli altri e presuma di essere da più degli altri, mentre, in effetti, fa semplicemente quello che è proprio dell’essere umano in quanto tale, e che un tempo era considerato normale e abituale per chiunque. Non stiamo parlando, infatti, o non stiamo parlando esclusivamente, di complesse ricerche teoriche, a base di libri e diplomi universitari, ma di tutto un modo di vivere la vita, che va ben oltre i titoli accademici e la bibliografia che siamo in grado di conoscere, e di sfoggiare all’occorrenza, su questo o quell’argomento filosofico. I nostri nonni, che avevano frequentato la scuola fino alla quinta o al massimo la sesta elementare, praticavano quel tipo di vita: poiché avevano chiara sia la meta da raggiungere, sia i mezzi per raggiungerla, e quindi, nel loro modesto ambito individuale e familiare, erano sulla strada giusta, erano persone consapevoli del proprio ruolo esistenziale e non sprecavano le occasioni di crescita in uno sterile edonismo né, tanto meno, in un ancora più sterile scetticismo programmatico.

Vale la pena di meditare questo pensiero di don Divo Barsotti (in Battesimo di fuoco. Diario mistico 1966-1968, Milano, Rusconi, 1984, p. 135):

Bisogna rinunziare a capire e credere tuttavia che tutto ha un senso.

La mia vita può avere un valore unico e universale, ma è fatta di umili cose — si svolge nella povertà, nella insignificanza di una vita comune. Mi sento spogliato sempre più anche delle idee, dei sentimenti — non mi rimane che un’umile fede, un semplice e puro abbandono.

Non ti stupire se ti senti uomo vulnerabile, vulnerabile a tutto, indifeso. Non si tratta per te di dare esempio di virtù, di forza, di grandezza. Dio non ti lascia nessuna grandezza — ti lascia soltanto la pace.

Il segno di Dio è la tua morte — un’umiltà esteriore e interiore, consentita ed amata. Non puoi difendere nulla, tanto meno la tua virtù — la tua fede soltanto è condizione alla sua Presenza.

Non ti angustiare, non chiedergli conto di quello che fa. Forse perché non sai dove conduce la via, è Lui che ti porta.

Non so dire più nulla, non so più pregare. Dio i chiede soltanto di rimanere nella pace.

Dio si rivela così. Nemmeno la santità costringe Dio a rivelarsi.

Anche la santità qualche volta è voluta, è perseguita per forzare il mistero i Dio, per forzare il suo silenzio. Ma Dio non sarebbe Dio se l’uomo, sia pure in suo favore, avesse il potere di costringerlo. La santità stessa non sarebbe che "hybris".

Devi accettare che Egli ti vinca e rimanga un mistero.

Pensiero abissale, che richiede il massimo dell’apertura intellettuale e, al tempo stesso, il massimo dell’abbandono spirituale; e che si lega a quest’altro pensiero, di Giuseppe Giacomo Nastri: La rivolta è un fatto del cuore, ma passa attraverso l’intelligenza che nega l’essere, la sua bontà fondamentale e la stessa logica. L’uomo moderno, infatti — come dice Camus, uno che se ne intendeva — è essenzialmente l’uomo in rivolta; la sua caratteristica fondamentale è la rivolta, non importa perché e contro chi — ciò è secondario -, l’importante è ribellarsi, fare sfoggio di erculeo titanismo e di sprezzo per la tradizione, scagliarsi con passionalità rovente contro tutto ciò che è stabilito, contro tutto ciò che è, o conserva le apparenze, dell’ordine, della stabilità, dell’equilibrio, in nome di un disordine perenne, proclamato "creativo" e, perciò stesso, dotato di misteriose virtù rigeneratrici, vitali e salutari, senza le quali la società scivolerebbe nella putredine delle abitudini e della ripetizione. Ora, se la caratteristica fondamentale dell’uomo moderno è l’essere in rivolta, quale bersaglio più appetibile, per lui, del suo Creatore? Ed ecco che la rivolta dell’uomo moderno è, innanzitutto e sopra tutto, una rivolta contro il mistero, contro il sacro e contro il divino; più specificamente, una rivolta contro Gesù Cristo, contro il Vangelo e contro lo Spirito Santo. È come se l’uomo moderno pensasse: o Tu o io, Dio! Non ci può esser posto per entrambi a bordo di questa nave: o io getterò Te fuori bordo, nelle onde del mare, oppure dovrò rassegnarmi d essere schiavo, legato ai banchi dei rematori come un galeotto, e sottostare ai tuoi voleri, obbedire ai tuoi comandi, andare nella direzione che avrai deciso di scegliere Tu. Ma questo non può essere, perché io sono un essere libero: perciò sei Tu quello che deve sparire; e poiché non Te ne vuoi andare con le buone, sarò io ad afferrarti e gettarti fuori bordo, come un clandestino, come un mariolo che si è intrufolato a bordo, e che pretende di dare ordini e di atteggiarsi a padrone della nave.

Dunque: se è demoniaco negare l’essere, come pure negare la sua bontà – il che è praticamente la stessa cosa – è del pari demoniaco negare il limite ontologico che ci separa dalla pienezza dell’essere, e quindi non accettare la nostra condizione di creature finite, per quanto senzienti e pensanti. Il bene supremo della ragione ci è dato per cercare il Vero, ma non per negare la radice del Vero: la pazzia della civiltà moderna scaturisce appunto da questa contraddizione, e perciò da questo corto circuito, fra ragione e libertà. Il cattivo uso della ragione naturale porta al pessimo uso della libertà umana; mentre la negazione della libertà umana conduce inevitabilmente ad un pessimo uso della ragione. Gesù è tornato più e più volte su questo punto: Se non sarete come dei bambini, non entrerete nel regno dei Cieli. E ancora: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai rivelato queste cose ai piccoli e ai semplici, e le hai nascoste ai sapienti e agl’intelligenti. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te! Dio, infatti, si nega ai sapienti e agl’intelligenti; non si lascia forzare, non si lascia costringere a rivelarsi, neppure dalla santità; meno ancora dall’intelligenza. Questo pensiero di Divo Barsotti non va inteso, ovviamente, come una condanna della ricerca intellettuale di Dio; ché, anzi, mai la cristianità è stata forte, mai la Chiesa è stata grande, come quando la teologia veniva posta in cima alla piramide del sapere, e onorata come la massima fra tutte le scienze; ma accanto alla teologia, cioè alla ricerca razionale del vero, c’è sempre la via del misticismo, della ricerca spirituale di Dio. L’una e l’altra sono preziose, e, in ultima analisi, confluiscono nello stesso sentiero: perché ricordiamo che quando san Tommaso d’Aquino, il massimo teologo cristiano di tutti i tempi, era in difficoltà di fronte a una questione speculativa, posava la penna, andava in chiesa e abbracciava il tabernacolo, pregando Dio d’illuminarlo. Né l’una né l’altra strada, peraltro, hanno il potere di oltrepassare il limite ontologico dell’uomo: esso rimane in ogni caso, fino a quando l’iniziativa parte dell’uomo. È solo da parte di Dio che quel confine può essere oltrepassato, ed è solo per iniziativa di Dio che l’uomo può, talvolta, ricevere l’immenso privilegio di vedere Dio faccia a faccia. E tuttavia ciò avviene, infallibilmente, solo quando l’orgoglio umano si è completamente arreso, quando ogni presunzione e ogni superbia, intellettuale o di qualsiasi altro genere, viene messa da parte; solo quando l’uomo si spoglia di tutto, perfino della propria volontà, si annulla e si lascia interamente riempire dall’azione della grazia divina.

Ora, se c’è una lezione che l’uomo moderno dovrebbe imparare, è proprio questa: che l’orgoglio non conduce da nessuna parte, e che egli non farà alcun passo avanti, né al livello della sua vita personale, né a quello della vita collettiva, fino a quando non imparerà a spogliarsene e a vestire i semplici panni dell’umiltà. Come ammonisce severamente il padre Dante, per bocca di Virgilio: Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. / State contenti, umana gente, al quia / ché, se potuto aveste veder tutto / mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe loro disio quetato, / ch’etternalmente è dati loro per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato, / e di molt’altri; e qui chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato (Purgatorio, III, 34-45). San Tommaso d’Aquino è stato un grandissimo pensatore, Dante Alighieri è stato un grandissimo poeta; ma noi moderni, ebbene, noi moderni ci sentiamo assai più grandi di costoro, sdegniamo i loro ragionamenti, disprezziamo il loro senso del limite. Siamo moderni: perciò come potremmo accontentarci del quia? E lo facciamo anche come credenti: e come ci piace adoperare questa espressione: noi cristiani moderni, come se il cristiano "moderno" fosse qualcosa di più dei cristiani del passato, come se il nostro cristianesimo avesse qualcosa di speciale, di progredito, d’illuminato, che quello dei nostri avi non aveva. E infatti! Non paghi di aver tutto stravolto, liturgia, pastorale, perfino la dottrina, ora osiamo anche modificare le parole del Padre Nostro, le parole della santa preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato, e che i Vangeli fedelmente ci hanno trasmesso nel corso dei secoli e dei millenni. Ma ora arrivano i signorini filologi, i più avanzati rappresentanti del cristianesimo "moderno", e ci dicono che era sbagliato, che quella traduzione non andava bene, e che bisogna recitare il Padre Nostro con parole diverse. Ecco: questo è un buon esempio della pretesa dei cristiani d’oggi di costringere Dio a mostrarsi, a farsi della nostra misura, a scendere dal cielo in terra per evitarci l’imbarazzo di sentirci troppo piccoli. E ci scordiamo che Egli è già stato sulla terra, e che è perfino morto in croce per noi!

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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