
Guarire dall’orgoglio, rinascere nell’umiltà
30 Novembre 2018
Ora il peccato non è più considerato un male…
3 Dicembre 2018C’è una domanda, che assume quasi le dimensioni epiche e drammatiche di un enigma, la quale non cessa di tormentare, apparentemente, gli storici del periodo fascista e i biografi di Alessandro Pavolini, che fu, come è noto, ministro della Cultura Popolare dal 1939 al 1943 e poi segretario del Partito Fascista Repubblicano, dal 1943 sino alla fine, cioè alla sua fucilazione, a Dongo, il 28 aprile 1945. La domanda è questa: come poté l’intellettuale Pavolini, il raffinato Pavolini, il dolce Pavolini, diventare una specie di belva assetata di sangue dopo l’8 settembre 1943, incarnando il peggio del regime fascista repubblicano? Infatti sulle sue qualità umane, la probità, la serietà, la dedizione, la mitezza, e sulla sua caratura intellettuale, di scrittore, di giornalista, di critico cinematografico e di promotore della cultura, sono praticamente tutti d’accordo; o meglio: sono tutti d’accordo fino all’8 settembre del 1943. È come se fosse balzati fuori un atro Pavolini a partire da quella data, o, per essere più precisi, a partire dal 17 settembre del 1943, quando rientrò in Italia e si istallò a palazzo Wedekind, a Roma, in qualità di segretario del neonato, o del risorto, Partito Fascista Repubblicano, dopo che Mussolini si era fatto convincer da Hitler a riprendere in mano il potere sotto la protezione tedesca e di tentare la ben difficile operazione di riesumare un cadavere, il fascismo, che la sera del 25 luglio 1943, alla notizia della sua sfiducia e del suo arresto da parte del re, era morto di morte fulminea e pressoché indolore.
A partire da quel momento, a dire degli storici e dei biografi, la personalità di Pavolini, personaggio indubbiamente talentuoso, ma tutto sommato, fino ad allora, di seconda fila, subisce una specie di mutazione genetica; si scatenano nella sua mente chissà quali mostri, chissà quali fantasmi; in breve: l’uomo dai gusti raffinati, ambizioso, sì, ma, nello stesso tempo, complessivamente modesto, che aveva fatto carriera all’ombra di Galeazzo Ciano; l’uomo che i suoi amici intimi definivamo come "dolce", incapace di violenza, alieno da ogni estremismo, insomma un fascista moderato, forse sedotto, come altri della sua generazione (era nato a Firenze nel 1903), dal mito di quella guerra mondiale cui non aveva fatto in tempo a partecipare, e perciò smanioso di azione, nonché tormentato, come appare dai suoi romanzi e racconti, da una vena crepuscolare decisamente malinconica e ultraromantica alla Jacopo Ortis; l’uomo che non era riuscito a sfogare del tutto quella carica di aggressività mediata dalla letteratura, né nelle facili imprese squadriste nella sua Firenze dei primi anni del fascismo, né nella guerra d’Etiopia, cui aveva partecipato al fianco del suo protettore Ciano, magnificandone i prodigi di valore aereo, ma mostrandosi anche lui stesso coraggioso e sprezzante del pericolo, dopo il ritorno di Mussolini al potere nel 1943 tirò fuori la sua seconda natura, o la sua natura fino ad allora ben nascosta: sanguinaria, brutale, fanatica e ciecamente vendicativa. Insomma dal bonario dottor Jekyll, a quel punto, sarebbe venuto fuori, chi sa come (misteri del cuore umano!, sospirano i nostri Paul Bourget in sedicesimo e i nostri piccoli Freud a un tanto il chilo) il feroce Hyde, un mostro assetato di sangue: tale è la similitudine che tira in ballo uno dei suoi biografi, Arrigo Petacco, nel suo libro che, peraltro, non è dei peggiori — vogliamo dire: non è dei più faziosi – fra quanti sono stati scritti per rievocare la figura dell’ultimo segretario del Partito fascista.
E tuttavia, ci permettiamo di obiettare: quella domanda è davvero ben posta? È proprio vero che Pavolini ha subito una inspiegabile mutazione nei giorni del settembre 1943? È proprio vero che egli era stato così mansueto prima di quella scadenza, e così spietato dopo? E, più in generale, è proprio vero che egli, nel periodo di Salò, fu quella belva assetata di sangue che ci viene descritta dalla storiografica e dalla saggistica dominanti? Questi interrogativi sono tanti più interessanti, e tanto più urgenti, in quanto, a ben guardare, dal modo in cui si pongono tali domande, e dalla prospettiva che si adotta per tentare di rispondere, dipende non solo il giudizio storico sulla persona di un singolo individuo – il quale, ripetiamo, in fin dei conti, è stato una figura secondaria nella storia del fascismo, che ebbe un ruolo abbastanza marginale nella fase iniziale del movimento e un rullo dirigente, sì, ma pur sempre in qualche modo subordinato, durante il regime, e che Mussolini stesso aveva esautorato qualche mese prima del 25 luglio 1943, togliendogli il ministero della Cultura Popolare e relegandolo alla direzione del Messaggero — ma su tutto il fascismo dell’ultima stagione, quello di Salò. Si tratta cioè di capire, o almeno di tentar di capire, attraverso le scelte di Pavolini nel periodo 1943-45, il punto di vista e la temperie morale che guidò le scelte di tanti altri giovani italiani, i quali, spesso rimasti estranei al fascismo, o in posizioni di seconda e terza fila, dopo l’8 settembre fecero una scelta decisa e irrevocabile, legando il loro destino a un regime chiaramente morituro, che nessuno, purché lucido di mente, poteva illudersi che avrebbe potuto sottrarsi alla resa dei conti finale. A noi sembra di poter dire che quasi nessuno degli studiosi italiani ha valutato con sufficiente onestà e obiettività quelle scelte e quelle persone; per non parlare dei giornalisti e degli scrittori i quali, pur non essendo dei veri studiosi, hanno voluto ugualmente pronunciare il loro giudizio, sprezzante e durissimo, su quella generazione di italiani, e specialmente di giovani – lo stesso Pavolini, l’8 settembre del 1943, non aveva ancora compiuto quarant’anni — i quali salirono a bordo di una nave che stava affondando e lo fecero in piena consapevolezza, sapendo cioè di andare incontro al disonore, alla morte e anche a qualcosa di peggio, la damnatio memoriae. Pertanto ci pare che sia giunto il tempo, ormai da un pezzo, di guardare con maggiore serenità e imparzialità alla generazione di Salò e di provare a comprendere, non necessariamente a condividere e ad approvare, il dilemma in cui si trovarono quei giovani, liberandoci, per prima cosa, dagli stereotipi della cultura militante antifascista e democratica, a causa dei quali, per oltre settant’anni, non è stato possibile parlare di tali cose con un minimo di pacatezza. Non è certo un caso, infatti, che la sola storia della repubblica di Salò scritta con organicità e con un certo sforzo, peraltro insufficiente, di obiettività. sia uscita dalla penna di uno storico non italiano, l’inglese Frederick William Deakin; a parte l’ultimo volume della biografia di Mussolini di Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, vol. III, La guerra civile 1943-1945, che, come è noto, fece scandalo e suscitò altissimi lamenti da parte della cultura politicamente corretta, già solo per il fatto di aver usato, fin dal titolo, l’aborrita espressione guerra civile.
Scriveva, dunque, Arrigo Petacco nella sua biografia Pavolini. L’ultima raffica di Salò (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, pp. 157-158):
Anche Pavolini si rivela molto attivo in questa corsa alla successione di Mussolini. Ritiene, non a torto, di poter godere della protezione di Goebbels, ma è anche consapevole di possedere le qualità indispensabili (fede, ardimento, preparazione culturale) per ridare vita in Italia ad un movimento fascista capace di riscattare l’onta badogliana.
È in quella fredda estate baltica che matura quella sua trasformazione che sarà motivo di sorpresa e di sgomento per quanti lo conoscevano. Il tenebroso mister Hyde, che forse già si nascondeva nelle profondità del suo animo, emerge con violenza allontanando l’immagine del bonario dottor Jekyll. Nel suo lucido delirio egli abbozza in quei giorni il progetto letterario di restituire al fascismo la purezza e l’entusiasmo della "prima ora", riesumando i vecchi, intransigenti ideali dello squadrismo che il regime imborghesito ha, a suo parere, avvilito e deluso.
Scherzi dell’età: come capita a molti quarantenni quando rievocano i loro vent’anni (che sono sempre belli, meravigliosi, perché il filtro della memoria ha cancellato tutto ciò che è sgradevole) Pavolini ora si crogiola nell’illusione di far rivivere un mondo che non è mai esistito. Dello squadrismo che ha vissuto giovanissimo, egli ricorda solo i momenti eccitanti dell’azione, dell’avventura, del "tutti per uno, uno per tutti" che la sua fantasia ha mitizzato. In questa sua trasposizione onirica della storia, i ceffi da galera che all’inizio degli anni venti manganellavano, incendiavano, rubavano, uccidevano — tanto che lo stesso regime li aveva poi messi in disparte — assumono ora le sembianze di puri eroi ingiustamente puniti. Solo richiamando costoro sarà possibile, egli sostiene, restituire al fascismo la sua antica purezza.
Con quest’idea fissa come un’ossessione, Alessandro Pavolini attende la chiamata nel suo malinconico esilio di Koenigsberg. "In Germania" racconterà più tardi Edmondo Cione, un filosofo approdato a Salò, "Pavolini sosteneva la necessità di un’epurazione sanguinosa, specie contro i fascisti che a parer suo erano stati dei traditori". Auspica, insomma, un lavacro di sangue purificatore; è convinto che per far risorgere lo spirito dello squadrismo sia necessario gettare sull’altare le teste mozzate di coloro che hanno tradito il regime dopo averne goduto i privilegi… Prima fra tutte, quella del suo amico Galeazzo Ciano.
Siamo al prologo di un dramma shakespeariano.
Questa pagina di prosa offre un buon esempio, a nostro avviso, di come non vanno impostate le questioni storiografiche. Il richiamo a Jekyll e Hyde non appartiene al mondo della ricerca storica, e neppure alla psicologia, ma semplicemente alla (cattiva) letteratura, perché in esso la conclusione è già insita nella premessa: pessimo metodo per cercare la verità. E il bello è che Petacco addebita a Pavolini una velleità romantica e letteraria: restituire al fascismo la purezza della prima ora. Quando poi tira fuori gli scherzi dell’età e l’andropausa, ovvero la nostalgia dei quarantenni per i loro vent’anni, al lettore viene ammannito un piatto ancor più discutibile: una psicologia da portinaie. Ed è Petacco, non Pavolini, che continua a ragionare secondo schemi letterari: uno per tutti e tutti per uno lo ha pescato dal bagaglio delle sue letture adolescenziali, da Dumas e probabilmente anche di Salgari. Però ci presenta queste banalità come acute intuizioni psicologiche: la regressione all’infanzia, tipica dei caratteri insicuri e conservatori, spaventati dal nuovo eccetera, eccetera; buon per noi che non sfodera anche il carattere sadico-anale e altre amenità del genere pseudo psicanalitico. E quando scrive che Pavolini auspica un lavacro di sangue purificatore, e che è convinto che per far risorgere lo spirito dello squadrismo sia necessario gettare sull’altare le teste mozzate di coloro che hanno tradito il regime dopo averne goduto i privilegi, è ancora lui, Petacco, che fa della letteratura, o meglio ancora del teatro, secondo gli stereotipi del Grand-Guignol. Pavolini come un novello Saint-Just? Certo, potrebbe anche essere. Ma perché non partire dall’interpretazione più semplice, più lineare, più plausibile, senza scomodare né Stevenson, né Dumas, né I giacobini di Federico Zardi o addirittura Shakespeare? Forse Pavolini voleva semplicemente ripulire il Partito fascista da traditori e opportunisti: cosa perfettamente logica, in quelle condizioni. Se no, chi glielo faceva fare di accettare un incarico così pericoloso? Lui pensava, e non a torto, che il 25 luglio era stato possibile perché Mussolini era stato troppo generoso con la fronda interna e aveva trattato con i guanti i suoi ex compagni di un tempo. che brigavano e trescavano col re e con i nemici del regime (si tenga presente che Pavolini era stato mandato in Germania, nel 1934, proprio per informarsi sulla notte dei lunghi coltelli e stendere una relazione sull’eliminazione di Ernst Röhm e dei vertici delle SA, destinata allo stesso Mussolini).
E qui viene fuori, inevitabilmente, il discorso sul processo e la fucilazione di Ciano, entrambi fortemente voluti da Pavolini. Certo, è molto italiano, cioè molto sentimentale, rinfacciare a Pavolini la sua "ingratitudine" e vedere in quell’episodio la sua disumanità, la sua sete di sangue. Ma perché non vederci la prova del fatto che Pavolini metteva il bene del partito – che per lui, in quel frangente, era tutt’uno con la salvezza della Patria — al di sopra degli affetti privati? Perché non vedere una dimostrazione del suo senso del dovere, che gli faceva posporre i vincoli di amicizia personale a ciò che riteneva doveroso verso il popolo italiano, che aveva già immolato tanti suoi figli per la difesa della Patria? Che c’entra questo con l’ingratitudine? Tutti sanno che Dante, quand’era priore di Firenze, votò, come gli altri, per l’esilio a Sarzana del suo amico fraterno Guido Cavalcanti, che vi contrasse la malaria della quale, poco dopo, sarebbe morto; e tutti sanno che non solo pose all’inferno, ma rivelò al mondo il peccato di sodomia del suo amato maestro Brunetto Latini: eppure nessuno si è mai sognato di tacciare Dante d’ingratitudine o disprezzo dell’amicizia. Semplicemente, per Dante il bene della Patria veniva prima dei suoi affetti privati, che pure ebbe forti e nobili. Perché usare due pesi e due misure, quando si tratta di Pavolini? Ciano, con il voto del 25 luglio 1943, insieme a Grandi e Bottai, provocò il collasso del regime, dal quale aveva ricevuto tutto. È vero: quel voto fu perfettamente legale sul piano giuridico, perché Mussolini stesso lo pose e lo accettò. Ma sul piano politico e morale, la faccenda è ben diversa: Ciano sapeva di tradire il fascismo e di tradire il suocero: è inutile negarlo. È strano che la vulgata antifascista si sia tanto preoccupata della pretesa ingratitudine di Pavolini verso il suo ex amico Ciano, il quale, fino al 25 luglio, era stato uno dei massimi capi fascisti, tanto quanto Farinacci, Ricci, Gradi, eccetera. Non è, per caso, che si vuol screditare comunque la figura di Pavolini? Se si fa passare l’idea che egli fu una belva coi suoi ex amici, tanto più facile sarà addebitargli tutti i morti della guerra civile. Non fu lui a ordinare che si procedesse con la massima severità contro i ribelli, cioè i partigiani? Certo; ci si dimentica, però, di dire che a scatenare la guerra civile non furono i fascisti, ma i partigiani, specialmente quelli di fede comunista. E sappiamo che non ebbero scrupoli a suscitare le repressioni tedesche e fasciste, come nell’episodio di via Rasella, per mero calcolo politico. Furono loro le belve assetate di sangue: e lo si vide il 25 aprile 1945 e nei giorni successivi a quella data, quando torturarono, stuprarono, derubarono e uccisero migliaia e migliaia di persone, non si saprà mai quante esattamente, anche e soprattutto persone inermi, giovani maestre, impiegati comunali, preti, ausiliarie dell’esercito repubblicano (non "repubblichino", caro Petacco) e perfino seminaristi, oltre ad un buon numero di partigiani non comunisti. Fu una mattanza; nel solo "triangolo della morte" in Emilia persero la vita a migliaia; circa 100 sacerdoti solo nelle province di Modena, Parma e Bologna. I fascisti, quando presero il potere, fra il 1922 e il 1925, non avevano agito così: anche se ce li descrivono come belve assetate di sangue, i morti, in confronto, furono pochissimi: eppure, fra il 1919 e il 1922, c’era stata una guerra civile, sia pure a bassa intensità. E dopo aver sconfitto i loro avversari, i fascisti sarebbero stati in condizione di scatenare delle rappresaglie ben più estese: avrebbero potuto, volendo, in base alla legge della forza, decapitare l’antifascismo, eliminando definitivamente migliaia di avversari. Nn solo non lo fecero, ma è noto che molte mogli e altri familiari di antifascisti arrestati si rivolsero personalmente a Mussolini per chiedere clemenza per i loro cari, e che quasi sempre Mussolini rispose favorevolmente. Potremmo citare decine e decine di nomi, a cominciare da quello di Guido Bergamo. Ma anche Pietro Nenni, Mario Bergamo, Errico Malatesta e tanti altri poterono o fuggire all’estero, o seguitare a vivere senza molestie in un’Italia fascista che gli storici politicamente corretti hanno sempre descritto come un immenso campo di concentramento. Questo, però, non è lo stile dei dittatori. Lasciando stare il caso dell’Unione Sovietica, dove il compagno Stalin provocò la morte di 20 milioni di suoi connazionali per stabilire saldamente il proprio potere, e limitandoci a fare un confronto con una tipica dittatura di destra, quella di Francisco Franco, furono circa 30.000 i dissidenti spagnoli passati per le armi a guerra civile ormai finita, nel 1939, più altri 2.600 che vennero uccisi nel corso delle ultime azioni di controguerriglia. E quanti ne fece assassinare Mussolini, quando avrebbe potuto, se lo avesse voluto? Nessuno. Si parla sempre di Matteotti e dei fratelli Rosselli. Ma che a ordinare l’assassinio di Matteotti sia stato Mussolini, al quale non conveniva affatto, non è mai stato provato; mentre è certo che Ciano era implicato sino al collo nell’assassinio di Carlo Rosselli (Nello fu ammazzato per sfortuna, in quanto si trovava casualmente insieme al fratello).
E dunque, tornando a Pavolini, forse non ci fu nessun Jekyll e Hyde; forse egli fu solo una persona coerente e incapace di doppiogiochismo, che non volle tirarsi indietro quando la nave stava affondando, né voltare le spalle a colui al quale doveva tutto. A differenza di Ciano, Pavolini aveva sia il senso dell’onore, sia la coerenza e la lucidità politica per capire che non era possibile, dopo aver servito il fascismo per vent’anni, riciclarsi in chiave non fascista o addirittura antifascista, solo perché la guerra andava male e la sconfitta appariva sempre più probabile. Non vogliamo dire, con questo, che fu un eroe: le sue mani, è vero, son macchiate di sangue. Ma i tempi erano quelli: in una guerra civile, non ci sono i buoni e i cattivi, ma solo cattivi. Per settant’anni la cultura dominante ha cercato di persuaderci che la causa antifascista era buona, e perciò, se anche qualcuno sbagliò, i partigiani, nel complesso, erano moralmente nel giusto, i fascisti no. Ma questo è facile dirlo, visto come è andata a finire la guerra: c’era tutto da guadagnare a saltare sul carro del vincitore, e tutto da perdere a mostrarsi solidali coi vinti. E così, si è fatta calare una pesante cortina di silenzio sulle atrocità comuniste e gli eccidi a danno dei vinti, come quello dell’eroe e mutilato di guerra, Carlo Borsani, fucilato come un cane, benché cieco e medaglia d’oro al valore: di quali crimini si era macchiato? E i sette fratelli Govoni? E la povera Norma Cossetto? E il tredicenne Rolando Rivi? Davvero: la storia di quel ventennio è tutta da riscrivere. E sarebbe ora che qualcuno lo facesse…
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