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Disappetenza del mondo, ecco la nuova sindrome

Un carissimo amico, persona retta e buona, profondamente colta, ci ha scritto di recente; e a un certo punto, in mezzo alle altre notizie spicciole sulla famiglia e la salute, ha buttato lì una frase che ci ha fortemente colpiti: Per il resto, ho disappetenza del mondo. Precisiamo che non è un uomo dal carattere debole, tutt’altro; che ha, o comunque cerca con estremo impegno, la fede; che è molto riservato e dignitoso per quel che riguarda le confessioni intime. Eppure, una persona così, una persona di valore, a un certo punto, arrivata vicino ai settant’anni, dice: ho disappetenza del mondo. Non parliamo di una persona volubile o capricciosa, né di una "pappa molla", ma di una persona che ha sempre lavorato, ha tirato su una famiglia, è stata di esempio agli altri sia nel lavoro, che nella vita familiare; perciò quelle parole ci sono parse decisamente inquietanti, anche se non del tutto inaspettate. La cosa, poi, diventa addirittura allarmante se si allarga lo sguardo: perché, di simili confessioni, negli ultimi tempi, ci è capitato di raccoglierne parecchie. Persone sane, forti, virili, persone che hanno sempre combattuto, che hanno sempre affrontato a testa alta e con coscienza trasparente difficoltà morali e materiali, che non si sono mai fatte intimidire dal fatto di trovarsi in minoranza; persone che si sono sempre battute per essere fedeli ai valori perenni, ai valori della civiltà che i nostri avi hanno costruito, e che ci hanno dato da custodire, arrivate a un certo punto, quasi di colpo, paiono sul punto di voler gettare la spugna, e dicono: ho disappetenza del mondo. E sono i migliori: i più leali, i più coraggiosi, i più costanti. Quelli che non perdono un giorno di lavoro, che si prodigano per la moglie e i figli, che sono di esempio agli altri; quelli sui quali si può sempre contare, perché hanno un altissimo senso del dovere e considerano cose sacre la parola data e gli impegni assunti. Quelli che, se le cose andassero come dovrebbero andare, come sarebbe giusto che vadano, dovrebbero marciare in testa, mentre ora sono messe in disparte, guardate con sospetto, o con disprezzo, o anche con aperta ostilità. Perché la loro coerenza dà fastidio, in un modo di voltagabbana; la loro onestà dà fastidio, in un mondo di ladri; il loro spirito di abnegazione dà fastidio, in un mondo di egoisti marci.

La disappetenza del mondo è la più recente sindrome di quella malattia complessiva, e gravissima, che si chiama modernità. L’uomo moderno è malato per definizione: ha fatto proprie le cose più contrarie al suo stesso bene, alla relazione con gli altri e con Dio; procede in direzione contraria al vero, al bene, al giusto e al bello. Non c’è da stupirsi che sia un malato; ci sarebbe da stupirsi del contrario. Il fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sappia di avere addosso una grave malattia, non migliora certo le cose: quando mai l’ignoranza del proprio male favorisce la guarigione? Al contrario, favorisce l’esito letale della malattia: perché solo se si comprende d’essere malati, ci si può mettere nelle mani d’un medico e tentar d’intraprendere un percorso di guarigione. Da notarsi che il nostro amico non dice: ho disappetenza della vita, ma dice: ho disappetenza del mondo. Lui e tanti altri come lui, infatti, non sono, né sono mai stati, degli odiatori della vita; nemmeno adesso sono arrivati al pessimismo radicale e al nichilismo sconsolato. Non c’è niente di leopardiano nella loro sindrome; non c’è neanche l’ombra del compiacimento di star male ed essere divenuti perciò fragili e vulnerabili. Se potessero, si godrebbero la vita; si godrebbero i frutti del loro lavoro, le gioie della famiglia. Non hanno grilli per la testa, come si usava dire una volta; non inseguono chimere, non sono di quelli che si farebbero licenziare in tronco, o che sfascerebbero un matrimonio, solo perché afferrati da una passione momentanea. Sono persone con la testa ben piantata sul collo, e i piedi ben piantati in terra. Non odiano perciò la vita; ma sono giunti a provare disgusto del "mondo". Il mondo, in senso cristiano, nel senso che questa parola ha nel Vangelo di Giovanni, è tutto ciò che si oppone alla luce, alla verità, al bene, e dunque tutto ciò che si oppone a Cristo. Ma il "mondo" è anche la dimensione sociale dell’esistenza, il contatto con l’altro, diretto o indiretto. Che cosa è sopraggiunto, allora, a render penoso, molesto, insopportabile, il contatto con gli altri? Quale è la causa di questo disgusto, di questa stanchezza, di questo fastidio per la dimensione sociale della vita, da parte di persone le quali non hanno mai provato il taedium vitae, non sono mai state egoiste e non sono inclini alla misantropia, né all’ipocondria?

La spiegazione va ricercata nel clima generale che stiamo vivendo. Tutto fa pensare che la nostra non sia affatto una crisi transitoria, ma una crisi di civiltà: stiamo uscendo definitivamente, irrevocabilmente dal vecchio paradigma e ci muoviamo nella terra di nessuno. Il vecchio paradigma – sia ben chiaro — non è quello della modernità, perché la modernità non è mai diventata una vera civiltà: è nata agonizzante e ha trascinato un’esistenza miserabile per qualche secolo, ora sta affondando ingloriosamente e gli uomini, annaspando fra le sue macerie, cercano di aggrapparsi non ad essa, che è già un cadavere, ma alla civiltà su cui essa si è insediata come un fungo parassita o, meglio, come un tumore maligno: la civiltà cristiana, che è stata l’anima dell’Europa e che aveva salvato quanto di meglio la civiltà precedente, quella greco-romana, aveva prodotto. L’Europa è stata qualcosa, è stata perfino grande, fino a quando è stata sorretta dallo spirito del cristianesimo, arricchito dall’eredità della Grecia e di Roma in ciò che esse avevamo di realmente positivo: l’amore per la cultura e per la bellezza; la filosofia, il diritto, la concretezza e il sano realismo che trova le sue fondamenta in un senso attivo e virile dell’esistenza. A tutto questo il cristianesimo aveva aggiunto la spiritualità, la generosità disinteressata, il perdono, il senso della trascendenza. Era stato un connubio formidabile, che aveva dato linfa ai popoli europei per più di mille anni, li aveva spinti a ricostruire le città, a ricopiare e leggere con amore i classici, a edificare un regno dello spirito che non contraddice, ma si armonizza con la dimensione terrena: mercati e abbazie, castelli e crociate, pellegrinaggi e cattedrali, monachesimo e università; e poi Alberto Magno, e Tommaso d’Aquino, e la Divina Commedia, e Giotto. Intanto, però, la civiltà europea aveva cominciato a sviluppare il tumore: il tumore della modernità. Lo si vede già alla metà del 1300: Petrarca è un uomo malato, frustrato, insoddisfatto, vanitoso, narcisista, egocentrico, e soprattutto schizofrenico. Vuole questo e quello, il mondo di quaggiù e il mondo di lassù: non sa scegliere, vuole tutto. In compenso è un uomo che sa fingere molto bene, anche con se stesso: costruisce la propria leggenda, ostenta disprezzo per il mondo e si costruisce una figura idealizzata di sé; ritocca e falsifica le sue stesse lettere, a decine, a centinaia, per ricamare un’immagine inventata di se stesso, un’immagine che lo faccia emergere come un gigante, mentre è solo un piccolo uomo malato e spocchioso, ipocrita e maneggione, talmente innamorato di sé da arrivare a convincersi di tutte le falsità che ci racconta, compresa quella del suoi pentimenti, dei suoi rimorsi dei suoi scrupoli. E così è la civiltà dell’umanesimo: meno nella fase iniziale, ancora legata al cristianesimo; molto di più nell’ultima fase e nel rinascimento, dove l’antropocentrismo diviene apertamente pagano. Ma non è il paganesimo greco-romano, come essi vogliono far credere: non c’è nulla di autenticamente classico nell’umanesimo, se non la leggenda del classicismo; per il resto, esso si discosta dal suo supposto modello nella cosa più essenziale: la religiosità. I greci e i romani credevano negli dei, eccome; gli umanisti, e specialmente gli intellettuali del rinascimento, non credono più in niente e in nessuno al di fuori e al di sopra dell’uomo. A causa di questa ossessione dell’io, l’uomo moderno è malato e infelice sin dal principio. Malato è don Chisciotte, fino alla pazzia; malato è Amleto, e Macbeth, e Otello, e Re Lear e tutti gi altri eroi shakespeariani, incapaci di distinguere il confine fra realtà e apparenza, e tuttavia sospettosi di esso; innamorati e disgustati di se stessi, vanitosi e ondivaghi, ambiziosi e superficiali, cinici e romantici, in conclusione irresoluti, paralizzati, inconcludenti, scollati dalla vita. Ma intanto l’uomo moderno costruisce orgogliosamente il mito di se stesso, dalla propria intelligenza, della propria scienza: ed ecco Galilei che vuol rifare i cervelli, che vuole insegnare ai credenti come si legge la Bibbia, che vuole imporre a tutti il dominio degli scienziati e che arriva a compiere ogni sorta di bassezza — falsificare le carte, appropriarsi di meriti altrui, denigrare spudoratamente gli avversari, prendersi gioco perfino dei suoi amici gesuiti – pur di costruire il proprio monumento. La stessa spregiudicatezza del cavalier Marino, che è l’altra faccia della Seicento; solo che Marino non pretende di essere un idealista, è un ribaldo e non lo nega, e anche la sua ambizione e il suo narcisismo sono più franchi, più scoperti, meno ipocriti; mentre Galilei si spaccia per apostolo di un nuovo sapere, per un missionario della nuova civiltà, si presenta come Nunzio Celeste, come campione della Nuova Scienza. Ma è anche lui un uomo piccolo, come Petrarca: talmente piccolo che ha bisogno di sbattere in convento le sue figlie per non avere ostacoli fra i piedi, di tacere il nome del vero inventore del cannocchiale per non avere concorrenti, di storpiare le affermazioni di Orazio Grassi per aver la meglio su di lui in una disputa sulle comete, nella quale ha invece completamente, irrimediabilmente torto. Eppure ha funzionato, e i moderni hanno ancor più innalzato quel piedistallo, e nascondono le sue miserie e gonfiano oltre misura i suoi meriti, in un modo che lui stesso non avrebbe osato sperare. E la marcia dell’anti-civiltà moderna è proseguita. Dalla scienza superiore a tutto, alla ragione superiore a tutto, all’intolleranza verso la trascendenza, al fastidio verso Dio, fino all’aperta persecuzione degli uomini e delle donne che si sono votati alla vita religiosa. Il martirio delle carmelitane scalze, a Parigi, sulla ghigliottina, è l’annunzio della fase più fosca della persecuzione anticristiana, che in Messico, in Russia, in Spagna, in Cina, nei Paesi islamici, farà milioni di morti. Poi la rivoluzione industriale, il capitalismo di rapina, lo strapotere della finanza, cioè dell’usura: l’usura, già individuata da Dante come la più terribile minaccia, e denunciata da Pound, il vero erede di Dante fra i poeti moderni; e la filosofia che gira a vuoto su se stessa, che farnetica tra solipsismo ed esistenzialismo, fra essere per la morte e nichilismo totale, e che non sa dire una parola di conforto agli uomini, sa solo aggravare la loro angoscia e affondare il coltello nella piaga della loro disperazione. E la tecno-scienza che se ne va imperterrita per la sua strada, senza freni, senza misura, né una meta: ora è giunta alla manipolazione del dna umano, domani, chissà, procederà alla creazione di esseri ibridi, di chimere, di uomini-animali o di animali-uomini, e poi, e poi…

Non c’è da stupirsi se gli uomini d’oggi sentono di vivere in un mondo che sta morendo e si sono stancati, si sentono nauseati di questo puzzo di cadavere, di questi miasmi di decomposizione. La modernità non ha lasciato che ceneri e disperazione dietro a sé. Del cristianesimo resta qualche debole fuocherello, che gli ultimi barbari, i neopreti della neochiesa modernista, si stanno affannando a spegnere metodicamente, col preciso obiettivo di non lasciarne vivo neppur uno. Vogliono spegnerli tutti affinché l’opera del diavolo sia completa e l’umanità ripiombi nelle tenebre più fitte; non le tenebre del troppo denigrato medioevo, ma la tenebre di un mondo senza più Dio, e perciò senza pace, senza bellezza, senza amore, senza perdono, senza misericordia, senza giustizia, senza alcuna speranza di sopravvivenza. È logico che le persone più sensibili e intelligenti provino un senso d’impotenza per lo spettacolo di questo mondo: è un mondo che si sta disfacendo sotto i nostri occhi e che manda un lezzo tremendo di putrefazione. Pure, è proprio da questa presa d’atto che dobbiamo ripartire. Sappiamo che la civiltà moderna, se proprio così la vogliamo chiamare, è morta; e sappiamo di non poter andare innanzi sulla strada da essa tracciata, perché ancora un altro passo significherebbe la fine dell’umanità. Sappiamo che già ora esistono armamenti coi quali si potrebbe distruggere la vita su una trentina di pianeti come la nostra Terra, e sappiamo di aver raggiunto le ultime frontiere della bioetica, di aver oltrepassato un limite che doveva restare tabù: la manipolazione dell’uomo, cioè lo scimmiottamento blasfemo, demoniaco, della creazione divina. Dunque, ci resta una sola strada da percorre: tornare sui nostri passi e ritrovare il punto in cui abbiamo lasciato la retta via. Altre soluzioni non ce ne sono; non esistono ripieghi o palliativi. La nostra malattia è di quelle per le quali si muore: la sola speranza che abbiamo è quella d’incidere il tumore e di asportarlo immediatamente, prima che vada in metastasi. La metastasi è il 90% di quel che la modernità ha costruito, fuori e dentro di noi. Siamo poco più che degli allucinati e dei drogati, incapaci di vivere un giorno senza i nostri telefonini, i nostri televisori, i nostri computer e le nostre automobili: sono le macchine che ci tengono in vita, ma sono esse che ce la stanno rubando, insieme alla nostra anima. Per giunta, gli apprendisti stregoni, della modernità, non paghi di tutti i disastri che hanno provocato o affrettato, stanno avvelenando i pozzi, affinché non resti speranza di vita dopo di loro. In un supremo gesto di mostruoso egoismo, vorrebbero che l’umanità perisca sotto le macerie di quel mondo che non hanno saputo costruire. Lo stanno facendo ovunque: dalla scienza alla politica, dalla cultura all’arte. Dobbiamo perciò difenderci: a mali estremi, estremi rimedi. Come si trattano, in guerra, i traditori che avvelenano i pozzi? Perché dobbiamo persuaderci che questa è una guerra; non l’abbiamo voluta, la stiamo subendo. Ne va della nostra sopravvivenza.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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