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Il segreto dei Santi è l’unione con Dio

Molti credono che i Santi siano una categoria umana speciale, una categoria a parte; s’immaginano che Santi si nasca, o quasi; e che insomma per essere Santi esista un segreto, se non proprio un trucco, che gli altri, i comuni mortali, ignorano, e senza il quale nessuno può avvicinarsi alla santità. Ebbene, quest’ultima opinione è esatta: i Santi hanno un segreto, chiamiamolo pure un trucco, se vogliamo; ma un trucco semplicissimo e un segreto che non è tale per nessuno, nel senso che non viene gelosamente custodito affinché gli altri non lo conoscano, ma, al contrario, viene continuamente proclamato in tutte le lingue e in tutte le maniere. Perciò, se è un segreto, o se ha le apparenze di un segreto, ciò dipende dal fatto che siamo distratti, che siamo duri d’orecchi, o piuttosto, per dir le cose come stanno, che ci sentiamo solo per quel tanto che ci fa comodo udire e capire, e per il resto non sentiamo più e comprendiamo ancor meno. Il segreto è semplicemente questo: l’unione intima, totale, incondizionata, dell’anima con Dio. L’unione del cuore, della mente, della volontà; la rinuncia totale al proprio io e l’adesione totale al Tu divino. Non quello che voglio io, ma sia fatto quello che vuoi Tu: è la preghiera di Gesù al Padre, nell’orto degli olivi. E se questa è la preghiera di Gesù, a maggior ragione deve essere la preghiera dei cristiani. Se Gesù, che è Dio, ha pregato il Padre suo affinché si compisse la volontà di Lui, e non la propria, a ben maggior ragione noi, che siamo solamente uomini, dobbiamo rivolgere a Dio la stessa preghiera: che sia fata ogni cosa secondo la Sua volontà. Ogni cosa; anche quello che più ci spaventa: la sofferenza. Chi ha paura di soffrire non è capace di amare sino in fondo, non sa dire "tu" fino all’oblio di se stesso. E se questo è vero sul piano delle cose umane, ad esempio se parliamo dell’amore di uno sposo per la sua sposa o di una madre per i suoi figli, è ancora più vero quando parliamo dell’amore del cristiano nei confronti del suo Signore.

Certo, siamo lontani anni luce da quel che dicono gli uomini di punta della neochiesa bergogliana, come Enzo Bianchi, il quale afferma tranquillamente, ignorando, disprezzando e calpestando duemila anni di teologia cattolica e di misticismo cattolico, da san Paolo a san Pio da Pietrelcina (vedere il sito http://www.ognissantisanbarnaba.it/):

La chiesa spesso insegna che la sofferenza è mandata da Dio,. Non è vero che il Signore manda la sofferenza per il nostro bene. Dire che la sofferenza è mandata per purificare i peccati è una bestemmia! (…) Dio manda il male per il nostro bene, perché vuole insegnarci qualcosa, uno scopo. È un’altra deformazione sul senso del male. (…) Dio manda il male per espiare i peccati ("con la tua sofferenza non vai più in purgatorio"). (…) Molti preti dicono agli ammalati: offri le tue sofferenze. No! è un grave errore

Oltre a deformare, con malizia calcolata, l’insegnamento tradizionale della Chiesa sul significato del male e del dolore (che sono due cose ben diverse, ma che lo pseudo teologo tratta come se fossero una cosa sola), costui ha un’idea esclusivamente naturalista del male e quindi lo considera uno dei grandi nemici dell’uomo; con il che si preclude qualunque possibilità di penetrare il suo vero significato nel piano della Redenzione, a cominciare dalla Passione, Morte e Resurrezione del Signore Gesù Cristo.

Ecco invece cosa scriveva nel suo diario una grande santa "nascosta" del XX secolo, suor Faustina Kowalska (1905-1938), la cui vita, esteriormente poverissima, e tutt’altro che segnata dal successo o dalla fama, secondo le categorie umane, è contraddistinta da una quantità impressionante di grazie spirituali, che si manifestarono sotto forma di rivelazioni, visioni, stigmate nascoste, partecipazione alle sofferenze di Gesù Cristo, nonché nel dono della profezia, nella conoscenza delle anime, nella ubiquità, nel contatto vivo con Dio, la Madonna, gli Angeli, i Santi e le anime del Purgatorio, infine con il fidanzamento e lo sposalizio mistico con Cristo (in: Maria Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso; titolo originale: L’Icône du Christ misericordieux. Message de Soeur Faustine, Parigi, 1973; traduzione dal francese di Maria Giovanna Muzj, Roma, Edizioni Paoline, 1981, pp. 188-189; 204-205):

A un certo momento, dopo la Comunione, udii queste parole: "Tu sei la nostra dimora", e nello stessi istante sentii la presenza della Santissima Trinità: del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Mi sentivo tempio di Dio, mi sentivo figlia del Padre. Non so spiegare il tutto, ma lo spirito intende bene la cosa. […]

La sera dello stesso giorno provai nell’anima una grande nostalgia di Dio. Attualmente non o vedo come per il passato con gli occhi del corpo, ma lo sento senza comprenderlo. Ciò mi dà nostalgia e mi procura un martorio indescrivibile. Agonizzo per il desiderio di possederlo, in modo da potermi immergere in lui nei secoli; il mio spirito aspira a lui con tutte le forze, non vi è alcuna cosa al mondo che i possa consolare. […]

Una sera, allorché dalla mia cella guardai il cielo e vidi lo splendido firmamento, tempestato di stelle e con la luna, si accese all’improvviso nell’anima mia un fuoco di amore inconcepibile per il mio Creatore e, non essendo in grado di sopportare la nostalgia di lui, mi prostrai faccia a terra e… piansi ad alta voce. A un tratto mi toccò l’Angelo custode e mi disse: "Il Signore mi ordina di dirti che ti alzi da terra". Lo feci all’istante, ma l’anima mia non fu consolata: la nostalgia di Dio mi afferrava ancora più forte. […]

O Santissima Trinità, Dio sempiterno, l’anima mia si immerge nella bellezza, i secoli non sono nulla al tuo cospetto, tu sei sempre lo stesso. Oh, quant’è grande la tua maestà, Gesù! Qual è il motivo per cui nascondi la tua maestà, per cui hai lasciato il tuo trono nel cielo e dimori con noi? Il Signore mi ha risposto: Figlia mia, è l’amore che mi ha condotto, è l’amore che i trattiene. Figlia mia, se tu sapessi quale grande premio acquista e riceve un atto di puro amore per me, morresti di gioia. Lo dico affinché tu ti unisca continuamente a me mediante l’amore, perché questo è lo scopo della vita dell’anima tua… Quando ti abbassi al cospetto della mia maestà, è proprio allora che ti inseguo con le mie grazie e che uso l’onnipotenza per innalzarti. […]

L’intimo dell’anima mia è come un mondo grande e meraviglioso nel quale Dio dimora in me. Nessuno vi ha accesso all’infuori di Dio. All’inizio di questa vita con Dio mi penetravano amore e accecamento: il suo fulgore mi accecava e pensavo che egli non fosse nel mio cuore; ma tuttavia erano questi i momenti in cui Dio operava nella mia anima, mentre l’amore diventava più puro e più forte. Il Signore condusse la mia volontà alla più stretta unione con la sua santa volontà. Nessuno potrà capire quanto sto vivendo in questo meraviglioso palazzo dell’anima mia, dove dimora costantemente col mio diletto. Nessuna cosa esteriore m’impedisce di vivere con Dio. Anche se usassi le parole più forti, esse non esprimerebbero neppure l’ombra di come l’anima mia sia inebriata di felicità e di amore inconcepibile; amore così grande e puro come la fonte dalla quale esso scaturisce, cioè Dio stesso. L’anima è talmente penetrata da parte a parte dal Signore che lo sento fisicamente. Anche il corpo prende parte a questa gioia. Sebbene accada che il soffio di Dio varii nella medesima anima, questo soffio proviene tuttavia dalla stessa fonte.

Nessuno potrà capire quanto sto vivendo in questo meraviglioso palazzo dell’anima mia: sono parole molto simili a quelle con cui un’altra gradi sisma mistica e santa, Teresa d’Avila, racconta, nel suo Castello interiore, la propria esperienza diretta e immediata del divino. Ma sono parole che gli spiriti gretti, terreni, materialisti, non capiranno mai. Non ha forse osato scrivere, il cardinale Jôao Braz de Aviz, presidente della Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di vita consacrata nell’istruzione intitolata Ecclesia Sponsae Imago (§ 88) che

la chiamata a rendere testimonianza all’amore verginale, sponsale e fecondo della Chiesa verso Cristo non è riducibile al segno della integrità fisica, e che l’aver custodito il proprio corpo nella perfetta continenza o l’aver vissuto in modo esemplare la virtù della castità, pur rivestendo grande importanza in ordine al discernimento, non costituiscono requisiti determinanti in assenza dei quali non sia possibile ammettere alla consacrazione,

e cioè, detto con parole più franche e un po’ meno truffaldine, che non occorre essere realmente vergini, come lo era santa Faustina Kowalska, per appartenere all’Ordo Virginum? Al che ha fatto seguire (nel § 89) il consiglio che una donna, prima di fare la scelta della verginità innanzi a Dio, farebbe bene a consultare uno psicologo, perché — ma questo il cardinale non lo dice: lui appartiene a quella mala razza che tira il sasso e nasconde la mano — forse le manca qualche rotella. Perciò si nasconde dietro frasi involute, untuose e melliflue, degne del peggior prosa barocca, come questa:

Se, infatti, la vocazione alla verginità consacrata, in quanto frutto di un particolare dono di Dio, e il suo discernimento finale eccedono le competenze specifiche della psicologia, queste ultime possono essere integrate nel quadro globale del discernimento e della formazione, sia per una valutazione più sicura della situazione psichica della aspirante o della candidata e delle sue attitudini a rispondere alla vocazione, sia per un ulteriore aiuto nella sua crescita umana.

Anche se il concetto è solo implicito, in pratica si tratta di questo: secondo il cardinale, se una ragazza vuol consacrare a Dio la sua verginità, ci sono buone probabilità che soffra di qualche disturbo psichico; e per sincerarsene, la cosa migliore che si possa fare è, appunto, che si sottoponga ad una bella visita psichiatrica. E se qualcuno pensasse che stiamo esagerando e che siamo, noi, maliziosi, sappia, se per caso non lo sapesse, che nella chiesa di Bergoglio è già in atto la seguente pratica, per esempio negli Stati Uniti: se un sacerdote si esprime in termini negativi sul peccato di sodomia, se osa mettere in dubbio che si possa essere felicemente cristiani e felicemente gay, felicemente preti e felicemente invertiti, i vescovi progressisti lo costringono a sottoporsi a una bella visita psichiatrica. Un po’ come avveniva nell’Unione Sovietica ai tempi del compagno Stalin, se qualcuno si permetteva di dubitare delle meraviglie del socialismo reale: evidentemente, per Bergoglio e i suoi tirapiedi, chi non condivide la svolta omoeretica, chi non aderisce alla lobby gay e ai circoli gay-friendly che infestano la vera Chiesa cattolica, deve essere un malato di mente, e perciò merita un trattamento specialistico.

E non ha forse osato scrivere, il signore argentino che indegnamente occupa la cattedra di Pietro, nell’esortazione apostolica Gaudete et exusultate (ma come sono zuccherosi, zeffirelliani, i titoli dei documenti di "Francesco"; e come potrebbe essere diversamente, se lui è "Francesco", cioè l’alter ego del Poverello di Assisi?), nel § 26, che non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio? Ora, si rileggano le frasi del diario di santa Faustina Kowalska: è chiaro che costei doveva essere una persona profondamente malata, visto che amava il silenzio e aveva scelto il convento, ciò che equivale ad "evitare l’incontro con l’altro". Quanto al fatto di desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio, a noi risulta che suor Faustina Kowalska, come tanti altri Santi e Sante contemplativi (ma i Santi sono tutti dei contemplativi, dato che contemplano Dio!) non sottovalutava affatto il servizio; e nei tredici anni della sua vita da religiosa fu portinaia, giardiniera, cuoca, obbedendo con docilità agli ordini della superiora e alle indicazioni del suo direttore spirituale, mantenendosi sempre umile e riservata e osservando scrupolosamente la regola della sua congregazione, quella delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia. Non si credeva speciale, non si sognava di mettersi in mostra. Non cercava i riflettori, non scriveva sui giornali, non pontificava da radio e televisioni, come Enzo Bianchi e tanti altri simili a lui. E non inseguiva gli applausi e l’approvazione del mondo, come il signore argentino. Prima di entrare in convento, per mantenere se stessa e aiutare la famiglia, aveva fatto la domestica. Quando morì, si vide che non possedeva nemmeno un messalino personale. Anche se ci sono delle impressionanti convergenze fra le sue esperienze mistiche e quelle di grandi Santi o le speculazioni dei maggiori teologi, lei a quelle verità era giunta da sola; o meglio, ci era arrivata con la grazia di Dio. Perché Dio innalza gli umili e i semplici, ma si nega ai superbi e ai vanagloriosi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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