
Che succede alla nostra umanità?
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Si deve resistere alla tentazione dell’odio
24 Novembre 2018Il Palazzo Arcivescovile si trova quasi al centro della città, a due passi da porta Manin e da piazza 1° Maggio. Fino alla seconda metà del XVIII secolo lo si chiamava Palazzo Patriarcale; poi il patriarcato è stato soppresso e il patriarca è divenuto, più modestamente, arcivescovo di Udine, ma senza più le parrocchie della diocesi di Gorizia, passate sotto la giurisdizione asburgica e, perciò, sotto un altro arcivescovo, creato ad hoc per motivi politici. Questo edificio, che — nel suo aspetto attuale – riflette i criteri di funzionalità e geometrica precisione che dominavano l’architettura nell’età del razionalismo, è una tappa irrinunciabile per il viaggiatore che vuol conoscere Udine; è uno scrigno di pietre preziose di cui, all’esterno, si stenterebbe a credere l’incredibile ricchezza, perché la facciata, per quanto imponente, non possiede una particolare leggiadria e nulla lascerebbe immaginare quali meraviglie di gusto e di raffinata eleganza riservino le sale di rappresentanza, lo scalone e il meraviglioso soffitto affrescato da un grande artista. Come scrive Loredana Schembri (sul sito http://www.amicidellacultura.it/):
La costruzione dell’edificio iniziata alla fine del XV secolo, si concluse solo nel XVIII secolo con i significativi ampliamenti voluti da Dionisio Dolfin e attuati dall’architetto Domenico Rossi. L’interno del palazzo è uno stupefacente tributo alla grazia del colore e alla sapienza scenografica di Giambattista Tiepolo: dall’ampio scalone d’onore con l’affresco raffigurante "La caduta degli angeli ribelli " si passa al "Giudizio di Re Salomone" nella sala rossa, fino ad arrivare alla Galleria degli ospiti, dove si rivivono i momenti più significativi della vita artistica del pittore veneziano nell’apoteosi degli affreschi del "Sacrificio di Isacco", di "Abramo e gli angeli" e di "Rachele che nasconde gli idoli", dove al centro del capolavoro sorprende lo stesso autoritratto del Tiepolo…
Non fu la fine del potere temporale, avvenuta nel 1420 in seguito all’occupazione veneziana, ma il disastroso terremoto del 1511, che costrinse i patriarchi di Aquileia, ormai da oltre due secoli residenti stabilmente a Udine, a lasciare il Castello per stabilire la loro dimora in città, e farsi costruire un palazzo degno della loro fama. I lavori procedettero per un paio di secoli, tra in gradimenti e abbellimenti, finché, nel 1708, l’architetto Domenico Rossi, chiamato dal patriarca Dionisio Delfino, costruì l’ala con la grandiosa biblioteca, ricca di 11.000 volumi, fra cui oltre 500 manoscritti; innalzò il corpo centrale, costruì il portale con le semicolonne e il timpano spezzato, terminò l’ala settentrionale e finalmente, si era ormai nel 1725, costruì il grandioso scalone d’onore, che tanto stupore e ammirazione suscita in chi vi accede per la prima volta, e spinge lo sguardo verso la volta, dove capeggia l’affresco di Giovanbattista Tiepolo La caduta degli angeli ribelli, del 1726, dal forte effetto d’illusionismo prospettico. I maggiori tesori artisti si trovano al secondo piani, il piano nobile, come allora si diceva: un succedersi di sale dalle tappezzerie diversamente colorate, la sala azzurra, la sala gialla, la sala rossa, e ancora la sala del trono, la biblioteca patriarcale e la fastosa galleria degli ospiti (nella quale spicca il celeberrimo affresco del Tiepolo Rachele nasconde gli idoli, del 1718). In questi locali l’attrazione principale è offerta dai bellissimi dipinti del Tiepolo, supremamente ariosi, nei quali il colore è il vero protagonista, tanto che la materia pare sciogliersi e risolversi in un gioco di vapori, di seriche pieghe, di effetti architettonici che quasi smaterializzano gli oggetti e li trasfigurano nella pura luce. Nella sala del trono vi è anche una galleria con i ritratti di ben 117 personaggi, dai primi patriarchi medioevali fino agli ultimi arcivescovi udinesi (nel 1571, per effetto di un accordo fra la Repubblica di Venezia e l’imperatore d’Austria, il patriarcato venne soppresso e al suo posto vennero costituiti i due arcivescovadi di Udine Gorizia, veneziano il primo, austriaco il secondo). Oggi il Palazzo è anche sede del Museo Diocesano di Arte Sacra, fondato nel 1963 dall’arcivescovo Giuseppe Zaffonato ma, di fatto, paralizzati dal terremoto del 1976 e dai suoi effetti, tanto che la sua apertura al pubblico ha avuto luogo solo nel 1995.
Sempre al piano nobile c’è anche la cappella provata, cioè la cappella palatina degli arcivescovi. Questi potevano valersi della adiacente, bella chiesa di Sant’Antonio Abate (che risale al 1300, anche se la struttura odierna, barocca, è del 1733); ma si tratta pur sempre di un edificio esterno, mentre tutti o quasi tutti i palazzi nobiliari udinesi avevano la loro chiesa o cappella privata; e come poteva mancare nel palazzo dell’arcivescovo? Dunque, nel lontano 1593 l’arcivescovo Francesco Barbaro fece realizzare la cappella; però il suo aspetto attuale risale al 1710, sempre per iniziativa del Dolfin, o Delfino, il quale, come si è visto, è colui che ha dato all’intero palazzo il suo aspetto definitivo. Fu lui a commissionare la costruzione dell’altare in stucco, opera di Abbondio Stazio, e un grande dipinto di Nicolò Bambini suo soffitto, raffigurante l’Assunzione della Vergine Maria con i Santi Ermacora e Fortunato, patroni di Udine, del 1718. La pala dell’altare è di Jacopo Negretti, conosciuto come Jacopo Palma il Giovane, e raffigura La Vergine Maria con Gesù Bambino del 1593 (mentre altri la datano all’ultimo anno di vita dell’artista, il 1628). Da notare che nella parrocchiale di Tricesimo, dedicata a Santa Maria, esiste un’altra pala di Jacopo Palma il Giovane che raffigura un soggetto abbastanza simile, la Presentazione di Gesù al Tempio da parte della Vergine Maria, che, restaurata nel dicembre del 2013, è stata presentata al pubblico proprio nella cappella palatina del Palazzo patriarcale udinese. Inoltre, al Tiepolo sono attribuiti i due tondi dipinti sopra le porte d’ingresso del locale, ai lati dell’altare: San Carlo Borromeo e Sant’Antonio da Padova, realizzati fra il 1730 e il 1733. Anche se la cappella era destinata alle funzioni solenni, bisogna dire che, in confronto alla magnificenza degli altri locali, nel complesso essa è memo ricca di opere di pregio e assai meno sfarzosa delle sale colorate o della galleria; ma, senza dubbio, ciò è dovuto, almeno in parte, ad una scelta precisa, trattandosi di un ambiente sacro, mentre quelli sono saloni profani.
Per noi, che abbiamo visitato l’interno del Palazzo solo moti anni dopo, esso resta legato al ricordo della solenne processione del Corpus Domini, che partiva da qui, nella città già investita dai primi calori dell’estate, e, attraversata la piazza fino alla Porta San Bartolomeo, percorreva via Manin, per poi snodarsi lentamente, fra due ali di folla compunta, sino alla cattedrale, dove entrava fra canti liturgici di una struggente bellezza, per salire fin o al presbiterio, ai piedi delle due bellissime sculture del Torretti con la Vergine Annunziata e l’Arcangelo Gabriele, che sembra dirle: Ave, o piena di grazia, il Signore è con te. Un altro ricordo, decisamente più profano, legato ai Giardini Ricasoli, il luogo dei giochi della nostra infanzia, che ha un ingresso rivolto appunto verso Piazza Patriarcato e che guarda proprio la facciata del palazzo Arcivescovile (gli altri due ingressi sono rispettivamente sul lato di Via Lovaria, quello principale, e sull’ultimo tratto di via della Prefettura, verso via Piave). Sotto i giardini e proprio davanti al Palazzo dei Patriarchi, e all’adiacente Palazzo Antonini-Belgrado (che era sede della provincia di Udine), scorre la roggia di Palma, che riappare dopo aver costeggiato il lato Est della Piazza 1° Maggio, indi via Verdi, accanto al Palazzo Ottelio (sede dell’Istituto Musicale Tomadini) e infine il tratto della piazza Patriarcato che va da Porta Manin al Palazzo della Procura, sull’angolo di via Lovaria. Le bellissime aiuole coltivate su entrambe le rive della roggia, gli alberi d’alto fusto, i fiori variopinti, le acque verdi e tranquille in cui si riflettono i palazzi del Sei e Settecento, tutto l’insieme è talmente scenografico, talmente grazioso, che, per un bambino di città, che viene a trascorrervi le ore spensierate delle vacanze estive, rappresenta poco meno che l’anticamera del paradiso. Il giardino, che al centro ha una fontana di discrete dimensioni e culmina in una collinetta, su cui torreggia la statua equestre di Vittorio Emanuele II, che un tempo era sullo spiazzo sopraelevato di Piazza Contarena, rappresenta la più grande area verde del centro storico: copre una superficie di circa 9.000 metri quadrati e fino al 1810 era adibito ad orto e apparteneva al convento dei Filippini, situato fra via della Prefettura e via Marinelli, e che venne soppresso dalle leggi napoleoniche; poi venne acquisito al demanio e nel 1866 fu aperto come giardino pubblico e dedicato a Bettino Ricasoli, detto il Barone di ferro, che era stato il secondo presidente del Consiglio italiano, dopo Cavour.
Non è senza emozione che il visitatore dei nostri giorni entra nel palazzo arcivescovile di Udine e si aggira fra marmi e saloni, sale l’imponente scalone, ammira la grandiosità degli affreschi, e sosta pensoso di fronte ai ritratti dei patriarchi. Il glorioso patriarcato di Aquileia ebbe vita lunghissima, qualcosa come 1500 anni, e terminò il 6 luglio del 1751, quando il papa Benedetto XIV promulgò la bolla Iniuncta nobis. Esso aveva perduto il potere temporale già da oltre tre secoli, nel 1420; perciò si può considerare come un laboratorio in cui si svolsero, su scala minore e in anticipo di moltissimo tempo, i processi che, sul piano più ampio della cristianità, avrebbero portato alla fine del potere temporale dei papi, nel 1870, e al prepotere dello Stato nella vita interna della Chiesa. Il Friuli ha vissuto queste esperienze prima del resto dell’Italia e dell’Europa e non c’è da stupirsi se la Chiesa friulana ha sviluppato dei peculiari caratteri sociali e, in certa misura, autonomistici, nel solco di una tradizione millenaria che faceva di Aquileia una realtà religiosa a cavallo delle Alpi, e che coinvolgeva popoli diversi nel punto di congiunzione delle tre grandi famiglie linguistiche e culturali d’Europa, la neolatina, la germanica e la slava (per i pignoli, il punto preciso d’intersezione è il paesino di Laglesie San Leopoldo, frazione di Pontebba, ove le tre lingue s’incontrano). E non si scordi il particolare non secondario che questa terra è stata investita in pieno, con particolare violenza, da entrambi i conflitti mondiali; il secondo, con tutto lo strascico di odio che è proprio di una guerra civile (il processo ha dimostrato che l’ordine della strage di Porzus venne dato dal PCI di Udine). D’altra parte, qui sono arrivate in ritardo sia l’industrializzazione, sia la modernizzazione; qui la società contadina è sopravvissuta qualche anno in più rispetto al resto dell’Italia Settentrionale, e anche la secolarizzazione è stata ritardata, salvo poi abbattersi con forza nel giro di pochi anni e mutare completamente il quadro di riferimento, svuotando da un giorno all’altro i seminari e spingendo una parte del clero a iniziative precipitose e discutibili, nella frenesia di non far perdere alla Chiesa gli ultimi agganci con la società civile.
Tutti questi pensieri ci vengono in mente visitando questo antico e prestigioso palazzo, dove un tempo i patriarchi erano anche signori temporali di un vasto territorio (lo Stato più grande dell’Italia Settentrionale duecentesca) e da dove per secoli è stata diretta la vita spirituale di una popolazione sana e laboriosa, ma povera, arretrata, colpita da terremoti e inondazioni, straziata da guerre e carestie, lambita da minacce esterne che, altrove, giungevano solo come racconti di seconda o terza mano: quella turca, per esempio, che fra i primi del 1400 e i primi del 1500 si concretizzò in una decina di successive scorrerie, alcune delle quali si svolsero fino alle porte della stessa Udine, e che trascinarono in schiavitù centinaia di giovani uomini e donne. E fu un umile frate cappuccino friulano, Marco d’Aviano, che viaggiò per le città e le capitali d’Europa e riuscì a sopire rivalità e a sedare rancori, facendo coalizzare il piccolo ma combattivo esercito che inflisse agli ottomani la sconfitta decisa, sotto le mura di Vienna, del settembre del 1683. Chissà cosa penserebbero i patriarchi del passato, o Marco d’Aviano, o i santi sociali e i benefattori di matrice religiosa come Elena Valentinis, Giovanni Micesio, Luigi Scrosoppi, Jacopo Tomadini, Filippo Renati (questi addirittura un convertito dal giudaismo); o l’arcivescovo Anastasio Rossi, che fuggì dalla città dopo Caporetto, o il suo successore Giuseppe Nogara, che vide gli orrori della Seconda guerra mondiale; chissà cosa direbbero della svolta che una mano invisibile ha impresso alla Chiesa cattolica negli ultimi decenni, e che da qualche anno ha gettato la maschera, mostrando apertamente il suo volto eretico e apostatico. Mentre si ringrazia Dio per il "dono" del luteranesimo, mentre si aprono le chiese agli islamici e si proclama che gli ebrei sono già nell’alleanza di Dio e perciò nella salvezza; mentre le chiese si svuotano, i seminari vengono chiusi, la morale cattolica è del tutto abbandonata, e proprio Udine è stata al centro di una dolorosissima vicenda di eutanasia, quella di Eluana Englaro, nel silenzio o, peggio, con la malcelata approvazione di una parte del clero friulano e udinese; mentre, infine, la stampa teoricamente cattolica si è trasformata in amplificatore delle tesi eretiche di Rahner, e della conclamata apostasia di Enzo Bianchi, ci domandiamo che penserebbero e cosa direbbero, oggi, quelle grandi figure che hanno tenuto alto l’ideale cristiano nelle tumultuose vicende della storia. Ma è una domanda retorica, naturalmente; perché quel che direbbero lo sappiamo benissimo. Altro che eutanasia, aborto e matrimoni omosessuali, altro che islamizzazione mascherata da accoglienza: direbbero solo, con S. Pio X, ora e sempre, instaurare omnia in Christo.