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L’eresia modernista nasce dall’ipertrofia dell’io

Da dove nasce l’eresia modernista? Dove con l’espressione "modernismo" intendiamo non solo il modernismo degli ultimi anni del 1800 e del principio del 1900, quello condannata formalmente da san Pio X, ma anche quello che, seppure non adottando tale nome, si è fatto strada sotterraneamente fino alla seconda metà del ‘900 ed è esploso con il Concilio Vaticano II, impadronendosi dei vertici della Chiesa e "occupando" gran parte delle cattedre teologiche, cioè gran parte del pensiero filosofico e teologico cattolico degli ultimi decenni. La risposta alla domanda è sempre la stessa che si può fare per ogni altro peccato, dato che l’eresia è la conseguenza di un peccato ben preciso, la superbia; ed è questa: nasce dall’ipertrofia dell’io. Ciò che hanno in comune i modernisti vecchi e nuovi; ciò che hanno in comune Ernesto Buonaiuti ed Enzo Bianchi, per esempio, è la pretesa di ricondurre la religione a un fatto umano, a un "bisogno dell’uomo!", a qualcosa che inizia e si conclude dentro di noi, nella più radicale immanenza, cioè senza la dimensione trascendente di Dio creatore, ordinatore e salvatore; di Dio che sta al di sopra dell’uomo e che pure si fa piccolo, si fa debole, si fa uomo, e soffre e muore per amor nostro, e risorge per riscattare le nostre colpe e per riaprici la via del Cielo. I modernisti, vecchi e nuovi, hanno in comune, tutti, l’idea che fede è un’esperienza interiore, e che si manifesta nel desiderio dell’uomo di trovare Dio: ma è un Dio che l’uomo stesso si fabbrica, se lo forgia a sua immagine, capovolgendo le parole della Bibbia, secondo la quale è Dio che ha fatto l’uomo a Sua immagine, e non viceversa. Inoltre, è tipico il fatto che i modernisti arrivano a questo estremo soggettivismo, a questo relativismo e a questo sentimentalismo partendo da un approccio razionalistico alle Scritture: indossano i panni del biblista erudito e intransigente, del filologo inflessibile, ma dotato di una mentalità storicista, per cui si accosta alla parola di Dio senza un briciolo di umiltà, convinto di avere, lui solo, la chiave per bene interpretarla, per restituirla al suo vero significato, quello originario. Questa pretesa di tornare alle "origini" è tipica di tutti i modernisti, antichi e recenti: è quasi un mantra, un ritornello che non si stancano mai di ripetere: noi vogliamo tornare al Vangelo, al vero Vangelo; vogliamo ripristinare la vera Tradizione, non abolire la tradizione; insomma sono molto furbi, perché, in base al loro approccio storicista, in effetti non potremo mai sapere quale fosse il "vero" Vangelo. Come dice, assai acutamente, il generale dei gesuiti, Sosa Abascal, al tempo di Gesù non esistevano registratori e quindi nessuno ne ha mai catturato la viva voce; di conseguenza, non siamo affatto certi di sapere quel che disse realmente, e neppure quel che fece. Una volta aperte le porte allo storicismo, non ci sono più limiti alle degenerazioni dottrinali e all’arbitrio teologico: ciascuno può dire quel che vuole. Sosa Abasca, per esempio, quando asseriva quel geniale enunciato, era in aperta polemica con il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale Müller, riguardo alla indissolubilità del matrimonio: Müller l’affermava, citando le parole di Gesù Cristo, l’uomo non separi ciò che Dio ha unito, ma lui la metteva in dubbio, sostenendo, appunto, che nessuno ha mai registrato la sua voce, e inoltre che Gesù, allora come in ogni altro caso di cui siamo a conoscenza, non parlava in astratto e in generale, bensì in un contesto preciso, ad un pubblico preciso. Storicismo esasperato, appunto: al posto della Verità eterna, una serie di affermazioni relative, di verità parziali, sempre modificabili, perché la società cambia, e dunque bisogna tener conto di tali mutamenti.

Come si vede, in fondo lo storicismo ha ben poco di originale e ben poco di profondo. Tutto sommato, esso esprime un approccio teologico per menti limitate, superficiali, che non hanno alcuna idea dello spessore filosofico della Verità; è una dottrina che emerge nei tempi di trasformazione e di passaggio, nei tempi di cambiamento, quando la gente ha smania di novità e chi segue la tradizione teme di restare indietro, di perdere l’autobus del progresso, insomma di essere condannato a restar fermo per chissà quanti giri, e, forse, per esser rottamato, per vedersi gettato nel cestino della carta straccia, prospettiva che spaventa, appunto, le anime deboli, le personalità mediocri. Chi è forte della verità, non teme l’incomprensione dei contemporanei, perché sa che l’opinione dei contemporanei è passeggera, mentre la Verità rimane. Certo, ci vuole un po’ di saldezza interiore, un minimo di coraggio: a nessuno piace restare indietro e far la figura del retrogrado, dell’ottuso, specialmente se sa che le cose non sono come appaiono, e sa che la verità non è in tasca ai progressisti soltanto perché gridano più forte e hanno dalla loro tutti i mezzi dnforamzione, ma se ne resta tranquillo e saldo sulle posizioni di sempre, perché la Verità non invecchia, non si turba, non si confonde, non arrossisce, non ha bisogno di restauri, né di revisioni e aggiornamenti, e soprattutto non ha alcun bisogno di giustificarsi.

Uno storico ecclesiastico oggi alquanto dimenticato, che è stato anche un illustre pastore d’anime, l’arcivescovo di Sassari monsignor Agostino Saba, nato nel 1888 e ordinato sacerdote nel 1914, venuto a mancare nel 1962, scriveva, nella sua monumentale Storia della Chiesa, composta, insieme alla Storia dei Papi, nel quinquennio 1938-1943 (Torino, U.T.E.T., vol. IV, pp. 357-358):

La condanna di Pio X fu la prima esposizione sintetica di questa dottrina, perché tentò l’inquadramento in formule teologiche e in un unico logico schema delle teorie sparse e ispirate da indirizzi diversi, non sempre così precise e chiare nei singoli lavori dei modernisti. Perciò i colpito potevano trovar pretesti di negare all’enciclica quella autorità dottrinale, che va ricercata invece nella precisione teologica dell’insieme, e non ostante la condanna papale continuarono ad affermare il loro atteggiamento religioso, come quello di "cristiani e di cattolici, viventi in armonia con lo spirito del loro tempo" ("Programma dei modernisti").

In realtà le intenzioni di mirare a nuove conquiste nel campo culturale e sociale venivano guastate dal voler conciliare il cattolicesimo con le correnti filosofiche e storiche che ne minacciavano l’intima natura. Purtroppo la cultura "moderna" alla quale attingevano molti modernisti era quella, già esaminata, del secolo XIX, che in filosofia negava di potersi conoscere un reale fuori dell’uomo e del pensiero, opponendosi ad ogni metafisica e alle stesse basi della fede religiosa, e parlava poi di una scienza storica, "agnostica nei suoi presupposti e totalitaria nel suo campo d’applicazione, che si accorge alla ricerca senza sapere ‘a priori’ quali siano per esserne i risultati". "La critica storica indipendente, figlia legittima così del soggettivismo filosofico come del positivismo, applicando alla storia delle religioni in genere e alla storia del cristianesimo in particolare gli stessi metodi d’indagine applicati alla storia profana ha distrutto il concetto di una "storia sacra", ha considerato documenti quali il Vecchio e il Nuovo Testamento, che il fedele ritiene ispirati, come qualsiasi altro documento letterario, ne ha negato il carattere soprannaturale, ne ha messo in discussione e spesso negato il valore storico; ha contestato l’attendibilità storica dei fatti (come la fondazione della Chiesa da parte di Cristo, la risurrezione di Cristo, ecc.) cardinali per la fede del cristiano, rigettando il concetto cattolico secondo il quale la rivelazione si è conclusa con l’epoca degli Apostoli, ha considerato la storia stessa dei dogmi non già come l’enucleazione progressiva di una soprannaturale verità in germe contenuta tutta nei documenti della Rivelazione, ma come la risultante di tutta una serie di fattori umani, estranei al contenuto iniziale del messaggio cristiano. Lo stesso cristianesimo, abbassato dal metodo storico-comparativo al livello di qualsiasi altra manifestazione religiosa dell’umanità, si è veduto contestare ogni titolo privilegiato" (M. Niccoli, "Modernismo", articolo in "Enciclopedia Italiana, "XXIII, Roma, 1934).

Anche le dottrine sociali minacciavano di considerare sempre meno i rapporti degli uomini in quanto credenti in una stessa fede, per dar maggior rilievo ad altri rapporto nazionali politici ed economici. I modernisti davanti a questa nuova critica storica, filosofica, sociale, anziché ripudiare nettamente tutto il patrimonio religioso cattolico e cristiano (come gli idealisti italiani), preferirono costituirsi patroni di una "nuova apologetica", cercando valori più alti in difesa del cristianesimo contro la moderna critica demolitrice, per mantenergli il suo posto d’onore in mezzo agli uomini. Ma questo intento potò a conclusioni ereticali, contro le quali la Chiesa dovette reagire, per differenziare nella crisi oscura delle coscienze i veri dai falsi valori religiosi.

Insomma: se il modernismo, sul piano strettamente filosofico e teologico, è ben poca cosa, e infatti non ha prodotto alcun pensatore degno di questo nome, da Tyrrell e Loisy a Karl Rahner e Hans Küng, fino agli attuali Enzo Bianchi, i quali peraltro non meritano neppure l’appellativo di teologi, e non solo per la pochezza del loro pensiero, ma soprattutto perché non accettano le basti fondamentali della teologia cristiana, la trascendenza di Dio e la finitezza dell’uomo, il modernismo come espressione di un nuovo indirizzo, sia culturale che pratico è, invece, estremamente significativo dal punto di vista antropologico. Il modernismo è il rifiuto di qualsiasi elemento "religioso" che non provenga dall’interno dell’io; in questo senso, esso è semplicemente il prolungamento e l’estensione alla religione cattolica della tendenza più caratteristica della civiltà moderna, cui la Chiesa aveva tenuto testa per cinque o sei secoli, riaffermando la propria visione del reale e la propria tavola dei valori morali. L’uomo moderno non accetta che vi sia qualcosa o qualcuno al di fuori o al di sopra di lui che gli dica quel che deve fare, e meno ancora quel che deve pensare; vuol essere norma a se stesso, e a tale scopo si ingegna di formulare sempre nuovi diritti della persona. Solo che della persona ha una visione distorta, completamente differente da quella cristiana: perché mentre il personalismo cristiano ha pur sempre il suo centro in Dio, così come era nell’umanesimo cristiano, nelle forme più coerenti (e intransigenti) della cultura moderna il personalismo dei diritti corrisponde ad un naturalismo assoluto: i diritti sono quelli che vengono dai bisogni, e ogni bisogno scaturisce da un istinto. Dunque, gli istinti sono buoni e occorre soddisfarli; reprimere gli istinti genera la nevrosi, e una persona nevrotica è anche una persona infelice e non realizzata. "Realizzarsi" è la parola d’ordine: e si realizza chi afferma i suoi bisogni, slegati dai doveri e dai bisogni, o dai diritti, altrui: i bisogni del singolo vengono assolutizzati e il nomos deve adeguarsi ed inchinarsi davanti ad essi. La società, le leggi, lo Stato, servono a questo: ad assicurare al singolo la realizzazione dei suoi diritti, cioè dei suoi bisogni, cioè dei suoi istinti. È l’esito logico e naturale del liberalismo; e qui si vede come sia incoerente la posizione di quei cattolici che vogliono anche essere liberali, perché il liberalismo è incompatibile col cristianesimo, così come lo è, in generale, tutto ciò che di caratteristico vi è nella civiltà moderna. La civiltà moderna nasce come una rivolta contro il passato, cioè contro la Tradizione, cioè contro Dio: essa prende di mira i tre pilastri tradizionali, Dio, la patria e la famiglia, e al loro posto proclama l’assolutezza dei diritti personali, i cosiddetto diritti civili. Il diritto di morire volontariamente, per il malato terminale, o il diritto della madre di abortire, nel caso di una gravidanza indesiderata, stanno sullo stesso piano del diritto di sposarsi fra persone dello stesso sesso, o del diritto degli individui di cambiare sesso, se così desiderano. Non c’è istinto che non nasca da un bisogno, e i bisogni non vanno repressi, vanno soddisfatti; e la società serve a questo: a garantire la soddisfazione dei bisogni. Ecco allora l’aborto a spese della sanità pubblica, ed ecco il cambiamento di sesso a spese della sanità pubblica. Tutta la società deve riconoscere che questi sono dei diritti fondamentali, perché nascono da bisogni naturali. E poco importa se, in natura, l’inversione sessuale è l’eccezione che conferma la regola, e se essa è, alla lettera, una contro-natura perché, se divenisse la regola, danneggerebbe in modo irreparabile la propagazione delle specie. Qui i modernisti, che sono in tutto e per tutto dei naturalisti, si accorgono che la natura, dopotutto, ha i suoi limiti, i suoi "difetti"; e, lamentando che l’ano non sia abbastanza morbido per essere penetrato dal pene, ricorrono a svariati stratagemmi per rendere la cosa un po’ più facile e meno dolorosa; e soprattutto, accorgendosi che dall’ano non nascono bambini, si fanno propagandisti e sostenitori delle più svariate pratiche di inseminazione artificiale, oppure, per tagliare la testa al toro, della pratica dell’utero in affitto, dimenticandosi, in questo caso (specie se progressisti, come sono solitamente), che una simile pratica equivale a una forma di moderno sfruttamento, quale mai si era visto o immaginato l’uguale, se non nei secoli più lontani, quando la schiavitù era una pratica diffusa e sistematica. Conclusione: il modernismo nasce da una ipertrofia dell’ego. È l’io che diventa un valore assoluto e non sa più dire "tu", meno ancora porsi in adorazione davanti al Tu divino; che è divenuto incapace di timor di Dio, e vuol costruire in nome del naturalismo una contro-natura assoluta; perciò è una contraddizione in termini. E come potrà dare una risposta ai veri bisogni dell’uomo: non cambiare sesso, ma trovare, in Dio, se stesso?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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