
Omaggio alle chiese natie: la cappella Della Porta
17 Novembre 2018
L’eresia modernista nasce dall’ipertrofia dell’io
19 Novembre 2018Poiché la narrazione politicamente corretta del Risorgimento è dettata da motivazioni ideologiche che poco hanno a che vedere con la verità storica, la stragrande maggioranza del pubblico italiano ignora quale fosse il vero stato della questione nei decenni che hanno preparato, accompagnato e seguito la nascita del Regno d’Italia. La cosa strana è che lo ignorano anche molti Friulani, cioè i membri di un piccolo popolo che non ne ebbe particolari vantaggi e non vide realizzate antiche aspirazioni quando, nel 1866, venne annesso, insieme agli abitanti del Veneto, alla nuova patria italiana. Le antiche aspirazioni erano eventualmente legate al glorioso ricordo del Patriarcato di Aquileia e non alla Repubblica di Venezia, che venne a Udine da conquistatrice nel 1420 e che considerò sempre il Friuli come una provincia sostanzialmente estranea, da occupare per ragioni strategiche, ma di cui, per il resto, ai dominatori veneziani importava assai poco. I friulani, semmai, avevano parecchie ragioni per sentirsi più legati all’Austria che all’Italia, o, per dir meglio, più agli Asburgo che ai Savoia. I patriarchi dei primi due secoli erano tutti tedeschi e tutti considerarono il loro Stato come la naturale via di transito degli imperatori verso l’Italia:per questo esso era stato creato, nel 1077, da Enrico IV, era questa la sua ragione di esistere. Nove secoli dopo, è per questo che i Tedeschi, il 10 settembre 1943, crearono la Zona d’Operazioni de Litorale Adriatico (Adriatisches Künstenland), praticamente annesso al Terzo Reich, sotto il controllo di un Gauleiter austriaco, Friedrich Rainer. I legami fra l’Austria e il Friuli, in realtà, non si erano mai interrotti del tutto. La nobiltà friulana, quasi tutta d’origine longobarda o comunque germanica, era sempre stata più legata agli Asburgo che a Venezia, tanto è vero che il suo partito, quello degli Strumieri (contrapposto ai popolani Zamberlani), tentò fino all’ultimo, e anche dopo l’annessione alla Serenissima, di sottrarsi alla dominazione veneziana. Molti friulani avevano lavorato in Austria e in Germania come emigranti stagionali, specie nelle segherie, fino ai primi anni del Novecento. E a Udine era nato un tipico esponente del ceto militare asburgico, il generale Viktor Dankl von Krasnik, nel 1854, che diverrà un elemento di spicco nella Prima guerra mondiale, e che fece i suoi studi giovanili fra Gorizia e Trieste, città allora austriache. E che dire degli esponenti del clero? Il vescovo di Vicenza nel 1832, Giovanni Giuseppe Cappellari, carnico di Rigolato, fu nominato per volontà dell’imperatore austriaco, che lo confermò anche dopo le insurrezioni del 1848, nonostante la sua richiesta di dimissioni. Era stato un leale suddito austriaco e aveva accolto con soddisfazione il concordato con la Chiesa, ad essa molto favorevole, nel 1851: come biasimarlo se, pur cercando di difendere i suoi preti e i suoi insegnanti che avevano parteggiato per la causa italiana, rimase sostanzialmente favorevole all’Austria? Ricordiamo che, fin verso la metà dell’800, il principio dinastico, in Europa, valeva tanto quanto quello nazionale, anzi aveva secoli di traduzione alle spalle, mentre il secondo era una recente novità nel panorama delle dottrine politiche. Oppure cosa dire del vescovo di Concordia, Francesco Isola, di Montenars, il quale rimase nella sua diocesi durante l’occupazione austriaca del 1917-18 e che, a guerra finita, fu malmenato dalle avanzanti truppe italiane, sottoposto a processo per tradimento (poi amnistiato) e infine costretto a ritirarsi dall’incarico, nel 1920? Il parroco don Giuseppe Lozer di Torre di Pordenone, la cui memoria è oggi tanto cara ai cattolici progressisti per le sue istanze moderniste, nel 1915 scriveva al console tedesco a Venezia che l’entrata in guerra dell’Italia era i frutto di una manovra della massoneria. Era alto tradimento, questo? A ciascuno il suo giudizio. Ma è giusto che venga ristabilita un po’ di verità storica su tutti questi fatti, affinché si sappia, almeno oggi, come stavano realmente le cose durante il periodo del Risorgimento e come andarono anche durante le due guerre mondiali (cfr. i nostri precedenti lavori: Nostalgia della vecchia Austria: Viktor Dankl von Krasnik, il generale che non amava Hitler; e Il dramma religioso, politico e umano di Francesco Isola, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 28/11/17 e l’11/12/17).
Alcuni intellettuali autonomisti friulani, come Riedo Puppo, hanno sostenuto che il Friuli, culturalmente e spiritualmente, è più vicino all’Austria che all’Italia (pur avendo recisamente negato che i friulani si possano considerare un’appendice dell’Austria); tesi che può sembrare estrema agli altri italiani, e che senza dubbio suona tale anche a molti friulani, ma che non è fatto così strampalata come tanti si immaginano (cfr. il nostro vecchio articolo: Che cos’è la patria per uno scrittore friulano contemporaneo: Riedo Puppo (1920-2002) pubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 15/10/2017). D’altra parte, quanti sanno che l’Italia, sia nel 1866, sia, soprattutto, nel 1915, si pose nei confronti dei friulani (una parte dei quali erano rimasti sotto l’Austria: Tarvisio, Gorizia, Cormons, Aquileia, Grado, Monfalcone) come a dei veri e propri nemici? Quanti sanno che la prima cosa che fece il Regno d’Italia, insediatosi a Udine nel 1866, fu sopprimere ordini religiosi e chiudere le chiese, a decine, sulla scia di quanto aveva fatto Napoleone nel 1810, e in radicale antitesi alla politica asburgica verso la Chiesa cattolica, che era stata di appoggio e di restaurazione? E quanti sanno che, nell’aprile e maggio del 1915, le autorità italiane arrestarono decine di persone, allontanarono e posero al confino molti preti, fucilarono il segretario comunale di Villesse, presso Romans, Giulio Portelli, insieme ad altri cittadini, accusandoli di tradimento a favore dell’Austria, mentre erano perfettamente innocenti? Quanti sanno, infine, che, nel 1918, i deputati friulani al Reichstag, come quelli trentini, del resto, avrebbero preferito, come minimo, un referendum circa l’unione all’Italia e non la pura e semplice annessione? O che ancora oggi, specie nel Friuli orientale, è rimasto vivo e grato il ricordo della vecchia Austria, e che in provincia di Gorizia si celebra ogni anno la Feste dei popoli d’Europa, partendo, nel 1975, dal genetliaco di Francesco Giuseppe, festa che attira migliaia di persone? Evidentemente, l’Austria non ha lasciato un cattivo ricordo presso questo piccolo popolo, fiero e laborioso, abituato da sempre a giudicare le cose in base ai fatti più che le parole.
Un interessante quesito storico è se l’Impero asburgico, riformato per tempo, non solo nel senso del federalismo nazionale, ma anche nel senso dello svecchiamento diplomatico e militare, avrebbe potuto sopravvivere e trasformarsi gradualmente in quella compagine multietnica di cui la Jugoslavia è stato — in piccolo – un breve ed infelice esempio, ma che in altri casi, la Svizzera, per esempio, o il Belgio, ha dato buona prova e ha retto all’usura dei secoli. Quando Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore, pose mano alle riforme in senso autonomistico, nel 1917, era decisamente troppo tardi e il suo destino era segnato: non tanto dalle reali dinamiche interne — quanti polacchi, quanti ruteni, quanti slovacchi, quanti sloveni volevano realmente l’indipendenza dei rispettivi stati nazionali?, ben pochi, crediamo — quanto per le manovre della massoneria internazionale e per il cinico gioco d’interessi della Gran Bretagna e soprattutto della Francia, cui si sarebbe sommata, nella Conferenza della pace di Versailles, la stupida e professorale arroganza del presidente americano Wilson. E quando diciamo "svecchiamento", intendiamo la capacità di superare una maniera vecchia, ottusa, ottocentesca di far politica e di porsi di fronte ai problemi politici, siano essi interni o esterni, in maniera più duttile e pragmatica. L’Austria aveva una buona amministrazione; come Stato, quindi, era efficiente; ma perché uno Stato regga le sfide dei tempi, non basta la buona amministrazione; ci vuole anche la capacità di governo, che è capacità politica, non amministrativa. Non si governa uno Stato, e tanto meno un impero, con dei burocrati, per quanto zelanti, onesti e competenti; ci vogliono dei politici. E l’Austria, nella sua ultima fase, non ne ebbe. Berchtold, il ministro degli Esteri; Francesco Ferdinando, l’erede al trono; Conrad von Hötzendorf, il potente capo di Stato Maggiore: nessuno aveva una visione politica degna di questo nome. Il solo che l’avesse, Tisza, il presidente del Consiglio magiaro, pensava alla sua Ungheria e se ne infischiava dell’impero. Questa incapacità di fare politica emerse drammaticamente nella crisi del giugno-luglio 1914. I capi militari e politici dell’Impero non seppero vedere quali conseguenze avrebbe portato la dichiarazione di guerra alla Serbia: basterebbe già questo per mostrare la loro insufficienza. Ma fecero anche di peggio: si alienarono gli alleati e si i inimicarono i neutrali, con una linea di condotta che è un misto di stupidità e arroganza. Prendiamo il modo in cui si regolò la Ballplatz nei confronti del terzo membro della Triplice, l’Italia: non le venne comunicata nemmeno una parola circa le intenzioni di Vienna nei confronti della Serbia. Non fu consultata, non fu informata, fu completamente tagliata fuori. Alla fine, a Vienna ci si aspettò che Vittorio Emanuele III portasse il suo popolo in guerra per aiutare l’Austria… a punire, e probabilmente distruggere, la Serbia. Assurdo. Tanto più che l’Italia considerava i Balcani, o una parte di essi, come sua naturale zona d’influenza; e a Vienna sapevano benissimo che un attacco alla Serbia avrebbe sollevato la questione dei "compensi" da accordare all’Italia. Già nel 1908 l’Austria aveva turbato gli equilibri internazionali, e provocato una crisi che poteva sfociare nella guerra, annettendosi unilateralmente la Bosnia-Erzegovina; e già allora il governo italiano aveva masticato amaro. Non è così che ci si tiene accanto un alleato, o, almeno, che si previene la sua tentazione di schierarsi con i propri nemici. Certo, la verità è che Austria e Italia erano state sempre solo formalmente alleate: se da parte italiana c’era il nodo sopito, ma non risolto, dell’irredentismo, da parte austriaca c’era il desiderio di rivincita contro il Regno che le aveva sottratto Milano e Venezia e che aveva distrutto il potere temporale della Chiesa: e già durante il terremoto di Messina, per esempio, Conrad aveva chiesto di attaccare alle spalle l’Italia, impegnata nelle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite; per poi rinnovare la richiesta tre anni dopo, mentre l’alleata Italia era impegnata in Libia contro i turchi. La proposta era parsa così folle allo stesso governo austriaco, che Aerenthal, esasperato, aveva chiesto e ottenuto l’allontanamento di Conrad. Questi, però, poco dopo era tornato, e sempre con le stesse idee, sia contro la l’Italia, sia contro la Serbia; mentre Aerenthal se n’era andato. In tali condizioni, pensare che l’Italia, nel luglio 1914, seguisse l’Austria e che si schierasse con lei e con la Germania, era un non senso: ma come non averlo previsto? Come aver sottovalutato la potenziale minaccia che si creava, così, inutilmente, per mera burbanza diplomatica, inimicandosi un alleato che non era mai stato troppo amico, e che ora aveva delle buone ragioni per sentirsi emarginato e offeso? Un’altra occasione sprecata si presentò tra la fine del 1914 e l’inizio del 1915, quando gli alleati tedeschi fecero pressioni per convincere Francesco Giuseppe a cedere all’Italia almeno il Trentino, onde scongiurare la sua entrata in guerra. Si trattò, ma assai malvolentieri e con pessima attitudine, e alla fine non si concluse nulla, perché il vecchio imperatore si intestardì: perché mai avrebbe dovuto rinunciare a una provincia che considerava essenziale agli equilibri interni, in quanto parte del fedelissimo Tirolo, tanto cara al cuore dei pangermanisti? Quanto a Trieste, poi, non se ne parlava nemmeno. Eppure la politica è l’arte del possibile, non la difesa a oltranza dell’impossibile. Poteva permettersi, l’Austria, dopo aver scioccamente "bruciato" l’alleanza con l’Italia nel luglio del 1914, farsela addirittura nemica, quando era già impegnata allo stremo delle forze contro la Russia e la Serbia? Evidentemente no; eppure lo fece; perché i suoi capi, sia politici che militari, di nuovo non ebbero una visione realistica delle cose. Si ricordi che l’intervento in guerra dell’Italia nel 1915 fu decisivo per le sorti della Duplice monarchia danubiana. Si tenga presente che nel 1916, dopo la sconfitta della Romania e la paralisi della Russia, l’Austria non aveva più nemici (la Serbia era stata schiacciata l’anno prima, ma sempre con l’indispensabile aiuto germanico): se non ci fosse stata l’Italia che la stringeva al collo e minacciava di soffocarla (la similitudine è di un militare tedesco che se ne intendeva, il Ludendorff), avrebbe potuto trattare una pace separata con gli Alleati, per giunta da una posizione di forza. Senza l’intervento italiano, senza la battaglia del Piave e quella di Vittorio Veneto, forse l’Austria avrebbe potuto evitare la disintegrazione: fu la sconfitta militare a precipitare la crisi dei nazionalismi e i disegni di liquidazione dei Tre Grandi, a Versailles.
Ebbene questa stupidità, questa ottusità, questa rozzezza è un elemento che ritorna, nella politica austriaca, e lo vediamo operante anche ai nostri giorni. Come diversamente interpretare le continue uscite del cancelliere Kurz, che invoca dall’Unione Europea sanzioni "esemplari" contro l’Italia, rea di aver varato una manovra economica che collide con i famosi parametri di Bruxelles, come se altri Paesi, come la Germania, non li violassero impunemente, in quel caso per eccessivo surplus della bilancia commerciale? Come nel 1914-15, questo significa andarsi a cercare inutilmente de nemici. Non è una grande idea. L’Italia, con 60 milioni di abitanti, è la terza economia dell’Unione Europea e la settima a livello mondiale; l’Austria è solo un piccolo Paese di 8 milioni di abitanti e una piccola economia, non certo autosufficiente. Ha in comune una frontiera con l’Italia di 430 km ed è suo interesse mantenere buoni rapporti con lei, anche riguardo ai migranti. A che scopo provocarla?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash