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18 Novembre 2018C’è una chiesetta, una cappella privata di un bellissimo palazzo nobiliare, nel cuore della vecchia Udine, che solo pochissimi udinesi hanno visto, perché, purtroppo, e nonostante la decorazione sia opera di un artista della statura di Giulio Quaglio, solitamente è chiusa al pubblico, e poterla vistare è ancora una faccenda abbastanza complicata. Stiamo parlando della cappella privata del Palazzo della Porta-Masieri, in via Treppo (un antico toponimo slavo, legato alla presenza di pastori slavi, poiché trop significa "branco" o "gregge": cfr. Arduino Cremonesi, Udine. Guida storico-artistica, 1978, pp, 168-169); palazzo che oggi è sede degli uffici dell’Arcidiocesi, situato al civico numero 7. Per arrivarci, venendo dalla stazione ferroviaria, o comunque dal centro, tutti prendono piazza Patriarcato ed entrano in via Treppo passando davanti alla chiesa di Sant’Antonio Abate, sulla destra, e all’edificio dell’ex Tribunale, che prima ancora fu la sede del primo seminario diocesano, sulla sinistra. Da parte nostra, vogliamo proporre al visitatore ‘avventuroso’ un itinerario alternativo e un po’ insolito, tale da soddisfare, crediamo, la curiosità degli stessi udinesi, perché siamo convinti che solo pochi lo conoscono, a parte gli studenti dell’Istituto Musicale Jacopo Tomadini, i quali, per ragioni legate alla loro passione per la musica, conoscono, ma solo in parte, l’angolo nascosto del quale ora diremo; e, a parte loro, gli ospiti del retrostante Asilo notturno.
Ci sia consentita una digressione. Abitare in una città da molti anni, esserci nati, non significa, di per sé, conoscerla. Per conoscerla veramente, bisogna amarla e bisogna essere dotati di curiosità, spirito d’osservazione e attenzione ai particolari; altrimenti, la mente vede le cose attraverso gli occhi, ma non le "registra", ed esse scivolano via, perché l’attenzione si ferma sulle cose contingenti, la spesa da fare, o si blocca sul "pilota automatico", come quando si fa sempre la stessa strada per recarsi al lavoro: e il risultato è che, pur avendo visto cento volte un certo palazzo, un certo angolo, in realtà è come se non li si conoscesse affatto, perché non li si è mai guardati con occhi realmente interessati. Per la stessa ragione, succede che si percorrano sempre le stesse vie, e pertanto che certe altre restino come fra parentesi: può capitare che per anni non le si attraversi, e perfino che qualche via fuori mano non sia mai stata vista, perché non è mai capitata l’occasione di andarci. Ciò accade soprattutto con i vicoli chiusi, con le piazzette cieche e con le strade senza negozi, senza uffici, senza nulla che giustifichi una visita, se non la pura e semplice curiosità e il piacere di conoscere sempre meglio la propria città. Va a finire che un turista bene organizzato, fornito di una buona guida e di una piantina topografica, nel giro di una mezza giornata riesce a vedere più cose d’interesse storico e artistico, di quante ne abbia mai viste un cittadino nel corso di parecchi anni. La fretta e l’abitudine, queste due grandi nemiche della curiosità, concorrono alla pigrizia e al disinteresse; ma più di tutto vi concorre la scarsa sensibilità. Per addentrarsi in un luogo insolito, e sia pure entro le mura della propria città, ci vuole un minimo spirito d’iniziativa; ci vuole un animo incline a vedere anche l’altra faccia delle cose, il loro lato nascosto; chi è abituato a bere il bicchiere di vino sempre nello stesso bar, a compare il giornale nella stessa edicola, e recarsi solo nella chiesa della sua parrocchia, non arriverà nemmeno a capire questo discorso. Il risultato è che sempre più abitiamo in luoghi che, per noi, sono solo luoghi di soggiorno occasionali, che in veri luoghi del cuore: per poter dire: la mia città, come Umberto Saba della sua Trieste, non basta il fatto di risiederci, ci vuole altro, e al limite questa è un’affermazione che suona piè coerente da parte di uno che, magari, in quella città non è più tornato da decenni, ma l’ha conservata fresca e viva nel suo cuore, che non ad uno che non l’ha mai lasciata, ma non l’ha mai saputa guardare con stupore, ammirazione, curiosità, come un marito distratto che non guarda nemmeno il vestito di sua moglie e neppure si accorge se ella ha cambiato acconciatura. Questo è male, perché significa che si allenta e rischia di spezzarsi il rapporto profondo fra noi e i luoghi in cui viviamo, il che fa noi, in pratica, degli sradicati. E adesso, torniamo al nostro itinerario.
Dunque, per recarci al Palazzo della Porta non prendiamo via Treppo, ma rechiamoci in Piazza 1° Maggio, che è, per tutti gli udinesi, semplicemente il Zardin Grant, il Giardino Grande. Più che una piazza, è una vastissima area sgombra di edifici; ha una storia antica e interessante, ancora nel 1200 era occupata da un lago, poi parzialmente prosciugato e ridotto a tre piccoli stagni, infine svuotati anche quelli. Sul lato ovest è dominata dal ripido colle del Castello; sul lato nord è chiusa da via Liruti, con alcuni bei palazzi; ma le architetture più interessanti si trovano sul lato sud e soprattutto sul lato est, fra la Madonna delle Grazie e la Casa Cappellari di Provino Valle (1923), un bell’esempio di neogotico novecentesco, straordinariamente elegante ed equilibrato, che sorge quasi di fronte all’antica Porta Manin, in origine Porta San Bartolomeo. Per chi esce da essa, e scende nella piazza passando davanti alla casa Cappellari, poi percorre il lato est e vede sfilare, in successione, la Casa ex Attimis, o Marcotti, indi, costeggiando la roggia che scorre in via Verdi (la vecchia Vie de Roe), il Palazzo Ottelio, sede del Tomadini, poi il Palazzo Generale Cantore e il Liceo Ginnasio Jacopo Stellini (del 1913, su progetto di Plinio Polverosi) che ospitò, dal 1915 al 1917, lo Stato Maggiore del generale Cadorna), è abbastanza facile rendersi conto che la piazza è formata da un vero e proprio avvallamento e intuire la sua origine lacustre. Il terreno è mosso; tutto il bordo orientale è rialzato; e il terreno, al di là del Palazzo Ottelio, dove un ponticello scavalca la roggia, è chiaramente in salita.
È da qui che inizia il nostro itinerario verso il Palazzo della Porta. Giunti davanti al Tomadini, luogo già di per sé romantico per la presenza della roggia, che corre lungo tutto il lato orientale della piazza, fino all’altezza del santuario della Madonna delle Grazie, se non si ha troppa fretta e si è dotati di un animo sensibile alla bellezza, si resta folgorati dal colpo d’occhio rappresentato da tre edifici che formano come una artistica quinta teatrale, col terreno in pendenza che improvvisamente confonde le idee e dà l’illusione, per un attimo, di trovarsi in una cittadina giusto ai piedi delle montagne, per esempio alla sommità del centro storico di Gemona, presso la chiesetta di San Rocco, oppure al principio di via Gleseute, e non qui, in una città di pianura come Udine, dove l’occhio non è abituato a salite o discese. A sinistra, al civico 28 A, si staglia la facciata meridionale del Palazzo Generale Cantore costruito nel 1928 su progetto di Pietro Zanini, sede del 12° Corpo Infrastrutture dell’Esercito, bella costruzione di pietra bianca, in stile liberty sul davanti, ma da questo lato classicheggiante, con il balcone a colonnine sovrastato da un timpano spezzato al primo piano, le ampie finestre dotate di griglie in ferro battuto, le proporzioni armoniose dell’intera facciata; a sinistra, di fronte, il cinquecentesco Palazzo Ottelio, vero scrigno di storia e arte, davvero elegante nella sua classica, lineare semplicità; al centro, sullo sfondo, la casa d’angolo al civico numero 1 di via Massimo d’Azeglio, che non sarà un edificio storico, ma che possiede la grazia e la dignità di un palazzo che si fa comunque notare, con il balcone in pietra e le colonnine, le finestre incorniciate da piccole mensole e gli scuri di legno, e soprattutto per la sua posizione pittoresca, stagliandosi alto fra due macchie di verde del giardino retrostante, e scandendo lo spazio fra due diverse prospettive: la via d’Azeglio che sale a sinistra descrivendo una curva, e uno stretto vicolo, incassato fra il lato settentrionale di palazzo Ottelio e un lungo muricciolo rustico sul lato opposto, che si addentra fra le case e i giardini da cui svettano alti alberi. È il vicolo che s’intitola appunto vicolo Porta, uno dei più nascosti e misteriosi della città vecchia, e che si rivela inaspettatamente lungo e sempre molto stretto, che lascia intuire, sul lato sinistro, una delle aree di verde privato più vaste dell’intero centro storico, che si lascia appena intravedere al di là del muretto. Finalmente si sbuca in via Treppo, fra il grande palazzo dell’ex Tribunale e l’edificio che ospitava uno dei locali più caratteristici di Udine, l’osteria-trattoria La Buona Vite, che oggi purtroppo non c’è più, impreziosito da un celebre murale di Fred Pittino, ispirato da una poesia di Pietro Zorutti, andato anch’esso perduto. Per capire cosa abbia rappresentato questo locale nella storia recente di Udine, basti dire che lo frequentavano abitualmente scrittori e giornalisti come Chino Ermacora, Mario Quargnolo e Renzo Valente, politici come l’onorevole Tessitori e artisti come Pittino, accomunati dall’amore per il Friuli e la sua gente. Il vecchio fogolâr della Buona vite era un simbolo: il simbolo dell’anima friulana, che faceva di questa osteria molto più di un luogo ove si mangiava e si beveva: era, in un certo senso, il cuore pulsante della città prima che il boom ne stravolgesse la fisionomia.
Ancora pochi metri ed ecco che siamo arrivato di fronte al Palazzo della Porta, il quale, rimesso a nuovo e dipinto di bianco negli anni ’90, si presenta molto diverso da come lo ricordavamo nella nostra infanzia, con la facciata sempre bella, ma alquanto trasandata, e una verniciatura color giallo ocra, un po’ annerita dal tempo, che dava una certa quale impressione di abbandono. Tipica la spinta verticale che viene dall’allineamento degli elementi veneziani (portone, serliana, trifora) appena frenata dallo sporgente cornicione (Maurizio Buora, Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze, Trieste, Lint, 1986, p. 198).
Il palazzo della Porta, nelle sue strutture attuali, è stato realizzato in un arco di trent’anni, fra il 1655 e il 1685; la decorazione del Quaglio è del 1692. La chiesa, una cappella privata di piccole dimensioni, non è visibile dalla via e non è segnalata all’esterno nemmeno da un piccolo campanile o da una croce; è un semplice ambiente incluso nel corpo del palazzo e bisogna chiedere di poterla visitare. Ma ne vale la pena: le pareti, il soffitto, anche la pala dell’altar maggiore, tutto è dipinto dal bravo pittore comasco (1668-1751), del quale ci siamo già occupati (cfr. il nostri articolo Ricordo di Giulio Quaglio, pittore barocco che ha lasciato tante opere a Udine e in Friuli, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 10/1017) e che ha affrescato anche la chiesa di Santa Chiara e la cappella del Monte di Pietà.
Citiamo dal sito Viaggio in Friuli Venezia Giulia (http://www.viaggioinfriuliveneziagiulia.it/), che ringraziamo vivamente per il servizio reso a tutti quelli che amano questa città e questa regione:
Indubbiamente l’aspetto artistico più rilevante del Palazzo è costituito dal ciclo di affreschi del Quaglio, che ne decorano l’interno. Fu Giuseppe della Porta che incaricò il Quaglio nel 1692 di decorare la cappella, una sala e la loggetta. Realizzati nello stesso anno di quelli del Palazzo Strassoldo, risultano tuttavia, in alcune parti, di inferiore qualità e pare di frettolosa esecuzione.
Ma ciò che più si avverte, come diversità, è la mancanza dell’apparato decorativo a stucco, sostituito da cariatidi e conchiglie in affresco. In questi affreschi, nonostante ciò, il pittore rivela comunque la sua nativa ed accesa fantasia, unita al bagaglio di cultura figurativa, di chiara matrice veneto-emiliana, che lo caratterizza. Se in tutta la decorazione vi fosse stata la stessa ispirata concentrazione delle scene maggiori l’opera avrebbe potuto essere annoverata tra i suoi capolavori.
I soggetti delle salette e del loggiato sono attinti a piene mani dal repertorio della mitologia classica ed in particolare Ovidio. Troviamo infatti: il "Banchetto di Licaono, Latona e i villici, trasformati in rane, Saturno ed Andromeda, figlia di Enea, Pelia ucciso dalle figlie, Acide, Galatea e Polifemo lapidatore".
Più intima e più riuscita e l’ispirazione delle pitture della Cappella. Tutti i riquadri tranne il "Battista nel deserto" narrano con tono spesso popolareggiante storie della Vergine: "Sposalizio, Annunciazione, Fuga in Egitto, Natività". Sull’altare, sempre del Quaglio, una più modesta paletta raffigurante la "Sacra Famiglia e S. Caterina", contenuta, ed è il solo caso in tutto il complesso, in una cornice di stucco.
Ci resta da dire che, volendo, da piazza 1° Maggio, dopo aver oltrepassato il Tomadini, invece che per vicolo Porta si può prendere a sinistra e seguire via d’Azeglio, poi svoltare in via Benedetto Cairoli, una strada molto appartata ed elegante, ricca di verde e fiancheggiata da alcune belle ville della fine dell’800 e dei primi del ‘900: villa Rossi, villa Zanuttini, villa Placereani-Candolini e Villa Cuoghi. Da lì si esce in via Treppo all’altezza del Collegio delle Dimesse, di fronte all’inizo di via Scrosoppi e quasi di fronte al Palazzo della Porta. Ma per quanto via Cairoli sia indubbiamente una strada signorile e interessante, ai nostri occhi la sua bellezza un po’ algida non regge il paragone col fascino segreto e quasi ritroso del vicolo Porta. È bello scoprire che la propria città ha i suoi luoghi nascosti, conosciuti da pochi; come è bello scoprire che la donna amata, quando abbassa le ciglia e rimane in silenzio, ci si rivela infinitamente più affascinante di qualunque altra…