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11 Novembre 2018Uscendo dalla porta esterna di Grazzano — porta che ormai bisogna immaginare, perché venne abbattuta nel 1882, quand’era divenuta pericolante — ci s’imbatte, nell’odierno piazzale Cella, in una deliziosa chiesetta seicentesca di forma ottagonale, preceduta da un ampio portico su sei colonne e sormontata da un piccolo campanile a vela. È la chiesetta della Pietà (da non confondere, ovviamente, con quella di Santa Maria della Pietà, che faceva parte del palazzo del Monte di Pietà, in Mercato Vecchio), cara al cuore degli udinesi e che era quasi il saluto che la città rivolgeva a quanti, sorta l’abitudine delle ferie estive negli anni ’50 del secolo scorso, all’inizio dell’estate partivano verso Lignano, imboccando il viale Duodo, che passa sotto il cavalcavia ferroviario (mentre quelli diretti a Grado prendevano il viale Palmanova, e quelli diretti in montagna, sia la Carnia che il Tarvisiano, percorrevano, naturalmente, prima il Viale Volontari della Libertà e poi viale Tricesimo). Era un edificio sacro molto amato dagli abitati del borgo Grazzano e specialmente dai devoti della Vergine Maria, ma anche oggi è amato quanto basta perché la parrocchia di San Giorgio Maggiore, con il contributo della C.E.I., nel 2014 abbia condotto dei lavori di restauro che l’hanno riportata al primitivo splendore, dopo alcuni anni di relativo abbandono. Così ripercorre le tappe della sua storia il Bollettino parrocchiale:
La devozione a Maria era stata ravvivata in Grazzano dai Carmelitani, insediatisi nel vicino monastero di S. Pietro di Tavella nel 1483 dopo una plurisecolare presenza di monache benedettine; la devozione della Madonna del Carmine provocò infatti la costituzione (15 agosto 1550) di un’apposita Confraternita della Madonna del Carmine, composta inizialmente da 66 uomini e 27 donne e destinata a durare per oltre un secolo, finché i Carmelitani non si spostarono in borgo d’Aquileia.
Uno spirito di sana e devota competizione con la Parrocchia indusse la Vicinia di borgo Grazzano a edificare fuori Porta una chiesa di sua proprietà alla B. Vergine, su delibera 8 gennaio 1659 e con i denari raccolti per autotassazione dei vicini e periodiche questue. Sul quarto di campo comprato dai signori Muzzanini i lavori si protrassero per molti anni, anche oltre il 20 febbraio 1700, giorno della visita pastorale del patriarca d’Aquileia Dionisio Delfino, quando tuttavia la chiesa "della Madonna Addolorata", detta "della Pietà", era già in piena funzione, con un cappellano eletto e stipendiato dalla Vicinia per l’assistenza religiosa degli abitanti fuori le mura e nella taviele di San Pieri, sotto la giurisdizione del parroco di S. Giorgio. Soppressa la Vicinia dai decreti napoleonici e confiscata la chiesa dal Demanio, essa fu riscattata per merito dei signori Lombardini e donata infine alla Parrocchia di Grazzano: essa continua con amore nella sua cura, a servizio del bene spirituale di molti e affezionati frequentanti la Messa domenicale, preparata e assistita con elegante solerzia dal sacrista sig. Corrado Sambucco».
E Maurizio Buora, nella sua Guida di Udine (Trieste, Edizioni Lint, 1986, p. 281):
In fondo al piazzale G. B. Cella, quasi addossata alla linea ferroviaria, si trova la chiesetta della Pietà, costruita nella seconda metà del Seicento in seguito a un voto fatto dalla collettività. L’edificio, a pianta centrale, come altre chiese venete dell’epoca, ha forma ottagonale, campaniletto a vela e portico poligonale, sostenuto da sei colonne. Esso fu danneggiato più volte in occasione di incidenti stradali (es. nel novembre 1972) e poi ricostruito. All’intermo, sull’altar maggiore copia della "Pietà" di Fra Bartoloneo; sugli altari laterali la "Morte di San Giuseppe" attribuita a Giambettino Cignaroli (già in S. Spirito e quindi nella chiesa di S. Giorgio, e "San Giovanni Bosco", di Tita Gori (inizio sec. XX).
Il culto di Maria, dunque, venne sostenuto e diffuso soprattutto dai carmelitani, i quali avevano un monastero lungo l’attuale via Lumignacco, San Pietro in Tavella, dal 1453 (e non dal 1483), là dove esisteva fin dal 1200, un convento di monache benedettine, oggi scomparso (sul luogo è stata costruita una chiesa moderna, nella seconda metà del XIX secolo). La devozione a Maria stimolò la nascita di una confraternita dedicata alla Madonna del Carmine o del Carmelo, verso la metà del 1500, tre decenni dopo che i carmelitani si spostarono, come abbiamo già visto, dentro le mura, anche per ragioni di sicurezza (nel corso del XV secolo si succedettero ben otto scorrerie turche nel Friuli, e tutte lambirono la città, saccheggiando anche i conventi e le chiese extra moenia) in un nuovo convento situato in borgo Aquileia. Il culto della Vergine fu ripreso ed emulato dalla parrocchia di San Giorgio e la decisione di costruire la chiesetta della Pietà scaturì appunto dai parrocchiani, che a Lei si rivolgevano, oltre che per essere difesi dalla spada degli infedeli, anche per tener lontani i flagelli della peste, della carestia e dei terremoti. In altre parole, per tutto il Medioevo e poi ancora per un paio di secoli, l’impulso all’edificazione di chiese, capitelli, edicole votive partiva molto spesso non dalla Chiesa, ma da laici, da confraternite, da soggetti privati, oppure da parroci che interpretavano il sentire diffuso dei loro parrocchiani e che, molto spesso, si sobbarcavano immensi sacrifici personali per incominciare e potare avanti le opere progettate. Gli abitanti fornivano in genere le maestranze sotto forma di manodopera gratuita o contribuivano con offerte, lasciti e donazioni: per cui si può dire che il culto della Madonna e dei Santi fu in larga misura un sentimento spontaneo, sentito come il tramite necessario affinché le preghiere degli uomini possano salire fino a Dio, secondo il concetto espresso da Dante nella Divina Commedia (Par., XXXIII, 13-15): Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali.
Ogni qual volta ci troviamo di fronte a una chiesa o una chiesetta dedicata alla Madonna, pertanto, dovremmo ricordare da quali immense riserve di fede essa ha avuto origine, quale enormi energie ha saputo mobilitare, quale mirabile fusione di intenti ha realizzato nella popolazione, creando fra essa dei legami immateriali, ma potentissimi, dei quali oggi, nella società moderna dominata dal consumismo, non si è conservato neppure il ricordo. In altre parole, grazie alla Chiesa la storia della nostra società si è andata configurando, nel corso dei secoli, come la storia di una serie di comunità fortemente coese, animate da una visione della vita comune, da una prospettiva esistenziale comune e dal riconoscimento di un codice di valori morali comuni, al quale tutti si sentivamo obbligati ad obbedire, anche se non tutti, ovviamente, e non sempre, erano poi capaci di rispettarlo. Si vede qui l’abissale differenza che corre fra la nostra idea di società e quella delle passate generazioni. Per noi, figli dell’illuminismo, del liberalismo e del materialismo, la sola cosa che condividiamo con i nostri simili è l’idea che esistono dei diritti civili irrinunciabili, ma continuamente in espansione, in nome dei quali noi possiamo costringere gli altri a riconoscere la sfera della nostra libertà, anche se si tratta di offendere l’altrui sensibilità con esibizioni ripugnanti e disgustose (vedi le sfilate provocatorie e dissacranti dei gay pride). Per noi, dunque, l’individuo è il centro di tutto e la società serve essenzialmente a garantire e a proteggere i diritti dell’individuo e la sua personale ricerca della "felicità", senza tenere in alcun conto le opinioni altrui, a cominciare da quella dei propri genitori (un tempo, chi si sarebbe fidanzato o sposato contro la volontà del padre e della madre?); l’individuo, però, fino a quando non viola la legge nel modo più esplicito, può regolarsi sempre e comunque secondo "coscienza", ossia ciascuno può farsi la propria norma morale e non sentirsi obbligato da una norma comune. Per gli uomini della società cristiana — che si è definitivamente dissolta solo in anni recenti: diciamo non più di mezzo secolo fa, almeno in Italia — la condivisione dei valori morali, ma anche della concezione generale della vita, fondata essenzialmente sul culto e il rispetto di Dio, della patria e della famiglia) era il cemento che teneva unito il tessuto sociale e animava gli individui, alle prese con difficoltà materiali che noi a stento possiamo anche solo immaginare, facendoli sentire meno soli, sostenendoli nelle prove e dando loro un orizzonte di speranza. Che poi quell’orizzonte fosse di ordine soprannaturale, ciò è stato denunciato dal marxismo come il grande inganno e il grande tradimento ai danni degli uomini, e dalla psicanalisi come la grande rimozione e la grande sublimazione, a causa delle quali il progresso umano verso l’emancipazione e la felicità è stato ritardato di secoli; e poiché sia il marxismo (sovente in forme spurie, come nel caso del cattolicesimo di sinistra) sia la psicanalisi sono entrati a far parte del corpus dottrinale — vorremmo dire teologico – fondamentale della modernità, ne consegue che tutto l’orientamento della vita dei nostri nonni e dei nostri avi è stato a posteriori screditato e identificato come una suprema forma di alienazione.
Ora, che tale interpretazione sia solo una fantasticheria ideologica, lo dimostra ampiamente il fatto, evidente ed innegabile, che nella civiltà moderna gli uomini non solo non hanno ricostruito un orizzonte di speranza più concreto e convincente, ma sono progressivamente scivolati nella palude della disperazione, e questo in maniera tanto più accentuata, quanto più modernizzata è la società: ormai è perfino un luogo comune, e tuttavia verissimo, che le percentuali dei suicidi e delle sindromi depressive tocca i vertici nelle società dell’Europa settentrionale, quelle che ci appaiono come le più "moderne", le più "aperte" e le più "liberate" dalle antiche pressioni, o repressioni, di origine cristiana, anche e soprattutto in ambito sessuale. Ebbene, dopo più di tre secoli di dominio sempre più incontrastato della cultura moderna, dell’economia moderna e della forme di vita sociale (o antisociale) proprie della civiltà moderna, dove sono le tanto attese e decantate magnifiche sorti e progressive? Dov’è il balzo in avanti degli uomini verso la loro piena realizzazione, una volta che essi si sono liberati dalle pastoie e dalla zavorra di superstiziose credenze soprannaturali? Chi le ha viste, o anche solo intraviste? No: è evidente che la civiltà moderna, per la sua stessa natura, per i suoi presupposti ideologici e pratici, nonché per la sua prospettiva d’insieme, non ha portato alcuna liberazione, ma, semmai, una liberazione apparente, una pseudo liberazione, parolaia e velleitaria, che consente a tutti, sì, di dire quasi qualsiasi cosa (quasi, però: provatevi a toccare certi argomenti consacrati al politically correct, e poi ne riparliamo…), mentre l’intera società, e di conseguenza tutti gli individui (perché l’individuo fuori della società è solo una stupida astrazione, degna di un cattivo filosofo come Rousseau) è più sottomessa che mai a un regime totalitario che investe ogni singolo aspetto dell’esistenza, dalla finanza alla cultura, dal lavoro all’uso del tempo libero, senza risparmiarne alcuno, e che ha portato ad una omologazione, a un conformismo e a un appiattimento che non hanno eguali in alcuna precedente epoca della storia, neppure nel tanto criticato Medioevo, nel quale esisteva, eccome, una dialettica ben più vivace che oggi. Perciò, qualsiasi persona dotata di onestà intellettuale e di retto sentire, dovrebbe chiedersi se valga la pena d’insistere lungo una strada chiaramente sbagliata, che ci ha condotti in una situazione disperata e senza uscita, o se non sarebbe più saggio e più leale ammettere l’errore commesso e perciò tornare indietro, cercando il punto in cui i nostri passi hanno lasciato la retta via.
Una volta liberatici dai pregiudizi della modernità e spezzato lo stato di ipnosi, o piuttosto di auto-ipnosi, in cui ci troviamo, dobbiamo riconoscere che il segreto della saldezza e della coesione della società di un tempo (un tempo non lontanissimo: quello dei nostri nonni) era nel clima spirituale e morale che generazioni di uomini e donne cristiani avevano creato, con l’esempio concreto della loro vita. È innegabile che la deriva è cominciata quando il cristianesimo è stato rimpiazzato dalla visone moderna della vita, basata sull’edonismo e sulla esaltazione incessante delle proprie aspirazioni, anche le più sregolate. Anche un bambino era in grado di capire che una società, su simili presupposti, non avrebbe potuto andare lontano, anzi non sarebbe neanche riuscita a reggersi e a conservare i beni, materiali e immateriali, ricevuti in eredità dai propri genitori: ma il dato significativo è che quasi nessuno, a cominciare dai cosiddetti intellettuali, lo ha visto, o, se lo ha visto, se l’è sentita di dirlo a voce alta. Al contrario, la società contemporanea ha vezzeggiato, onorato e lodato i cattivi maestri della dissoluzione, i predicatori del nulla, i fomentatori delle più torbide passioni, dei peggiori egoismi, dei più incomprensibili vaneggiamenti: li ha acclamati come profeti e li ha premiati col denaro e con la fama. Tutti costoro meriterebbero di essere processati e fucilati come traditori della società, beninteso in senso simbolico: si sono rivelati dei furbi parassiti che hanno profittato di circostanze favorevoli per arricchirsi, occupare posizioni privilegiate e, intanto, accentuare e alimentare il malessere e la disperazione, senza mai prospettare una soluzione, semplicemente perché non ne avevano interesse: se la società avesse cominciato a rinsavire, il loro regno sarebbe finito. Il guaio è che essi o i loro figliocci sono ancora al potere: bisognerà schiodarli.