
Cari progressisti, giù le mani dal padre Dante
31 Ottobre 2018
Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo
1 Novembre 2018Una società, per sostenersi, ha bisogno di credere in se stessa. È quasi una tautologia, eppure giova tenerla a mente, perché ha a che fare con le nostre stesse possibilità di sopravvivenza. Pertanto, quando una società comincia a non credere in se stessa; quando i suoi membri cominciano a dubitare di tutto; quando alla verità oggettiva subentrano il relativismo e il soggettivismo, e sulle labbra compaiono i sorrisetti ironici, quella società si pone sul piano inclinato che la condurrà verso la fine. Infatti il non prendersi sul serio, ridere di sé, sbeffeggiare i propri valori, essere ironica verso quanti restano fedeli alle certezze del giorno prima, denota che una società incomincia a non aver più fede nel proprio destino, a desiderare inconsciamente il proprio annullamento. E questo tipo di atteggiamento parte sempre dall’alto, dalle classi superiori, specialmente dalle persone colte: sono loro che, quando una società incomincia ad ammalarsi, contraggono con più forza la malattia, e la diffondono ovunque con le parole, gli scritti, la musica, le opere d’arte, il cinema, eccetera. Diventano gli agenti di diffusione della malattia e danno alla società la spinta decisiva verso l’abisso. Le classi colte sono, in genere, le prime ad accogliere un nuovo paradigma; ma sono anche le prime ad abbandonarlo, e non sempre per aprirsi ad uno nuovo, ma anche, talvolta, per affacciarsi sul vuoto e provare l’ebbrezza del nulla. Le classi dirigenti, quando perdono la bussola, sono quelle che indirizzano la società verso il nulla e l’incoraggiano a farla finita con se stessa, anche biologicamente, predicando l’aborto e la sodomia. Oh, ma lo fanno con molto stile: ci scrivono sopra dei libri, intrattengono delle meravigliose conversazioni. Specialmente a tavola, con lo stomaco pieno, quando, bevendo un amaro e rilassandosi piacevolmente, si lasciano trasportare dal gusto di parlare e, stimolate dal vino, lasciano che i loro pensieri segreti vengano a galla: in vino veritas. Come Ivan Karamazov alla fine dei pranzi in casa di suo padre, con il servo Smerdiakov che non perde neanche una parola, gli uomini colti e brillanti parlano, parlano, predicano e pontificano, davanti alle tazzine vuote di caffè, e godono la deliziosa sensazione di pronunciare il discorso funebre alle proprie esequie, e a quelle dell’intera società.
Questo fenomeno è stato particolarmente evidente nel corso del Settecento, dal principio del secolo fino allo scoppio della Rivoluzione francese. I cosiddetti philopsophes erano questi signori annoiati e insoddisfatti, irrequieti e viziati, i quali, pur godendo di uno statuto sociale invidiabile, si sentivamo frustrati e sognavano mondi migliori, nei quali l’intera umanità si sarebbe rigenerata grazie ai lumi della ragione, da essi modestamente indicati. La ragione, però, era in fondo un pretesto: quel che desideravano ardentemente era fare sfoggio di eloquenza, ammazzare la noia con dei discorsi arguti, per mezzo dei quali richiamare l’attenzione ed essere ammirati. Volevano piacere, e per piacere erano disposti ad adulare il "popolo": a dire che l’uomo è buono, ma la società lo rende cattivo; a insegnare che gli uomini, se lasciati liberi di fare quel che vogliono, cercano istintivamente il bene; e che lo stesso principio si può estendere ai popoli. In effetti, non pensavano affatto a una rivoluzione, ma a una qualche forma di rigenerazione dell’umanità e ponevano a se stessi l’obiettivo di prepararla, o almeno di favorirla; per intanto, annaffiavano la digestione con del buon vino bianco e parlavano, parlavano, oppure scrivevano, su qualsiasi argomento, con la petulanza di chi sa tutto, anche se dice di non sapere niente, e di chi vuol rifare ogni cosa, anche se affetta modestia e moderazione. Ma più di tutto volevano essere brillanti e alla moda: e la moda è la legge del continuo cambiamento. Così, chiacchierando e filosofeggiando — ma una filosofia in pillole adatte alle signore col ventaglio e ai signori dal parrucchino incipriato, lanciavano i loro strali contro tutto e tutti, sorridevano e facevano sorridere, non risparmiavano nulla e nessuno, né la religione, né la monarchia, né la società, né le istituzioni, e su ogni cosa trovavano da ridire, da ironizzare, da celiare, e nulla prendevano seriamente, perché in fondo non credevano in nulla, anche se amavano raccontare a se stessi e agli altri di amare l’umanità.
Scriveva lo storico Pierre Gaxotte nel suo classico La rivoluzione francese (titolo originale: La révolution française, nouvelle édition, Paris, Fayard, 1970; traduzione di Maria Rosa Zannini, Milano, Mondadori, 1989, pp. 72-74):
Ci sono periodi in cui i pericoli e le calamità pubbliche fanno sentire al popolo l’utilità del potere. Ma, dimenticata la minaccia, riparato il male, questo sentimento scompare. L’autorità, desiderata dopo la Fronda per i suoi aspetti positivi, accolta con entusiasmo nel 1661, aveva già stancato in francesi nel 1715; nel 1789 venne infine considerata tirannica. La monarchia non era diventata più opprimente né più costosa; era semplicemente invecchiata. Il Paese, ormai assuefatto ai suoi servigi, non li notava più. Prendeva per naturali e spontanei un ordine e una tranquillità mantenuti invece con cure continue, e mal sopportava la sottomissione che ne era il prezzo.
Luigi XIV aveva appena chiuso gi occhi che rinacquero i fermenti tra gli avversari naturali del potere reale: i grandi del regno e i corpi privilegiati. Coscienti della propria forza, essi trovavano più conveniente uno stato semi-anarchico dive potevano risaltare come capi e come poteri indipendenti che un’autorità unica e forte la quale mantenendo la pace e la giustizia, rendeva inutile il loro patrocinio, toglieva loro clienti e influenza, e li costringeva all’obbedienza. Liberi dal controllo reale, si gettarono su tutto ciò che il regno precedente aveva proibito, e adottarono cin gioia le idee di libertà indefinita che cominciavano a circolare apertamente.
Queste idee erano attraenti e parevano innocue. Blandivano le vanità, e non sembravano minacciare gli interessi. Che cosa c’era di più gradevole, in queste condizioni, di un viaggio nel paese delle nuvole in compagnia di una guida brillante e colta?
Nella festa scintillante che l’alta società si permetteva, la conversazione era il punto principale, e senza filosofia la conversazione sarebbe stata ben scialba. Essa vi aggiungeva il suo sale, la sua ironia, i suoi paradossi, i suoi pungoli, le sue audacie, le sue empietà. "Non c’è colazione o cena dove essa non trovi il suo posto" dice Taine. "Si è a tavola in mezzo a un lusso delicato, tra donne sorridenti e agghindate, con uomini colti e gradevoli, in una società scelta dove l’intelligenza è pronta e l’intesa è sicura. Già alla seconda portata, la "verve" esplode, le arguzie scoppiettano, gli spiriti sfavillano, Come trattenersi, al "dessert", dallo scambiarsi battute di spirito anche sulle cose più gravi? Verso il caffè, arriva la questione dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio. Per poter immaginare questa conversazione ardita e affascinante, dobbiamo prendere le corrispondenze, i trattatelli e i dialoghi di Diderot e di Voltaire, quanto ci sia di più vivo, di più fine, di più stimolante e di più profondo nella letteratura del secolo; e questi sono solo i residui, le ceneri spente. Tutta questa filosofia scritta è stata detta, ed è stata detta con l’accento, il trasporto e l’inimitabile spontaneità dell’improvvisazione, con i gesti e l’espressione mobile della malizia e dell’entusiasmo. Oggi, fredda e muta, ci trascina e seduce ancora; com’era quando usciva viva e vibrante dalla bocca di Voltaire e di Diderot?…"
Nel Seicento gli scrittori erano stati trattati col massimo rispetto alla corte e a Parigi. Ma non si attribuiva loro una missione da svolgere: le lettere non erano che un nobile svago dove lo spirito si allietava in libertà, senz’altro desiderio che di piacere al pubblico gareggiando con gli eterni modelli lasciati dagli antichi. Nel Settecento, alla letteratura disimpegnata subentra quella di lotta, ambiziosa ed aggressiva. Gli scrittori diventano riformatori di professione, ma nel loro nuovo ruolo godono ancora del rispetto e dell’ammirazione che avevano circondato i loro predecessori. Ospiti contesi e re dei salotti adulati oltre ogni possibile immaginazione, sono i direttori spirituali dell’aristocrazia elegante. Mille testoline incipriate si inebriano delle teorie che le faranno rotolare nel paniere di Sansone.
La nostra società odierna somiglia molto a quella europea, e specialmente francese, del Settecento. Le classi dirigenti hanno spostato il centro dei loro interessi dall’impresa alle banche: non investono denaro nella produzione di beni reali, ma lo affidano ai loro consulenti finanziari, oppure offrono servizi e vivono di rendita, in fondo annoiandosi. Gli intellettuali usciti da essa, che esercitano il monopolio sulla cultura, ne riflettono la mentalità egoista, parassitaria, oziosa; il loro passatempo preferito è dir male del mondo in cui viviamo, profetizzare sciagure oppure prendere a bersaglio i difetti della famiglia, le colpe della patria e l’inconsistenza di Dio. Oggi parlare male del futuro è quasi un obbligo, anche perché fornisce l’alibi per non fare figli, per non prendersi le responsabilità dell’essere genitori; in compenso, incoraggia e giustifica tutto ciò che è anormale, patologico, schermandosi dietro la nobile facciata di una difesa dei diritti delle minoranze e di una doverosa "battaglia di civiltà" per far capire al volgo che, in fondo, "siamo tutti diversi" (anche se il fine cui mira la cultura politicamente corretta è omologare al massimo).
Questa involuzione è cominciata con l’inizio della modernità stessa. Il primo romanzo moderno, Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, è del 1542, e si riassume in un’unica, colossale, mostruosa risata; almeno fosse una risata sana e piena di buonumore, invece ha qualcosa di orrido, di grottesco. Il secondo romanzo moderno, Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra, pubblicato in due parti, nel 1605 e nel 1615, suscita il riso dei lettori, anche se il protagonista, il Cavaliere dalla Trista Figura, è tutt’altro che comico, semmai tragico. Anche nelle commedie di Shakespeare si ride molto, ma raramente con autentica allegria; piuttosto si deride qualcuno o qualcosa, il che è diverso, così come don Chisciotte non è ridicolo, eppure è oggetto di derisione da parte degli altri. La regina delle fate, Titania, che s’innamora di un povero sciocco dalla testa d’asino, nel Sogno di una notte di mezza estate, offre di sé uno spettacolo ridicolo, che è stato architettato dal geloso re Oberon, il quale però se ne stanca; anche nello spiritello Puck, vi è una malizia carica di derisione verso gli esseri umani, e lo stesso vale per l’altro spiritello, Ariel, ne La tempesta, del 1616, che è quasi il testamento spirituale di Shakespeare. Così, fin dal suo sorgere, la modernità sembra intenta a deridere se stessa; e si pensi ad Orlando che si degrada nella pazzia, nel capolavoro di Ariosto; per non parlare dei cavalieri, degradati a eroi comici, ne la Secchia rapita di Tassoni. Gli intellettuali del XVIII secolo provano uno speciale compiacimento nel farsi beffe di quella trista genia che è l’umanità: dai Viaggi di Gulliver di Swift al Candido di Voltaire, pare che agli uomini non resti che il disprezzo e la commiserazione un po’ schifata da parte degli scrittori. Quanto ai filosofi, dopo Hume è difficile parlare ancora di certezze, se non in negativo (ed ecco Montale: codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo); impossibile anche solo nominare la verità, che sembra esser divenuta una parolaccia. Col Romanticismo questi atteggiamenti si inaspriscono, perdono perfino lo smalto della facezia brillante, del motto di spirito, che avevano caratterizzato i philosophes parigini, e assumono una cupezza funerea, bene espressa da Leopardi e dai suoi prosecutori, fino a Montale e oltre. Oggi abbiano i nostri Voltaire, nella persona di scrittori come Umberto Eco; e i nostri Diderot rappresentati da autori come Alberto Moravia (usi entrambi, questi ultimi, a posare a filosofi per mezzo del romanzo pornografico) e i nostri enciclopedisti, che sono i membri del CICAP: come quelli, si sono votati al compito d’illuminare l’umanità, distruggendo superstizioni e dissipando errori. I surrealisti e gli esponenti di altre avanguardie si son divertiti a giocare su tutte le varianti del non senso e della derisione come strumento di denuncia e demistificazione, dicono loro, o di compiaciuto nichilismo, secondo noi. Non è nichilismo puro un romanzo come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana? Ed è anche una scusa per deridere la serietà della vita.
L’acme della derisione e dello sberleffo si è registrato nel ’68, ma se allora gli intellettuali si compiacevano di giocare alla rivoluzione, fomentando i giovani, oggi che i furori rivoluzionari sono sbolliti, il vezzo di deridere ogni cosa seria non è passato affatto. Curiosamente, esso si lega a una serietà quasi sacerdotale che questi signori indossano nell’esercizio delle loro funzioni, come un paramento liturgico: avete notato con quanta serietà e compunzione pontificano sull’universo mondo gli odierni maîtres-à-penser, dal filosofo di moda con la barba tinta all’ultima stella del rock o vincitrice di un concorso di bellezza, con entrambe le gambe o anche una sola? La loro "filosofia" è un singolare impasto di libertinismo e filantropia, solidarietà e ultraindividualismo, saccenteria sfrontata e finto candore moralistico. Gli uomini, secondo loro, son tutti buoni e belli, soprattutto se stranieri e diversi: per le persone normali, le famiglie normali, per la propria identità e civiltà non hanno altrettanto entusiasmo; anzi, a dirla tutta, si direbbe che facciano loro ribrezzo. Come i nobili illuminati del Settecento, corteggiano entusiasticamente quelle stesse forze che li spazzeranno via…
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