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Non gliene frega niente

Se i filosofi, qualche volta, uscissero dalle loro torri d’avorio e si facessero un bel giretto per le strade, beninteso osservando con attenzione la realtà circostante e non camminando con la testa nelle nuvole, come quel Talete di Mileto che, stando alla tradizione, non badando nemmeno a dove mettesse i piedi, cadde in una buca, forse imparerebbero più cose sulla natura umana di quante ne potrebbero mai trovare nei libri e nei ragionamenti astratti. Sospettiamo fortemente che siano in molti, oggi, e non solo i filosofi, ad andarsene in giro con le fette di salame sugli occhi e con le loro idee preconfezionate in testa, sordi e refrattari a qualunque sollecitazione esterna, a qualunque segnale dal mondo della vita vera: altrimenti, come è possibile che quanti fanno del pensiero la loro professione o la loro attività principale, non abbiano ancora lanciato un grido d’allarme sulla mutazione antropologica in atto? Che nessuno, o molto pochi, abbiano denunciato lo sconcertante e rapidissimo ottundimento delle coscienze, lo spegnersi dell’intelligenza, il subentrare di una esistenza ridotta a sensazioni e a reazioni esteriori, in una parola, l’abbrutimento e la degradazione dell’uomo, che è qualcosa di assai peggiore del semplice imbarbarimento, perché dalla barbarie si può risorgere, ma dall’abdicazione dell’uomo a essere tale, dalla sua scelta di farsi una creatura sub-umana, no? Certo: in questo silenzio complice, omertoso, c’è una buona componente di paura, oltre che di opportunismo: la paura di non essere capiti, di essere derisi, di passare per paranoici. E non c’è categoria che ci tenga a fare bella figura più di quella dei cosiddetti intellettuali: farebbero qualsiasi cosa, anche carte false, pur di conservare o accrescere la loro popolarità, pur di navigare col vento in poppa, facendo però mostra d’aver scelto loro di andare in quella direzione, autonomamente e liberamente. Ora, è certo che vi son poche cose più sgradevoli e ingrate di questa: dire agli uomini che, nella grande maggioranza, si stanno letteralmente incretinendo; che stanno dando via il cervello; che stanno perdendo la loro anima e la loro stessa umanità. No, non è una cosa che piace: non è musica che possa riuscir gradita agli orecchi della massa. La massa vuol sentirsi dire che va tutto bene, e che ciascun membro del gregge è un individuo autentico, intelligente, creativo, maturo, responsabile e perfettamente in grado di fare le scelte migliori, per se stesso e con vantaggio dell’intera società. E allora, per dire una cosa simile, ci vuole molta forza d’animo: è necessario avere un amore della verità così grande da non sottomettersi al ricatto del conformismo e della paura. In particolare, nessuno osa dire ciò che pensa su quel che si vede per la strada ogni giorno, per timore d’incappare nella censura del politicamente corretto: vi sono delle pseudo verità ideologiche che sono assurte al valore di dogmi, e perciò nessuno può permettersi di contraddire, neanche indirettamente e neanche portando le prove di ciò che afferma, l’ideologia ufficiale: scientista, materialista, edonista, relativista, buonista, in breve: mondialista.

Eppure, bisogna che qualcuno lo faccia. Tacere, fare finta di nulla, sarebbe ancor peggio che una vigliaccheria: per come si stanno mettendo le cose, sarebbe un tradimento, o, quanto meno, una correità con le forze della dissoluzione che vorrebbero scardinare la nostra società. Proviamo a scendere in strada, dunque, e a guardare da vicino l’umanità che popola i nostri paesi, i nostri quartieri e le nostre città. La prima cosa che colpisce è la percentuale spropositata di stranieri, che appena venti anni fa non c’erano, se non in piccolissima misura. Ci viene detto dai mass-media, per rassicurarci, che è tutto normale, che tale immigrazione fa parte di un grande fenomeno mondiale chiamato "migrazioni", e che i "flussi" derivano, in gran parte, da guerra, fame e altre calamità naturali, per cui si tratta di profughi, o comunque di persone in fuga da condizioni di vita insopportabili. Sorge però la domanda, ingenua, se vogliamo, ma ineludibile, se si possiede ancora una testa capace di pensare: da quale guerra fuggono, i cinesi? Quando arrivarono i primi e aprirono i loro negozietti, stipati di merce a poco prezzo, molti di noi li hanno visti con simpatia: eravamo in piena crisi economica, finalmente della merce che costava poco, non troppo diversa, per qualità, da quella cui eravamo abituati. Poi i cinesi son cresciuti di numero: hanno aperto bar e ristoranti, o, più spesso, hanno rilevato i precedenti gestori italiani, costretti a vendere. Nemmeno a quel punto abbiano trovato strana la cosa, anzi, tutto sommato ci è parsa una buona cosa: il vino, la birra, i tramezzini, costavano sempre un po’ meno che altrove, e inoltre i locali erano aperti a tutte le ore, un bel vantaggio rispetto a prima. Poi ci siamo accorti che intere file di negozi e di locali pubblici erano diventati di proprietà cinese, e questo non nelle periferie, ma nel pieno centro delle nostre città. Ci siamo anche accorto che i cinesi, perfettamente organizzati, vivevano nelle case del centro, magari in quattordici in un appartamento dove normalmente vivrebbero tre o quattro persone: ecco, forse a quel punto la cosa ci ha fatto un po’ pensare. Ma insomma, i cinesi sono molti disciplinati, sono discreti, non creano problemi di ordine pubblico; quindi, perché preoccuparsi? Un giorno, però, i vigili di Milano si son permessi di fare la multa a un furgone cinese in sosta vietata, ed è scoppiato il finimondo: quasi una rivolta da parte dei residenti cinesi. Solo allora ci siamo resi conto di quanti fossero, e cosa potessero fare se decidevano di non rispettare le leggi e le norme vigenti. Fra le altre cose, durante i duri scontro con le forze dell’ordine, li si è visti sventolare le bandiere della Repubblica Popolare Cinese: come se fossero i soldati di un esercito, o meglio, le avanguardie di un esercito invasore. Lì, forse, qualcuno è rimasto turbato; anche se poi gli incidenti sono rientrati e si è messa una pezza su quanto era accaduto. Il segreto, lo si è capito allora, è quello di non far troppe domande, di non sollevare il tappeto per vedere se sotto c’è la polvere. Alcune stranezze le hanno osservate tutti, ma è preferibile non parlarne: la scomparsa dei cani e dei gatti nei quartieri dove ci sono i ristoranti cinesi, per esempio, o la strana assenza di esequie funebri fra gli immigrati cinesi, cosa che, in privato, è perfino oggetto di battute scherzose: ma non muoiono mai, costoro? Sono dunque immortali? Però, tutti zitti e acqua in bocca: dire qualsiasi cosa sarebbe lo stesso che alimentare ingiusti sospetti, e quindi portare acqua ai pregiudizi e al razzismo. E ciò non sia mai: pertanto, siamo pronti a ritirare tutto. Se i cani e i gatti sono spariti, sarà stata un’epidemia; e quanto ai morti, si vede che gli anziani rientrano al loro Paese, per morire laggiù. Se dai cinesi ci spostiamo agli altri asiatici, ai latinoamericani, agli europei dell’Est e soprattutto agli africani, il discorso si fa ancora più inquietante. Ci si può domandare, infatti: c’è la guerra nel Bangla Desh? C’è la guerra nel Pakistan? C’è la guerra in India? In Afghanistan sappiamo che c’è (anche se a suo tempo i soliti mass-media ci dissero che presto sarebbe finita, e che l’intervento militare italiano avrebbe contributo a ristabilir la pace), e, da qualche anno, sappiamo che c’è anche in Siria, benché la maggior parte di noi non ci abbia capito molto, tranne che tutti, ma proprio tutti, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Iran all’Arabia Saudita, dalla Francia alla Turchia, vi giocano la loro partita, che non è una partita onesta, bensì coi dadi maledettamente truccati. Ma in Marocco, quale guerra è in corso? In Tunisia, quale guerra è in corso? Eppure sono arrivati a centinaia di migliaia, i marocchini e i tunisini. E nei paesi a sud del Sahara, la Nigeria, il Senegal, la Costa d’Avorio, c’è la guerra? C’è la carestia? Ci sono delle catastrofi naturali? C’è una particolare emergenza umanitaria? A noi non risulta. E tutti gli spacciatori di droga nigeriani; tutti i travestiti e prostituti sudamericani; tutti i rapinatori professionisti romeni son venuti qui per sfuggire a guerre discriminazioni e persecuzioni? Oppure sono venuti per esercitare con più comodo le loro onorevoli professioni, e inoltre perché, facendo il confronto tra le carceri italiane quelle dei loro rispettivi Paesi, hanno ritenuto che, se pure le forze dell’ordine dovessero prenderli, non è neanche tanto male farsi un po’ di vacanza a spese del nostro Stato, cioè delle nostre tasche, in attesa (breve) che qualche magistrato buonista e di sinistra li rimetta in libertà e consenta loro di riprendere il filo interrotto delle loro balde imprese?

La seconda cosa che colpisce è l’atteggiamento che moltissimi stranieri tengono in pubblico: per la strada, nei locali pubblici, nelle scuole, negli uffici. Si comportano da padroni, camminano con noncuranza, alzano la voce, vogliono passare per primi. Soprattutto, vogliono passare per primi: che sia il pronto soccorso dell’ospedale, o lo sportello della posta, esigono la precedenza. Molti, poi, vogliono imporre a noi le loro regole, e non rispettano le nostre. Parecchie donne islamiche se ne vanno per la strada indossando il burqa, che è proibito per legge, e intanto pretendono di escludere i maschi italiani dalle visite in ospedale, se sono in camera insieme a delle donne italiane. Oppure, allo sportello di un ufficio, il marito prende a male parole l’impiegato, e perfino l’impiegata, che ha osato rivolgere la parola alla loro moglie, la quale era l’intestataria del libretto bancario o postale, pretendendo che chiunque parli soltanto a lui, al maschio, e non si permetta di parlare alla sua donna. L’elenco di tali comportamenti sarebbe lunghissimo. Per molti marocchini i biglietti del tram o dell’autobus non esistono; si sale a bordo, semplicemente; e, se il controllore osa domandare di vedere il biglietto, gli si risponde con le parolacce o con le botte. Specialmente se si tratta di minorenni, come spesso accade, che volete che succeda? Arrivano i carabinieri, fanno una ramanzina, e tutto finisce lì. Intanto l’autista o il controllare vanno al pronto soccorso, a farsi dare i punti e a farsi medicare le ferite per il pestaggio subito. Poi, vanno dall’avvocato per difendersi dall’accusa di razzismo: come hanno osato far scendere dal mezzo il passeggero sprovvisto di biglietto? C’è sempre un magistrato di sinistra che sentenzia: è stato un sequestro di persona, con l’aggravante del pregiudizio razziale. Che farci, quei ragazzi sono minorenni: non si può agire contro di loro. Neanche contro i loro genitori, per omessa custodia? Pare di no: almeno, così ci vien detto; provate a parlare con un autista di autobus o di corriera, e ne sentirete delle belle. Inoltre, specialmente gli africani, e specialmente i sedicenti profughi, sono in strada tutto il giorno, a bighellonare e ascoltare musica: quella non manca mai, è quasi un’uniforme. Camminano in gruppo, o vanno su e giù in bicicletta; siedono sulle panchine, osservano la gente che si affretta al lavoro. Formano dei crocchi, specie ai giardini pubblici; sequestrano le panchine, le trasformano in minimarket della droga. Lo sanno tutti, lo vedono tutti, ma non parla nessuno. Vi sono giardini pubblici dove gli italiani non osano neanche entrare: e fino a pochi anni fa ci andavano le mamme con la carrozzina. Ora sono zona franca, e i loro occupanti se ne servono in ogni maniera possibile: fra le altre cose, per lavarsi e fare i loro bisogni sulle aiole. Giardini che, fino a pochi anni fa, erano graziosi, delle piccole oasi di verde nel mezzo dei centri storici; e che ora son diventati bordelli o latrine a cielo aperto. Sotto il naso delle forze dell’ordine e degli amministratori pubblici. Se poi, per caso, un sindaco tenta di far qualcosa, se fa rimuovere le panchine, se fa mettere un paio di telecamere, se chiede ai vigili o ai poliziotti di fare qualche controllo, per esempio sulle biciclette chiaramente rubate che formano quasi dei depositi, pronti per essere vendute a chiunque lo voglia, i centri sociali e la stampa di sinistra lo attaccano, lo dipingono come un aspirante sceriffo da Far West, come un razzista, come un nemico dell’integrazione e della pace sociale.

Ora, indipendentemente dalla razza, diciamo qualcosa sul modo di muoversi della gente. Si direbbe che siano in trance: hanno sempre il telefonino in mano, sia a piedi, che in bicicletta, che in automobile; se no, hanno le cuffie della musica negli orecchi. Vivono in una dimensione a parte. Camminano come automi, non cedono mai il passo, non guardano quando attraversano la strada, non sanno come ci si regola per entrare o uscire da un locale mentre un’altra persona viene avanti in senso opposto. Il loro sguardo è vacuo, la loro attenzione è pari a zero. In compenso, vestono all’ultima moda; e poco importa se indossano abiti che fanno a pugni con la loro struttura fisica. Le obese esibiscono i fuseaux, le vecchie mostrano l’ombelico come le quindicenni; stesso discorso per i maschi. A quanto pare si considerano tutti belli come le star di Hollywood, e tutti snelli come le supermodelle. Sono soddisfatti di questa certezza e non temono di rendersi ridicoli o grotteschi. Sorge perciò una domanda: ma tutte queste persone, perché fanno quel che stanno facendo? Che cosa spinge un africano a piantare la famiglia, il paese, tutte le cose care, per venire in Europa? E che cosa spinge un sedicente profugo ad ammazzare il tempo spacciando la droga nei giardinetti pubblici? E che cosa spinge un magistrato italiano a prender sempre le difese di costoro, sino al punto di condannare un cittadino italiano che si è difeso da un’aggressione, e persino un poliziotto o un carabiniere che stavano facendo il loro dovere, a pagare le spese mediche al delinquente che hanno ferito, agendo in stato di necessità? E che cosa spinge la grassona a mostrare la pancia e il sedere con abiti attillatissimi, e lo studente a entrare fin dentro la scuola, il mattino, senza togliersi le cuffiette della musica e senza staccare gli occhi dal telefonino? Semplificando, ma cercando il comun denominatore di tali comportamenti, crediamo si possa dire: non gliene frega niente. Non si prendono responsabilità, non rispondono di nulla: gli va di far così, e così fanno. La loro filosofia è quella del why not?, perché no? Mi va, lo faccio. Non me ne frega niente di voi, né di nessuno. Perché pagare il bollo dell’auto o l’affitto o il biglietto del bus? Dal momento che non me ne frega…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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