
Se la verità non ha più importanza, che cosa ne ha?
19 Ottobre 2018
Finalmente la benda ci sta cadendo dagli occhi
20 Ottobre 2018Abbiamo già accennato alla chiesa di San’Ermacora, che sorgeva in borgo Aquileia, quando abbiamo parlato di un’altra chiesa, oggi scomparsa, che esisteva in quello stesso borgo, quella dei Santi Pietro e Paolo. Però, mentre quest’ultima, che si affacciava sulla Piazzetta del Pozzo, è stata completamente demolita nel 1953, e al suo posto sono stati innalzati dei caseggiati moderni, quella di S. Ermacora, benché sia stata sconsacrata fin dal 1836, e smantellata nel 1864, non è scomparsa del tutto, perché la sua struttura esterna esiste ancora, ed è riconoscibile sul lato sinistro della facciata dalla ex caserma Gerolamo Savorgnan, che era la sede del Circolo Ufficiali dell’Esercito. Precisamente, si tratta dell’edificio che presenta un’alta finestra rettangolare con l’arco a tutto sesto, protetta da una ricca inferriata in ferro battuto, e che lascia intravedere la sommità del tetto a capanna dietro il lato che fa angolo con lo stretto e suggestivo vicolo d’Arcano, dal pavimento di ciottoli di fiume, che pare una stradina di campagna. L’edificio della caserma, quando il suo aspetto doveva essere piuttosto diverso, aveva ospitato l’antico palazzo Sbrojavacca, poi palazzo d’Arcano; da ultimo, nella prima metà dell’Ottocento, era stato trasformato in una raffineria di zucchero. Come dire: dai fasti architettonici e culturali dell’aristocrazia, alla masserizia e all’industria della borghesia in ascesa, per dirla col linguaggio degli scrittori tardo-medievali. Eppure l’antica chiesa, che era stata la cappella gentilizia annessa al palazzo, sul lato sinistro della facciata, benché manomessa e ridotta a ricevere luce da un’unica finestra, aveva resistito fino all’ultimo e solo nel 1836 il parroco del borgo Aquileia si era arreso e aveva ottenuto, per il decoro delle funzioni, che la chiese venisse formalmente sconsacrata, consentendo che i suoi preziosi arredi andassero dispersi, prendendo vie diverse. Allora, infatti, il clero aveva ben chiaro che esiste un limite di degrado dell’edilizia sacra e, di riflesso, della sacra liturgia, che non può essere oltrepassato: si può ancora celebrare la santa Messa in una chiesa cadente e coi rumori di uno zuccherificio in piena attività oltre la parete, ma solo fino a un certo punto, dopo di che la dignità delle funzioni e il rispetto stesso dei fedeli impone la chiusura. Chissà cosa direbbe il buon parroco di quel tempo, monsignor Cantoni, che per tutelare quel decoro e quella dignità non esitò a rivolgersi al suo arcivescovo, di quel che avviene tranquillamente ai nostri giorni, con un pezzo grosso della Chiesa quale il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, il quale non esita a trasformare una delle più belle e gloriose cattedrali dell’intera cristianità, quella di Santo Stefano, in una discoteca, nella quale un cantane travestito, transessuale e transgender, dalle fattezze femminili e la fitta barba nera, Conchita Wurst, si è esibito/a, nel dicembre 2017 davanti ai fedeli, con la scusa dell’Aids, in realtà per celebrare l’orgoglio gay e l’ideologia omosessualista e transessualista, il tutto fra gli applausi dei presenti e con l’alta benedizione ecclesiastica.
La cosa curiosa è che noi, da bambini, non solo abbiamo visto la chiesa di Sant’Ermacora dall’interno, ma ci abbiamo addirittura mangiato: perché si tratta dello stesso locale che, inglobato, tre secoli dopo, nella caserma, era stato adibito a sala da pranzo della mensa ufficiali, dove talvolta la nostra famiglia si recava insieme al papà, ex ufficiale dell’esercito. Ovviamente non abbiamo mai sospettato che quel locale fosse ciò che resta di un’antica chiesa, fondata addirittura cinque secoli prima; e, a dir la verità, abbiamo seguitato ad ignorarlo anche dopo, per un bel po’ di tempo. Sono trascorsi molti anni finché, un giorno, ci siamo imbattuti in questa notizia, dopo che molta acqua era passata sotto i ponti, la caserma era stata abbandonata e così il Circolo Ufficiali dove il papà, tenente colonnello dell’esercito in pensione, qualche volta, in verità assai di rado, ci portava a pranzo, ma che a noi non piaceva troppo perché, nonostante l’indubbia eleganza, vi regnava un’atmosfera un po’ troppo formale, che c’impediva di sentirci del tutto a nostro agio, come invece accadeva nei locali pubblici della città o dei dintorni, come la Siora Rosa in via Stringher, famosa per i suoi piatti di carne mista e specialmente per il lesso fumante, o Il Fornaretto, vicino a piazza san Giacomo, dove si poteva gustare un ottimo fritto di pesce e delle squisite cappe sante, innaffiate col vino bianco. Adesso il bell’edificio ottocentesco, della caserma, dalla facciata sobria, ma imponente, sta letteralmente cadendo a pezzi, l’intonaco viene giù e chissà che un giorno qualche calcinaccio finisca sulla testa dei passanti: così finalmente il demanio, cui tuttora appartiene, si deciderà a metterlo in vendita e qualcuno, probabilmente l’università, spenderà un po’ di soldi per rimetterlo in sesto, come del resto merita, e restituirgli una nuova vita, sia pure con una diversa destinazione d’uso. Per intanto, l’ex caserma è stata utilizzata per ospitare il materiale dell’Archivio di Stato, che consiste in qualcosa come dodici chilometri di documenti relativi alla storia friulana (cfr. l’articolo di Alessandra Ceschia su Il Messaggero Veneto del 25/11/16).
Secondo la tradizione un tempo accettata, ma formatasi in epoca piuttosto tarda, verso l’VIII secolo, Ermacora o Ermagora sarebbe stato il primo vescovo di Aquileia, designato dall’evangelista Marco e consacrato personalmente da san Pietro, a Roma, verso il 50; nel 70 avrebbe subito il martirio insieme al suo diacono Fortunato. È assai probabile, invece, che entrambi siano vissuti intorno alla metà del III secolo d. C., come attesta la tradizione più antica. In ogni caso, sono considerati i protomartiri della diocesi aquileiese, e il patriarca Poppone avrebbe poi dedicato loro la basilica di Aquileia, già dedicata a Santa Maria Assunta; la loro festa comune cade il 12 luglio. Nel Duomo di Udine si conserva, in una cappella laterale, una bellissima pala di Giambattista Tiepolo, dipinta nel 1737, che raffigura i Santi Ermarcora e Fortunato, della quale abbiamo parlato a suo tempo (cfr. il nostro articolo Il Duomo romanico-gotico di Udine ha un cuore in puro stile settecentesco, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/02/2008, e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 21/10/17). Nel XVI secolo la nobile signora Elisabetta Sbrojavacca — attingiamo questa notizia dal sito della Parrocchia della Beata Vergine Del Carmine -, devota a sant’Ermacora, dopo essere rimasta vedova, fece edificare una chiesa a lui dedicata su un terreno di proprietà della sua famiglia, in borgo Aquileia, nel 1583. Questa chiesa venne consacrata addirittura dal vescovo di Bisanzio, suffraganeo del Patriarca, e al suo interno venne posta un’immagine di Cristo con la croce sulle spalle. Circa mezzo secolo dopo, nel 1638, la famiglia d’Arcano subentrò nella proprietà agli Sbrojavacca (ed ecco spiegato il nome del poetico vicolo che si apre sulla sinistra della Caserma Savorgnan) e va a sboccare all’inizio di viale Ungheria, in un’area di verde pubblico) e ne ereditò anche lo iuspatronato, compresa la facoltà di nominare il parroco pro tempore, insieme all’onere del suo mantenimento.Così prosegue il sito http://www.parrocchiacarmine.it/index.php/arte-e-storia/, sezione Le chiese storiche:
Nel 1825 divenne padrone delle case e dei fondi che costituivano la proprietà il signor Francesco Braida che ridusse i locali a una raffineria di zucchero. Nel 1827 restava una sola finestra a dare luce e aria alla chiesa di S. Ermacora. Il Parroco della chiesa del Carmine, Monsignor Giobatta Cantoni, chiese al Vescovo Lodi di prendere dei provvedimenti a tutela dei riti e dei fedeli. Il giorno 11 maggio 1836 venne sospeso il culto. La coesa venne abbattuta nel 1864; l’altare e le due statue, le pietre della porta d’ingresso e la pietra sepolcrale presente all’interno della chiesa vennero trasferiti dal nobile Orazio d’Arcano nella chiesa di proprietà della famiglia nel villaggio d’Arcano.
Attingiamo inoltre le seguenti notizie dal libro di Maurizio Buora, come già alte volte, Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze (Trieste, LINT, 1986, p. 236):
Nel 1583 all’angolo tra via d’Arcano e via Aquileia fu costruita per volontà di Elisabetta di Sbroiavacca, che qui abitava, una chiesa dedicata a Sant’Ermacora. In essa furono seppelliti alcuni degli stessi Sbroiavacca e i successivi abitatori dell’edificio, i signori d’Arcano. All’interno c’era un altare settecentesco (G. B. Bettini) e decorazioni di Andrea Urbani. Oggi l’edificio, sconsacrato, dal 1936, ospita la sala da pranzo del Circolo Ufficiali. Prima della destinazione a caserma l’intero palazzo era stato adibito a raffineria di zucchero. L’aspetto attuale della facciata è frutto della sistemazione ottocentesca.
Un proverbio dice che il mondo è piccolo, per alludere al fatto che capita di ritrovarsi alle prese con persone e situazioni speciali, in apparenza contro tutte le probabilità statistiche; e potremmo aggiungere che è anche sorprendente, perché di certo non avremmo mai immaginato, a tanti anni di distanza, facendo una rassegna delle chiese di Udine, comprese quelle sconsacrate o non più esistenti, di scoprire che quella chiesa, che neppur sapevamo esserci, l’avevamo vista più volte sia dal di fuori che all’interno. E riflettendoci, non possiamo non fare un’altra riflessione: che mentre la profonda religiosità del popolo e la forza d’animo del clero hanno contrastato per secoli il processo di laicizzazione e di secolarizzazione, tenendo in vita il culto anche nelle chiese minori, quando lo Stato le confiscava e le metteva in vendita, destinandole ad altri usi — lo abbiamo visto, per esempio, nelle vicende che portarono alla soppressione della chiesa di Santa Maria Maddalena, nel borgo di Aquileia di dentro — ora sono proprio i fedeli, e specialmente il clero, ad assistere quasi indifferenti alla bancarotta morale della Chiesa cattolica, che si traduce, visibilmente, nella dispersione del patrimonio edilizio sacro. Abbiamo visto, nel corso di questa rassegna storico-artistica, quante chiese sono stare chiuse, a volte anche per anni: chiese che un tempo, quando eravamo bambini, erano frequentatissime, sia per la liturgia sacra e la devozione popolare, sia per la presenza di bravi predicatori, specie domenicani: tale, ad esempio, è stato il destino della bella chiesa di San Pietro Martire, in pieno centro storico. Altre chiese sono state destinate ad ospitare le comunità ortodosse, stabilitesi in città negli ultimi anni: quella di San Giacomo, quella di San Bernardino, quella di San Vincenzo de’ Paoli. E altre ancora sono state chiuse, puramente e semplicemente, allorché i rispettivi conventi, o collegi, sono stati abbandonati e messi in vendita ad enti pubblici o privati: così le due chiese di via Tomadini, quella del Tomadini e quella del Renati; e ogni volta è una stretta al cuore vedere come quei luoghi, che risuonavano delle preghiere dei fedeli e nei quali si celebrava il Sacrificio eucaristico, sono oggi chiusi e sconsacrati, in attesa di esser destinati a chi sa quale uso profano. L’antica chiesetta di San Leonardo, per esempio, sempre in pieno centro, in via Gorghi, è stata adibita a sede di una importante fondazione, poi venduta e rimessa sul mercato immobiliare; nelle chiese di San Francesco e del Cristo si tengono eventi culturali e spettacoli organizzati dal Comune. Certo, sempre meglio che la chiusura totale e definitiva, anticamera del deperimento e, un domani, del loro abbattimento, come è capitato alla chiesa di San Pietro, a quella di Santa Maria Maddalena, a quella di San Nicolò in via Zanon e a quella, quattrocentesca, di San Tommaso, all’angolo di via Cavour e Via Nazario Sauro, demolita nel 1931. Di altre da moltissimo tempo non è rimasto nulla, nemmeno una riproduzione a stampa, come nel caso della duecentesca chiesa di San Lazzaro, che sorgeva quasi al principio dell’attuale via Martignacco e ha lasciato il suo nome al vicino borgo San Lazzaro. E la chiesa dei cappuccini, in via Ronchi, è stata chiusa; l’atra chiesa dei cappuccini, in via Chiusaforte, chiusa e venduta all’università, che ne ha fatto un auditorium; e l’antico, imponente seminario, che ancora ai nostri tempi era fiorente di vocazioni, di fatto è stato trasferito fuori città, a Castellerio, accorpandosi con gli ex semiari di Gorizia e Trieste: hanno dovuto mettersi in tre per far funzionare, a scartamento ridotto, quello che un tempo era il vanto della chiesa cittadina. Una città senza più vocazioni alla vita religiosa è la spia di una decadenza spirituale forse irreversibile: e ci causa un forte senso di malinconia passare davanti al grandioso edificio di viale Ungheria, oggi completamente ristrutturato e divenuto sede di un grande istituto scolastico (liceo scientifico, liceo aeronautico, liceo sportivo) che, con tutto rispetto, non c’entra assolutamente nulla con la sua storia. Ci domandiamo le ragioni di questa bancarotta. E le abbiamo individuate nel nefasto spirito che ha animato il Concilio Vaticano II: un concilio anomalo, dubbio, inverosimile, che non ha fissato alcun dogma, né ha precisato alcuna verità di fede, né ha condannato alcuna eresia, neppure il comunismo ateo che perseguitava, in Europa e nel mondo, centinaia di milioni di fedeli, ma in compenso ha spalancato le porte a un dialogo malinteso, che si è risolto nella relativizzazione della fede e in una dichiarata sottomissione al giudaismo, a cui assurdamente è stato riconosciuto lo statuto di religione che porta alla salvezza tanto quella cristiana: benché quella religione consideri Gesù Cristo come un falso profeta e un bestemmiatore giustamente messo a morte. E allora, perché restar fedeli a una Chiesa che non crede più a se stessa?