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Omaggio alle chiese natie: Francescane del S. Cuore

Abbiamo già parlato della chiesa dei Cappuccini di via Ronchi, Santa Maria della Neve. È una chiesa che conosciamo piuttosto bene, per averla frequentata durante la nostra infanzia, recandoci più volte per assistere alla santa Messa festiva. Di altre chiese, lì vicino, non avevamo mai saputo che ce ne fossero, a parte quella di San Gaetano da Thiene, meglio nota come la chiesa delle Derelitte, in via Scrosoppi, e quella di San Bernardino, all’interno del giardino del Seminario arcivescovile, che si affaccia su via Ellero: entrambe a poche decine di metri di distanza. E invece sbagliavamo, perché un’altra chiesa c’è, e proprio in via Ronchi; anzi: esattamente di fronte a quella dei Cappuccini; solo che non la si può vedere, né minimamente sospettarne l’esistenza, perché è del tutto nascosta alla vista, e niente, neppure la punta di un campanile sopra i tetti, ne tradisce il segreto. Via Ronchi, in quel punto, per chi viene da via Ellero, presenta un piccolo "gomito" che le imprime una lieve deviazione dal suo asse: all’altezza della chiesa dei Cappuccini, la casa dirimpettaia – un edificio a tre piani d’impianto ottocentesco, dai muri lisci, le inferriate alle finestre del piano terra e gli scuri di legno a quelle dei due piani superiori, la falda inferiore del tetto con le travi di legno a vista – rientra sul marciapiedi di un metro o poco più, proprio all’altezza del portoncino, al numero 29, dove una targa informa: Suore Francescane. Convitto del Sacro Cuore. Questa è la sede delle Suore Francescane Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, la cui casa madre è a Gemona, e che qui hanno aperto, da alcuni anni, un convitto universitario (che naturalmente allora non esisteva, non essendovi neppure l’università). Hanno ereditato, per così dire, la casa delle Convertite, insieme alla loro chiesa, eretta nel secondo decennio del XVIII secolo e dedicata alla Beata Vergine del Soccorso. Sicché non si tratta di una chiesa pubblica, come quella dei Cappuccini, ma di una cappella privata, all’interno di un convento di religiose. Anche la chiesa di San Gaetano appartiene a una casa di suore, ma si trova sulla strada, ed esse hanno fatto la scelta di lasciarla sempre aperta per chiunque voglia entrarvi; le Francescane di via Ronchi, come anche le Dimesse di Via Treppo, avendo la loro chiesa situata in un cortile interno e non accessibile direttamene dalla via, non hanno potuto fare altrettanto, e ciò spiega il fatto che ben pochi udinesi, a nostro credere, sanno che qui esiste un’altra chiesa, oltre a quella dei Cappuccini (che alcuni anni fa se ne sono andati, per mancanza di frati giovani nel loro convento), tranne naturalmente, le ragazze che sono state ospiti del convitto.

Citiamo dal sito http://www.parrocchiacarmine.it/index.php/arte-e-storia/le-chiese-storiche:

LA CHIESA DELLE CONVERTITE. Situata in via Ronchi. Edificata nel 1713 e dedicata alla B. V. del Soccorso. Padre Giovanni Micesio, prete dell’oratorio Filippino, verso la fine del 1600 aveva raccolto alcune donne, redente da una vita di miserie e sotterfugi, in un’unica casa in via Rauscedo, casa messa a disposizione dalla famiglia Arcoloniani. Questa realtà divenne un’istituzione che poté trovare spazi e dignità in un nuovo e capiente edificio acquistato con il supporto di generosi udinesi proprio in via Ronchi: si trattava della casa Egregis e nasceva l’Istituto delle Convertite. Alcune delle persone raccolte da padre Micesio decisero di abbracciare una vita di servizio e vestire l’abito delle Cappuccine. Padre Micesio acquisì alcune case vicine in modo da separare le due realtà: la casa delle cappuccine e quella delle convertite condividevano così uno spazio comune per gli esercizi che era la chiesa della B. Vergine di Loreto. Il patriarca Dionigi Delfino, dopo la morte di padre Micesio nel 1702, assegnò la chiesa alle cappuccine e fece erigere una nuova chiesa per le convertite arricchendola con una Pala d’altare commissionata al pittore Bambini: la pala rappresenta la Visitazione della Beata Vergine, titolare della chiesa, e S. Maria Maddalena, patrona dell’Istituto. Attualmente gli spazi di quello che era il convento delle convertite sono occupati dal convento delle Suore Francescane Missionarie del Sacro Cuore.

L’interno della chiesa è stato decorato nel 1990 dal pittore friulano Arrigo Poz (nato a Castello di Porpetto nel 1929, ma poi trasferitosi con la famiglia a Bicinicco, e morto a Risano nel 2015), allievo di Gouseppe Zigaina, che ha decorato molte altre chiese del Friuli e di Udine, specialmente le vetrate, come a San Quirino e nella Madonna del Carmine, ispirandosi alla poetica del neorealismo friulano, che trae le sue radici dalla civiltà contadina, declinata tuttavia in forme moderne. Nella cappella del Sacro Cuore delle Francescane Missionarie ha realizzato una grande parete musiva, coloratissima, ove spiccano il Grande Tau (4,80×7 m.), che allude molto vagamente a un Crocifisso, e le composizioni alle vetrate, che è impossibile dire a cosa alludano, se a dei fiori, o a dei fasci di luce, o a delle pure forme geometriche. Non ci piacciono per niente: non hanno un’anima, né tanto meno un’anima cristiana e cattolica; starebbero altrettanto bene, o altrettanto male, in un tempio di qualsiasi credo, e anche in un salone profano, o magari in una loggia massonica: non ci sarebbe differenza. Se l’arte sacra è una forma di preghiera, noi, davanti ad esse, percepiamo qualsiasi cosa, fuorché un senso di preghiera, né ci sentiamo minimamente invogliati a raccoglierci per pregare noi stessi. Di Gesù, del Vangelo, di Maria, nemmeno l’ombra; è vero che le vetrate del Carmine sono diverse e molto più ortodosse. Qui, comunque, dobbiamo giudicare in base a ciò che vediamo sulle pareti: e ciò che vediamo non ci fa pensare a una chiesa, né alla fede religiosa, né, tanto meno, all’Amore di Gesù Cristo. Quel che sentiamo, è lo sforzo di apparire moderni a tutti i costi; il desiderio, la brama, di essere al passo coi tempi, di non apparire retrogradi, conservatori: ideologia, ancora e sempre ideologia. Ma arte, bellezza, senso del sacro: di questo, poco o niente E ci sia permesso osservare che tutto ciò, dal punto di vista di un fedele cattolico, è molto, ma molto triste.

D’altra parte, questa è una cappella privata: e non sta a noi dire se le brave suore, davanti a questo tipo di arte sacra, si sentono a loro agio mentre si raccolgono in preghiera. Proprio questo, però, è il male che si è sottilmente insinuato nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II: che ciascuno intende il sacro a modo suo. Prima, esisteva in linguaggio comune, così come c’era una liturgia comune, una pastorale comune e soprattutto una sola dottrina. Fino al 1962, nessun parroco, nessun vescovo, e solo pochissimi teologi si sarebbero permessi di dire o scrivere cose che potessero scandalizzare o mettere a disagio anche solo una parte dei fedeli; cose che venissero dalle loro personali opinioni e non dal Magistero perenne. Si sarebbero fatti degli scrupoli, si sarebbero trattenuti; del resto, sapevano che i loro superiori non avrebbero approvato un simile comportamento. Adesso, si direbbe che ci siano dei cattolici ai quali non importa quel che pensano gli altri cattolici, non fa alcuna importanza se si sentono a loro agio oppure no quando entrano in una chiesa, quando ascoltano una omelia, quando parlano col sacerdote nel confessionale: dei cattolici ai quali preme di far valere quella che è la loro idea del cristianesimo, della Chiesa e del Vangelo. E se gli altri non sono d’accordo, tanto peggio per loro. Basta mettere un cartello sulla porta della chiesa: Vietato l’ingresso a quelli che non sono d’accordo, e il gioco è fatto. Magari, il cartello non dice proprio così; magari dice, per esempio: Vietato l’ingresso ai razzisti, ma la verità è si vuol cacciare fuori chi non approva l’invasione africana ed islamica dell’Italia. Oppure un cartello, o un foglietto parrocchiale, nel quale si dice che quei cattolici che votano per la Lega, non sono dei veri cattolici: perché anche questo succede, e succede sempre più spesso. Questi preti progressisti, questi cattolici "adulti", come li chiamava il loro padre spirituale, l’eretico Karl Rahner, si ritengono i soli, veri depositari della Rivelazione, e pensano di essere quelli che hanno capito tutto del Vangelo, dopo duemila anni di ambiguità e fraintendimenti. Ora possono vantare teologi dello spessore di Enzo Bianchi, il quale va dicendo, a proposito delle apparizioni di Fatima, che una Madonna la quale non ha profetizzato nulla a proposito della Shoah, non è credibile. Ha usato proprio questa espressione: non è credibile. Perché la Madonna, per essere creduta da uomini come Enzo Bianchi, deve dire le parole d’ordine che piacciono a loro; deve essere approvata da loro; deve piacere a loro, e non essi a lei. Ma anche questo è "normale": normale, nel senso della svolta antropologica inaugurata, appunto, da Karl Rahner, e portata avanti durante questi cinquant’anni di apostasia strisciante, fino al pontificato del signore argentino, in cui l’apostasia si è resa manifesta.

Non è con questo spirito, impastato di un orgoglio tutto umano, che le Convertite, grate alla Chiesa di essere state raccolte dalla strada e restituite al rispetto di se stesse e della società, e conquistate dalla fede, dall’entusiasmo e dalla capacità di abnegazione di quei santi sacerdoti, hanno scelto di entrare nella famiglia francescana e di dedicarsi interamente a Dio e al prossimo; no, decisamente non lo hanno fatto animate da questo spirito. E la nobile famiglia degli Arcoloniani (l’abbiamo già incontrata, parlando della chiesetta di San Leonardo, in via Gorghi), non è con questo spirito che ha regalato alla Chiesa una proprietà in via Rauscedo, affinché padre Giovanni Micesio potesse raccogliere le donne traviate o abbandonate a se stesse, e restituirle ad una nuova vita. E non è con questo spirito che il pittore Nicolò Bambini (1651-1736) eseguì la pala d’altare commissionatagli dal patriarca Delfino, con la Visitazione della Vergine Maria e Santa Maria Maddalena: si tenne nello spirito di un’arte sacra che potesse parlare a tutti, che potesse ispirare tutti, essere capita da tutti. Non volle far emergere la sua personalità, a scapito del fine che è proprio di qualsiasi opera religiosa: indurre le anime al pensiero delle cose eterne. Questa è la grande, abissale, decisiva differenza fra tanti, troppi cattolici dei nostri giorni e quelli che per millenovecento anni, con mirabile continuità, hanno saputo annunciare un solo Vangelo, quello di Gesù Cristo: umili, fedeli, totalmente abbandonati alla volontà del Signore, e obbedienti alla Sposa di Cristo; la quale, a sua volta, era totalmente obbediente a Dio. Non c’erano protagonismi, non c’erano esibizionismi, nessuno voleva mettersi in mostra più di quanto fosse strettamente necessario per la gloria di Dio e l’amore verso il prossimo. Il pittore, il mosaicista, il mastro vetraio, lo scultore, l’architetto che lavoravano ad una chiesa, sentivano di avere un grande committente, Gesù Cristo: a Lui volevano piacere, prima che a qualsiasi altro; a Lui volevano render lode; in Lui cercavano ispirazione, e con il suo aiuto si mettevano all’opera. Ciò che essi progettavano, dipingevano, scolpivano, parlava anzitutto di Lui: e si esprimeva in un linguaggio talmente universale che chiunque avrebbe potuto capirlo, sia pure a differenti livelli di profondità: dal bambino all’adulto, dall’analfabeta alla persona colta. E poi c’era la liturgia comune, c’era la lingua comune, universale, il latino: dalla Sicilia alle Alpi, e dalle Alpi alla Scandinavia, e poi per tutto il mondo, nei cinque continenti, dalla Terra del Fuoco al Giappone. Chi entrava in una qualsiasi chiesa cattolica, in un qualunque luogo, si sentiva subito a casa: tutto gli parlava nello stesso modo, tutto lo guidava verso la stessa, dolce verità: quella del Vangelo, così come la Chiesa, per secoli e secoli, lo ha interpretato e insegnato, lottando con le unghie e coi denti per difenderne la purezza contro tutte le adulterazioni e le mistificazioni, contro tutte le eresie.

Ma ecco che gli eretici, improvvisamente, sono scomparsi; e la Chiesa, di colpo, ha smesso di combattere i loro errori. Strano, vero? Ciò è accaduto, di punto in bianco, con il Concilio Vaticano II. A partire da quel momento, la parola eretico è sparita, di fatto, dal vocabolario del clero, perfino i prefetti della Congregazione per la Dottrina della fede hanno evitato di adoperarla, meno ancora si sono azzardati a condannar qualcuno. Si vede che non ce n’era più bisogno; si vede che non c’erano più nemici della Chiesa, né esterni, né interni. Un concilio che non condanna nessuno, neppure gli atei comunisti che in metà dell’Europa sottoponevano i cristiani alle più dure persecuzioni; uno spirito nuovo che vuol solo abbattere muri e gettare ponti. Uno spirito di dissoluzione, contrabbandato per misericordia; di auto disprezzo, mascherato da dialogo. Fateci caso: è da quel momento, dal Concilio, che la parola "eretico" non solo è stata bandita, ma ha acquistato un significato di rimprovero, di autoaccusa: che brutti tempi, quando la Chiesa combatteva gli eretici! E sì che un certo san Tommaso d’Aquino aveva scritto che gli eretici sono peggiori dei falsari, e meritano una pena ancora più severa di quelli: perché i falsari si limitano a contraffare la moneta, mentre gli eretici falsificano la fede, che è cosa ben più grave per il danno che arreca alle anime. Si vede che anche san Tommaso era un po’, come dire?, antiquato; un po’ troppo rigido, come va di moda dire adesso; un po’ troppo tradizionalista. Non sapeva dialogare, non apprezzava la bellezza del confronto col diverso. Certo è consolante pensare che abbiamo oggi la fortuna di vivere in tempi ben diversi, più aperti e più sereni, più fiduciosi verso il mondo, più pervasi di misericordia verso tutti. Al punto che il (sedicente) papa argentino si rifiuta di benedire i fedeli, dicendo di non voler recare offesa a quelli che non credono. Ma che bei tempi, son questi: pieni di tatto e di delicatezza…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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