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4 Ottobre 2018Quella di San Vincenzo de’ Paoli è un po’ una chiesa fantasma. Benché l’Opera di San Vincenzo sia presente nel capoluogo friulano da ben centosessanta anni, siamo convinti che ben pochi udinesi sappiano dove si trova, tanto più che, da alcuni anni, è stata ceduta alla comunità serbo-ortodossa che vi ha istituito una parrocchia, la seconda dopo quella storica di Trieste, della chiesa di San Spiridione. La chiesa di san Vincenzo de’ Paoli si trova al civico 105 di Via Antonio Marangoni, fuori porta Poscolle: un luogo vicinissimo al centro storico, a due passi dal piazzale XXVI Luglio e dal Tempio Ossario, e nondimeno già un po’ periferico, frequentato più dalle automobili che dalle persone, anche perché non vi sono negozi o locali pubblici, ma solo abitazioni private. Eppure è un bel viale alberato, fiancheggiati dalla roggia e parallelo al viale Duodo, accanto al quale confluisce in piazzale Cella. Ma senza dubbio la maggioranza degli abitanti della città conosce questa via non per la Società San Vincenzo, ma soprattutto per la presenza del Palazzetto dello Sport. Dal 2002 il complesso ospita una comunità di missionari vincenziani, impegnati soprattutto nel campo della evangelizzazione "interna", una necessità che si sta rivelando sempre più impellente per il crollo verticale delle vocazioni religiose, che lascia "scoperte" intere parrocchie e comunità. Dalla strada, la chiesa praticamente non si vede; è nascosta da un alto muro ed è orientata in modo da risultare parallela e non perpendicolare alla strada; né si notano croci o altri simboli religiosi, e ciò non per desiderio di seguire certe mode architettoniche del dopo Concilio, ma semplicemente perché si trova in un cortile interno, sicché per vederla bisogna varcare il cancello, e quindi, in un certo senso, bisogna già sapere che essa esiste. Il turista, il forestiero o il lavoratore pendolare, pur passandoci davanti, non la scoprirebbero nemmeno se percorressero la via Marangoni tutti i santi giorni. Questo, del resto, è il fascino segreto che hanno le città, anche quelle non tanto grandi, e anche quelle che si crede di conoscere abbastanza bene, perché ci si vive da anni o ci si è nati addirittura: non finiscono mai di stupire. Le città più affaccianti sono, un po’ come le donne, quelle che hanno dei segreti, e non si rivelano del tutto al primo sguardo, anzi neppure al secondo o al terzo; quelle che si fanno desiderare e si negano quasi fino al puto di rottura: e perfino quando cedono, non perdono del tutto un certo alone di mistero.
Dunque, uscendo da via Poscolle e costeggiando il primo tratto di piazzale XXVI Luglio, si gira a sinistra e s’imbocca via Marangoni; dopo poco si passa accanto a un grande edificio in pietra che sembra un comune palazzo in stile neoclassico. C’è una cosa un po’ strana, che però al passante poco attento passerà inosservata: le grandi finestre rettangolari sono state murate; restano solo i finestroni semicircolari al di sopra di esse, quattro, poi un corpo sulla sinistra, che si prolunga in un piano superiore il quale chiaramente è stato aggiunto, con delle normali finestre, mentre sopra la porzione principale si nota una terrazza con tanto di piante verdi, come in una comunissima casa d’abitazione. Un altro indizio è dato da un timpano spezzato al di sopra della quarta finestra semicircolare, attraversata da due colonne di pietra: il timpano non è un elemento architettonico esclusivo degli edifici sacri, tuttavia, il più delle volte, lo si ritrova sulle facciate delle chiese, raramente sui palazzi privati: perciò anch’esso è una spia, che però può sfuggire facilmente all’occhio distratto o frettoloso. Il muro esterno è chiuso, e solo se il portone è aperto si vede, affacciandosi al giardino, che quel curioso palazzo è, in realtà, una chiesa: ma quando mai le chiese cittadine si costruiscono parallelamente alla strada e nascoste alla vista, se non quando si tratta di cappelle private? La facciata, comunque, preceduta da un bellissimo giardino, nel quale spiccano addirittura alcune alte palme africane — essenze un po’ insolute a queste latitudini e in questa città, che conferiscono al luogo un aspetto vagamente esotico, e tanto più insolite in quanto sono mescolate a cedri e abeti, essenze tipicamente boreali o alpine – è molto semplice ed elegante: la superficie è liscia, senza alcuna finestra, solo il portone d’ingresso sovrastato da una spoglia architrave e da una vasta superficie rilevata, di pietra azzurrina, mentre ai due spigoli il costruttore ha creato un effetto di movimento mediante una successione di pietre vive sovrapposte, di differente lunghezza, ma regolari, alternando una più corta e una più lunga, pietre vive che si prolungano sulla parte inferiore della facciata, fino a due terzi dell’altezza del portone.
Dietro, spicca il grande e bell’edificio delle opere vincenziane, al cui piano inferiore, attualmente, sono ospitati alcuni giovani con problemi psichici. Sono giovani dai 18 ai 21 anni, bisognosi di trovare pace, equilibrio e, possibilmente, delle figure paterne di riferimento; fino a qualche anno fa venivano ospitate anche persone più grandi, con l’obiettivo di aiutarle a trovare una certa forma di autonomia esistenziale. Il luogo sereno, il bel giardino, e tutto questo a due passi dal centro della città, offrono dei vantaggi invidiabili. I missionari, oltre a occuparsi dei giovani, operano in vari luoghi del Friuli, come si è detto, per l’evangelizzazione, collaborando con svariate comunità parrocchiali e istituti religiosi, secondo lo schema della "missione continuata annuale", e svolgono vari ministeri, specialmente la Confessione, per esempio nel santuario mariano di Monte Lussari (in comune di Tarvisio) e nelle cappellanie di varie comunità religiose; inoltre collaborano con le Figlie della Carità che hanno la loro sede lì vicino, in via Rivis, e sono il ramo femminile della grande famiglia religiosa che si ispira agli ideali di San Vicenzo de’ Paoli e, dal 1833, a quelli di Federico Ozanam. In molti luoghi, infatti, i missionari vincenziani sono conosciuti come "quelli della carità" (abbiamo desunto alcune notizie dal sito CMT Torino). Come dicevamo, i sacerdoti di San Vincenzo sono presenti nella città di Udine da molto tempo: fu nel 1858 che don Orazio Faggiani celebrò una messa nel Duomo di Santa Maria Annunziata, invitando i fedeli ad associarsi su modello di assistenza e carità del fondatore. La proposta ebbe un’accoglienza favorevole e il 6 aprile di quell’anno, con una cerimonia officiata da monsignor Giuseppe Luigi Trevisanato, patriarca di Venezia dal 1862 fino alla morte, nel 1877, nasceva la sezione udinese della Società San Vincenzo (cfr. Il Messaggero Veneto del 5 aprile 2008, in occasione della celebrazione dei 150 anni dalla fondazione). Da allora, essa ha sempre lavorato al servizio dei poveri e delle persone in difficoltà; tra le figure che hanno accompagnato il suo cammino di crescita si annovera anche monsignor Guglielmo Biasutti, il quale fin dal 1933 propose la creazione di una casa per accogliere i senza fissa dimora; di lui ci siamo già brevemente occupati parlando della sua creazione più importante, l’istituto Bearzi, quasi subito preso in carica dai sacerdoti salesiani e divenuto una realtà molto importante nella vita cittadina. Esiste anche uno studio specifico sulla Società San Vincenzo de’ Paoli nel capoluogo friulano: il libro di Ilaria Tassini intitolato I 150 anni della Società San Vincenzo de Paoli di Udine (edizioni Leonardo della Fondazione Friuli), reperibile anche presso numerose biblioteche pubbliche.
La situazione attuale della chiesa di San Vincenzo, affidata al clero serbo-ortodosso per le funzioni religiose (parliamo di una comunità di circa 1.500 persone, fra la città e la provincia), mentre i locali annessi sono in funzione per opere sociali sotto il patrocinio della Società San Vincenzo, e i missionari vincenziani vi fanno capo per operare in numerosi luoghi del Friuli, offre, in piccolo, uno spaccato della complessa e delicata situazione della Chiesa ai nostri giorni. Da un lato, vi sono ormai troppe chiese da gestire, per il ridotto numero dei fedeli, dovuto anche al calo delle nascite e all’inesorabile invecchiamento della popolazione, e naturalmente al calo vertiginoso delle vocazioni religiose, tanto che, per mandare avanti le parrocchie esistenti, da anni si fa ricorso a sacerdoti provenienti dagli altri continenti, specialmente dall’Africa e dall’America latina, il che non impedisce che molte chiese vengano chiuse o cedute al culto ortodosso, che invece è fiorente di vocazioni e i cui fedeli sono in aumento; dall’altro lato, l’abbandono della pratica religiosa da parte di moltissime famiglie fa sì che si renda ormai necessaria, anzi, indispensabile, un’opera di evangelizzazione interna, per ristabilire i fondamenti del credo cattolico nel contesto di una società che si sta ormai quasi completamente secolarizzando, e che ha praticamente tagliato i ponti col passato, con la tradizione, persino con le forme più essenziali della pratica religiosa, a cominciare dalla ricezione dei Sacramenti, Battesimo in primis. Si tratta, in altre parole, e come ai tempi di San Benedetto da Norcia, di ripartire da zero, o quasi: solo che mentre allora il contesto storico era quello delle invasioni barbariche, ora si tratta di una implosione della nostra civiltà. Esistono, peraltro, numerose analogie fra le due situazioni: in entrambi i casi, la grande sfida è rappresentata dalla capacità della Chiesa e dei credenti di incontrare ciò che è altro da loro, ma sulla base del proprio ascendente morale e spirituale, non certo sulla base di una svendita a prezzi di saldo del proprio patrimonio e della propria identità. I nodi stanno venendo al pettine: a partire dal Concilio Vaticano II, troppi cattolici hanno creduto, più o meno in buona fede, che la soluzione del nodo dei rapporti fra la Chiesa e il mondo consistesse in un generico atto di "buona volontà", in una capacità di "dialogare" che celava, molto spesso, una conscia o inconscia volontà di resa, una stanchezza intima, una incapacità di tenere alti, con decisione e con fierezza, i propri valori e la propria dottrina, contro tutti gli assalti e contro tutte le tentazioni di addolcirli, annacquarli, edulcorarli, in modo da attenuare gli urti con il mondo moderno. L’ambiguità di fondo consisteva nel sottinteso che, per adattarsi alle condizioni della società odierna, la Chiesa doveva rinnovarsi, ma il "rinnovamento" che molti cattolici avevano in mente, a cominciare dai teologi della "svolta antropologica", era qualcosa di molto simile ad una inversione a "u", in altre parole, a una resa a discrezione. Questa strategia implicava che i nemici della Chiesa, improvvisamente, diventassero dei rispettabili compagni di strada, degli amici, delle brave persone ottimamente intenzionate verso di essa, mentre i cattolici che si mostravano indisponibili a questa transazione, a questo voltafaccia, diciamo pure a questa adulterazione e a questo tradimento, diventavano ipso facto dei nemici, i peggiori nemici, contro i quali ogni arma, ogni calunnia, ogni durezza diventavano lecite, e perfino necessarie. Spettacolo incredibile, indegno, dolorosissimo: i cattolici trattati da nemici, tutti gli altri – ebrei, islamici, massoni, atei, per non parlare dei protestanti — promossi al rango di amici. Può darsi che molti cattolici progressisti, negli anni ’60 e ’70, fossero in buona fede; in ogni caso, oggi, se hanno occhi per vedere e orecchi per udire, dovrebbero prendere atto che le loro buone intenzioni sono stare sfruttate da elementi senza scrupoli, che la dottrina cattolica è in via di dissoluzione, e che attenersi ad essa, incredibilmente, non è più una virtù. Nemmeno essere cattolici è più una virtù, da quando il signore argentino va dicendo che Dio non è cattolico e da quando ha incominciato a rifiutarsi di benedire i fedeli, dicendo di non voler recare offesa a quanti cattolici non sono (lo ha fatto anche a Palermo, il 15 settembre scorso). Di che altro hanno bisogno, se sono in buona fede, per capire che più di qualcosa non sta andando per il verso giusto?
La sfida che la Chiesa, quella vera, la Sposa di Cristo, deve affrontare ai nostri giorni, è perciò duplice. Sul fronte interno, deve battersi per difendere la dottrina e, dove questa è stata offesa, indebolita, smentita (come nel caso di Amoris laetitia), per ripristinarla in tutta la sua purezza. Bisogna far capire ai fedeli che non c’è misericordia, non c’è nemmeno carità, se non nella verità e nella giustizia; che una chiesa "misericordiosa", ma infedele alla verità, che è Gesù Cristo, non è più la Chiesa cattolica, ma un’altra cosa, e, se pretende di essere riconosciuta come tale, non si tratta che di una colpevole mistificazione. In pratica, si tratta di chiamare a raccolta i fedeli, laici e consacrati, affinché i pastori indegni e infedeli vengano ridotti al silenzio, vengano messi in condizione di non dare più scandalo, e quindi, se necessario, vengano cacciati fuori a pedate nel sedere, come impostori, eretici e apostati, perché la loro permanenza nella Chiesa genera degli equivoci terribili, a causa dei quali viene messa in pericolo la salute delle anime, scopo supremo e ragion d’essere della Chiesa stessa. Sul fronte esterno, si tratta di riaffermare la specificità e l’identità della Chiesa fondata da Gesù Cristo, non per dichiarare guerra alle altre fedi, e neppure agli uomini laicizzati e irreligiosi della società moderna, ma per tornare a fare la propria proposta, a lanciare il proprio invito, a diffondere il Vangelo di Gesù come la sola Parola di vita eterna, quella Parola di cui le anime hanno un disperato bisogno, e ce l’hanno anche quelle che credono di non aver bisogno di niente e di nessuno. L’idea che, per delicatezza e per rispetto degli altri, i cattolici debbano quasi nascondere e mortificare la loro identità, è semplicemente folle, come è folle il modo di agire di un pontefice che non vuol benedire i fedeli per non offendere gli altri. Quando ci decideremo a capire che la sola maniera di essere credibili è quella di essere veritieri, coerenti e fieri del Vangelo? Di religioni, ideologie, filosofie che promettono agli uomini la felicità, assecondando i loro vizi, ce ne sono già troppe. Non per carezzare i vizi degli uomini Gesù Cristo è venuto ad annunciare il Vangelo, ma perché credano e si convertano. E i cattolici vogliono esser da più di lui?