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30 Settembre 2018Ai primi di agosto la Prima guerra mondiale lambisce anche le selvagge coste dell’Africa e il cupo rombo dei cannoni si fa sentire, da lontano, agli orecchi di Tarzan delle Scimmie, il re della foresta: inglesi, francesi e tedeschi hanno scelto di massacrarsi non solo nella lontana Europa, ma anche nelle profondità del Continente Nero (ma lo si può chiamare così? una volta lo facevano tutti, per non ripetere "Africa" e anche per intendere le regioni a sud del Sahara; ma oggi è ancora lecito? è politicamente corretto? o si rischia, adoperandolo, di beccarsi una denuncia per incitamento all’odio razziale?; va bene, correremo il rischio, tanto si muore una volta sola, e chi vive nella paura costante di qualcosa è come se morisse mille volte). Diciamo subito che, nella sede presente, non seguiremo il romanzo di Edgar Rice Burroughs, il settimo della serie, intitolato Tarzan l’indomabile (titolo originale: Tarzan the Untamed), del 1920, bensì la versione a fumetti, peraltro abbastanza fedele, dal titolo Tarzan l’indomito, pubblicata in lingua inglese sul numero 163 del giornalino americano del gennaio 1967, e tradotto in italiano, dalla Casa editrice Cenisio di Milano, sul numero 4 del luglio 1968, con testi e disegni di uno dei più noti interpreti statunitensi del ciclo del re delle Scimmie, Russell, detto "Russ" George Manning (1929-1981); perché in questa sede, appunto, ci interessa più il discorso sui fumetti, anche se le idee e la cultura di Burroughs si riflettono pienamente nelle pagine delle "strisce" illustrate.
Tarzan, dunque, ode il rombo del cannone in una sera di pioggia e pensa, in un primo tempo, che quel conflitto non riguardi lui e il suo popolo della foresta; ma subito dopo gli sovviene che lui è John Clayton, cioè lord Greystoke, e dunque, come cittadino britannico, non può lavarsene la coscienza: il suo dovere è chiaro, dovrà combattere coi suoi connazionali e contro i loro nemici. Decide di raggiungere le linee inglesi il mattino dopo e, nel frattempo, per ripararsi dall’acquazzone tropicale, cerca rifugio nella tana di Numa, il feroce leone, credendola in quel momento vuota; invece la belva è lì e gli si avventa contro. Tarzan per una volta mostra prudenza più che ardimento: si sottrae all’attacco saltando in alto sulle rocce della parete, mentre la didascalia informa i lettori, con saggezza didascalica, che Tarzan fa dietro front non perché spinto dalla paura, ma per la saggezza che insegna la vita della giungla: non si rischia mai la propria vita per un rifugio… In effetti, la ritirata è così elegante, che non somiglia affatto ad una fuga; e del resto Tarzan commenta, rivolgendosi alla belva, rimasta in basso, a ruggire con rabbia impotente: Questa volta hai vinto tu, ma Tarzan tornerà a prendersi la sua rivincita. Subito dopo, infatti, il re delle scimmie blocca l’ingresso della caverna con un muretto di pietre, in modo da chiudere il leone: ora che Numa è suo prigioniero, sa che potrà piegarlo ai suoi voleri. Dopo questo preambolo — non inutile, perché il leone avrà un seguito nella vicenda — Tarzan, il giorno dopo, si avvia verso il teatro di guerra e scorge, dall’alto degli alberi, una colonna di ufficiali tedeschi, soldati indigeni e portatori stremati e legati addirittura per il collo, che procede con fatica nella foresta. Seguendoli, Tarzan giunge, non visto e silenzioso come un’ombra, fino al campo tedesco, elude la sentinella e si affaccia a spiare dalla finestra della baracca del comando. Qui assiste a una scena interessante: un gruppo di ufficiali pare in attesa di qualcuno; e infatti, poco dopo, la porta si apre ed entra, salutata cordialmente dal generale in persona (anche se i tedeschi non hanno mai avuto alcun generale in Africa, e lo stesso, leggendario Paul von Lettow-Vorbeck non fu promosso tale che a guerra ormai finita, dopo il suo rientro in Germania), una bella e giovane donna in uniforme, dal portamento marziale, addirittura col bastone da ufficiale sotto il braccio — è inevitabile, gli americani cadono sempre nel kitsch quando devono rappresentare i militari tedeschi, uomini o donne che siano. Fräulein Kircher, così la chiamano, una specie di Mata Hari in divisa, è latrice di preziose notizie: con la sua attività si spionaggio è venuta a sapere che il morale degli inglesi è più basso di quanto il generale tedesco non credesse, il che lo induce a insistere nell’attacco, ben deciso ad annientarli.
Tarzan ha visto e sentito quanto basta, e si allontana dal quartier generale tedesco, silenzioso com’era arrivato. All’alba, si reca in prossimità delle linee nemiche e piomba con tutto il suo peso su un franco tiratore intento a individuare e abbattere gli ufficiali inglesi; poi, imbracciato il suo fucile di precisione, riduce al silenzio due mitragliatrici tedesche le quali tenevano sotto tiro le postazioni britanniche, suscitando la rabbia di un ufficiale che si è reso conto di quanto accaduto mediante un telescopio da trincea. Tutta questa parte è molto interessante, perché ci mostra quali fossero le idee di Burroughs, e naturalmente di Russ Manning, sul modo in cui si combatté la prima guerra mondiale in Africa. Si vedono trincee perfettamente ordinate e rinforzate con assi di legno e sacchetti di sabbia; mitragliatrici modernissime, dotate anche di scudo metallico per la protezione dei mitraglieri; ufficiali dotati di cannocchiali di precisione e telescopi per vedere il nemico senza doversi affacciare al di sopra dei parapetti: uno scenario adatto al fronte occidentale europeo, e già meno a quello orientale, ma assolutamente irrealistico nelle colonie africane della Germania, dove la guerra ebbe sempre carattere di guerriglia, quindi basata sui rapidi movimenti di agili colonne di fanteria e non certo sulle tecniche della guerra di posizione. Il generale col monocolo e la bella spia bionda con una divisa che pare firmata da Valentino, impeccabile nonostante il clima e il luogo, sono altre note quasi surreali da un punto di vista storico, anche se non prive di colore, e perciò di una certa rozza efficacia, sul piano avventuroso e nel particolare linguaggio di una storia a fumetti, alla quale non si chiedono, dopotutto, precisione o realismo storiografico, ma ritmo incalzante, atmosfera esotica e rapidi colpi di scena. Sembra, inoltre, nella storia di Tarzan, che i tedeschi, in Africa, disponessero non solo di mezzi modernissimi, coordinati con la loro proverbiale precisione, ma anche di truppe numerose, decisamente superiori a quelle messe in campo dagli alleati dell’Intesa: peccato che in tutte le colonie tedesche, comprese quelle dell’Oceania e dell’Estremo oriente, non vi fossero, nel 1914, più di venticinquemila cittadini tedeschi, compresi i civili: le forze armate, perciò, si riducevamo a poche centinaia di uomini e a qualche migliaio di ascari indigeni. (cfr. il nostro saggio Le colonie tedesche in Africa nella prima guerra mondiale, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 23/03/2007, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 26/11/2017). Né mancano le incongruenze geografiche: a un certo punto, il re delle Scimmie dice di voler tornare nei luoghi della sua infanzia sulla costa occidentale (pp. 192 e 196); ma poiché si desume, dal tipo di guerra fra inglesi e tedeschi, che siamo nel Tanganica, sulla costa africana orientale, è assai difficile comprendere come possa recarsi su quella occidentale: ciò spiegherebbe solo che la vicenda fosse ambientata nel Camerun o nell’Africa del Sud-Ovest. Ma, di nuovo, lasciamo perdere la pignoleria geografica e andiamo avanti con la storia: non tutti gli scrittori di avventure esotiche possono essere come Emilio Salgari, che si documentava sulle enciclopedie e stava attento a non far di questi errori, anzi approfittava delle sue letture per regalare al pubblico ampie nozioni di storia, geografia, antropologia, botanica, eccetera, benché pure lui, qualche volta, scivolasse su qualche buccia di banana (come quando, ne La stella dell’Araucania, scrive che, in inverno, lo Stretto di Magellano viene bloccato dai ghiacci).
Tarzan si presenta al quartier generale del 2° reggimento di fanteria rhodesiano, scendendo letteralmente dagli alberi, e spiega al colonnello — dal quale viene subito riconosciuto, non si sa bene come — che l’indomani prenderà, da solo, una trincea nemica tenuta da truppe indigene, dalla quale i rhodesiani potranno prendere d’infilata le altre trincee tedesche; per riuscirci, chiede solo una granata. Poi si reca alla caverna di Numa, toglie i sassi dall’ingresso della caverna, lega la belva (non viene mostrato in che modo), le imbavaglia le fauci, le fascia le zampe e la conduce fino alla linea tedesca; indi, dopo aver eliminato la mitragliatrice scagliando la bomba a mano, libera il leone e lo spinge dentro il camminamento che conduce alla trincea. Finalmente libero, il leone si avventa sugli ascari terrorizzati ne fa strage; gli altri fuggono a precipizio e così, quando arriva la fanteria britannica, trova solo una mitragliatrice fumante e silenziosa, un mucchio di cadaveri e la trincea vuota, come se fosse stata spazzata da un ciclone. La partecipazione diretta di lord Greystoke alla guerra finisce qui: l’esercito tedesco è distrutto e le forze alleate vittoriose possono ormai fare a meno del suo aiuto. Non è finita, però, la sua avventura: c’è un seguito imprevisto. Durante una battuta di caccia, Tarzan vede dall’alto una strana scena: gli ascari tedeschi sono diventati dei disertori, hanno catturato e malmenato Fräulein Kircher e si recano al villaggio dei feroci wamabos per scambiare delle vittime umane, da offrire per i loro sacrifici, con le vettovaglie di cui hanno necessità. Tarzan, che ha riconosciuto la spia tedesca e in cuor suo la disprezza, nondimeno prova compassione per il suo destino e decide di soccorrerla, ma quando si avvicina alla capanna in cui era stata imprigionata, scopre che si è liberata da sola. In effetti, la ragazza è riuscita a fuggire, ma si imbatte nelle grandi scimmie che stanno per farla a pezzi, quando Tarzan interviene proprio in tempo per sottrarla a una sorte tremenda. Subito dopo averle salvato la vita, le dà qualche sommaria istruzione su come adattarsi alla vita nella foresta e la lascia sola, per recarsi, come aveva progettato di fare, alla capanna della sua infanzia: si direbbe che la vicinanza di quella bellissima donna lo metta in imbarazzo, e che voglia porre una distanza fra sé e lei, forse per non cadere in tentazione e andare contro i suoi principi: non si amoreggia con una nemica, con una spia che ha causato ingenti perdite alla propria patria. Sciovinismo esasperato? Misoginia? Difficile dirlo. Comunque, il destino ha deciso che le cose vadano diversamente da come il re delle Scimmie ha immaginato. Durante la caccia, cade da un albero presso il villaggio dei wamabos e viene catturato; legato, si ritrova accanto a un altro prigioniero destinato a essere sacrificato, un aviatore dell’esercito britannico. Ma le scimmie, per fortuna, hanno visto la scena della sua cattura e di notte, quando i due sono legati al palo della tortura (ma siamo in Africa o nel Far West?), e i feroci guerrieri stanno provando le punte delle loro lance sui loro petti, si scatenano all’assalto per liberarli: e a sciogliere i nodi di Tarzan è proprio lei, la bionda Bertha Kircher. Tornati in libertà, riaffiorano le tensioni: il giovane pilota si accorge che Tarzan ha scarsa simpatia per la ragazza, nonostante ora sia lui debitore verso di lei, e viene informato che si tratta di una spia. Così, mentre Tarzan è a caccia, i due giovani, che si sono piaciuti fin dal primo sguardo, decidono di andarsene; lui lascia un biglietto di ringraziamento e lo informa che intendono tornare sul luogo dove era atterrato l’aero, sperando di trovarlo ancora in grado di volare. Ma Tarzan, quando torna e lo legge, capisce subito che, da soli, non ce la possono fare, e si affretta per raggiungerli. Appena in tempo perché Usanga, il capo dei disertori, li ha catturati e, pur non sapendo pilotare un aero, si è alzato in volo con Bertha, deciso a farne la sua donna. Servendosi di una corda usata a mo’ di lazo, Tarzan riesce a salire sull’aero già in volo, getta fuori bordo il negro e riporta in salvo Bertha, dal suo Harold, che, legato, era rimasto a terra. Nuovamente in debito verso il re delle Scimmie, i due giovani lo ringraziano e lo invitano a venir via con loro, ma lui, naturalmente, rifiuta. Al lettore rima un dubbio: di chi è realmente innamorata, la bionda Bertha? Vale la pena di riportare le ultime battute del loro colloquio, prima di separarsi. L’aviatore gli dice: E voi, Tarzan [infatti fra gentlemen ci si dà sempre del "voi", anche se si è nel cuore della foresta africana e uno dei due è il re delle Scimmie], perché non venite con noi? Al che la ragazza soggiunge: Ve ne prego! Non mi detesterete a tal punto, vero?; ma lui, laconico: Mi spiace… non posso. Nell’ultima vignetta lo si vede che guarda pensoso l’aero allontanarsi, e riflette: Quella ragazza ha un bel essere una spia nemica… ma è difficile odiarla! Speriamo che Smith Oldwick non abbia mai a pentirsi d’aver avuto fiducia in lei! E questo è tutto. In definitiva, al lettore resta una curiosità insoddisfatta: non sarà che Tarzan ha avuto paura dei propri sentimenti? E lei si è presa l’aviatore per ripiego, oppure semplicemente per lasciare quei luoghi selvaggi, ma era per lui, il re delle Scimmie, che batteva il suo cuore? Stando a certe espressioni del suo viso, a certi tratti del suo comportamento, ci sarebbe da pensarlo, e senza eccessivo sforzo.
La versione a fumetti di Russ Manning è bella, ben disegnata, avvincente. Il romanzo di Burroughs è più truculento e storicamente ancora più improbabile e manicheo: basti dire che, all’inizio della storia, Tarzan scopre che una famiglia di suoi amici è stata rapita dai tedeschi i quali, nell’andarsene han crocifisso coi pugnali il fedele servo indigeno sulla porta… Insomma, quando si tratta del Kaiser, ma un po’ della Germania in generale, non c’è limite quanto a calcare le tinte di scuro: i tedeschi, si sa, sono capaci di qualsiasi nefandezza. Ecco perché Tarzan non si fida, sino all’ultimo, di Fräulein Bertha; figuriamoci a innamorarsene. Però, per completare il quadro dei cattivi, bisogna anche rappresentarli come strapotenti. Che gloria ci sarebbe mai stata a raccontar le cose come sono andate per davvero: e cioè che i britannici, in Africa orientale, nel 1914-18 impiegarono qualcosa come trecentomila uomini, per piegare la resistenza di un nemico che non superò mai i dodicimila?
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