
Omaggio alle chiese natie: tempietto di S. Giovanni
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Quando Tarzan era in guerra contro il Kaiser
30 Settembre 2018Ce l’avevamo proprio di fronte a casa: bastava affacciarsi sull’ampia terrazza, al terzo piano di via Gorghi, e lì davanti, oltre le chiome dei pioppi, c’era la chiesetta di san Leonardo, al centro di un piccolo ma fiorente giardino, con alcuni grandi alberi — un abete maestoso, alcuni pioppi e altri ancora — che formavano una graditissima macchia di verde. Così, pur abitando — per alcuni anni — in un appartamento di un grande condominio, in pieno centro, avevamo l’illusione che un po’ di natura fosse ancora lì, a portata di mano; e nelle giornate di vento, a marzo, dopo la pioggia, giungeva un delizioso profumo di terra bagnata e di giovani piante in germoglio. La sera, nella luce incerta del tramonto — certi tramonti d’inverno, gialli e rossi come nelle alte latitudini — guardare verso quel giardino e respirare quel profumo di terra era come vedere, con gli occhi della mente, altri paesaggi e altri orizzonti; era come avere la campagna sotto il portone di casa. Quella chiesetta, però, che non pareva neanche una chiesetta, ma un piccolo edificio un po’ misterioso, non l’avevamo mai visitata; e nel giardino non eravamo mai entrati, perché la grande cancellata in ferro battuto, all’angolo di via Carducci, era sempre chiusa. Quel che si poteva scorgere era un gruppo di case moderne, tutto intorno al muro di recinzione, sicché quell’edificio aveva l’aspetto un po’ incongruo di una conchiglia abbandonato sulla spiaggia dalle onde del mare. Era come mancasse qualcosa. Solo molti anni più tardi, ormai trasferiti in un’altra città e in un’altra regione, abbiamo capito da cosa derivava quella sensazione d’incompletezza: quella era la cappella gentilizia di una villa che, nel frattempo, era stata abbattuta: la villa non c’era più, non c’era più la dimora di quei signori che avevano voluto avere una cappella personale, dove assistere alle sacre funzioni in forma privata; la cappella, invece, aveva resistito alle offese del tempo e degli uomini, ed era rimasta lì, al suo posto, ritta come una sentinella, in quel giardino che ormai non faceva più da sfondo alla casa dei proprietari, e quindi era rimasto orfano, a sua volta, proprio come lei. Eppure anche così mutilate del loro scenario architettonico e della loro funzione originaria, la cappella e il giardino erano stati sufficienti ad alimentare i sogni della nostra infanzia, perché alla fantasia di un bambino basta offrire un piccolo frammento di realtà e lui ci costruirà intorno tutto il resto, tutto quello che non si vede e che non c’è più, o che forse non c’è mai stato – e anche qualcosa di più. L’essenziale è invisibile agli occhi, diceva, per bocca del Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry, ed è verissimo, specialmente per i bambini. Purché i bambini siano dei veri bambini, e non dei tristi, precoci vecchietti, ai quali un’educazione consumista e scriteriata e l’opera nefasta della tecnologia elettronica non abbiano rubato la capacità di giocare e di sognare, cioè non abbiano rubato loro l’infanzia.
La chiesetta di San Leonardo era la cappella gentilizia del palazzo Arcoloniani, più tardi denominato palazzo Codroipo e Gropplero, edificata, come dice una iscrizione al numero 4 di via Gorghi (il cui toponimo, attestato fin dal 1258, ricorda la presenza di una raggia, ricoperta nella seconda metà del XX secolo), nel lontano 1363, il che ne faceva una delle chiese più antiche della città. Il nobile Leonardo Arcoloniani aveva una speciale devozione per il santo del quale portava il nome, e per questa ragione aveva voluto dedicare a lui la chiesetta; inoltre aveva chiesto e ottenuto dall’arcivescovo, Raimondo della Torre — si era ancora in pieno governo dei patriarchi di Aquileia, il dominio della Serenissima sarebbe arrivato mezzo secolo dopo — di poter far celebrare la santa Messa ogni giorno; in cambio, ogni anno, a Natale, lui e i suoi successori avrebbero donato alla chiesa di Santa Maria Maggiore, cioè il duomo di Udine, un cero di cera bianca del peso di tre libbre. A proposito: il santo in questione è San Leonardo di Noblac, noto anche come San Leonardo il Confessore, di Limoges, in Francia (nato circa nel 496 e morto nel 545 o forse nel 559), un abate veneratissimo nei secoli dell’alto e del basso medioevo, il quale condusse visse da eremita per gran parte della sua esistenza, e che è ricordato nel calendario dei santi il 6 novembre. A quei tempi via Gorghi, o meglio via dei Gorghi, come si chiamava un tempo, perché affacciata sulla roggia di Palma, così come le attuali via Piave e via Crispi, non era affatto una via centrale, ma si trovava proprio sul margine esterno della città, presso la terza cerchia di mura, quelle costruite appunto dal patriarca Raimondo della Torre, nel 1291; la quarta sarebbe seguita solo nel 1383, inglobando la via dei Gorghi; e la quinta, l’ultima, nel 1463, in pieno periodo veneziano. Per tre secoli e mezzo la chiesetta di San Leonardo sopravvisse a guerre, pestilenze e terremoti, finché, ai primi del XVIII secolo, le sue condizioni si erano talmente deteriorate, che si rendeva necessario un radicale intervento di restauro. Ciò fu fatto nel 1714, ed è allora che essa ha assunto la veste architettonica nella quale possiamo vederla ancora oggi. Nel 2008, quando la chiesa, ovviamente sconsacrata, era la sede della Fondazione Morpurgo Hoffmann, dalla quale dipende la casa di riposo La Quiete, fu eseguito un nuovo importante restauro, nel rispetto delle linee originali. La ragione per cui questo piccolo edificio è stato sempre amorevolmente conservato, mentre il resto del palazzo veniva abbattuto, in seguito a un incendio scoppiato nel 1938, risiede in una specificità che, probabilmente, moltissimi udinesi ignorano: che essa ospita una ciclo di affreschi di un pittore barocco piuttosto importante, il comasco Giulio Quaglio il Giovane (1668-1751), autore anche di numerose altre opere nel capoluogo friulano, delle quali abbiamo a suo tempo parlato (cfr. il nostro articolo Ricordo di Giulio Quaglio, pittore barocco che ha lasciato tante opere a Udine e in Friuli, pubblicato sul sito del’Accademia Nuova Italia il 10/10/17). Le sue opere si trovano sparse sia in alcune chiese che in palazzi privati: ricordiamo gli affreschi del Palazzo Strassoldo del 1692; del Palazzo della Porta, sede della Curia arcivescovile, e relativa cappella privata, nel 1692-3; della Cappella del Monte di Pietà, del 1694; del Palazzo Piccoli (oggi Attimis-Maniago) nel 1696; del Palazzo Antonini-Belgrado nel 1697; e, infine, della Chiesa di Santa Chiara, nel 1699. Ebbene, venticinque anni dopo, di ritorno da un viaggio di lavoro nel Carso goriziano, il Quaglio fece ritorno a Udine per restaurare gli affreschi da lui stesso eseguiti nella Cappella del Monte di Pietà, e, in quella occasione, partecipò, appunto, alla decorazione della Chiesa di San Leonardo: era il 1724, dieci anni esatti dopo il restauro settecentesco (cfr. anche l’articolo di Michela Zanutto, Sulle orme di Giulio Quaglio, fra palazzi e chiese a Udine, su Il Messaggero Veneto del 24/03/10, edizione online).
Le vicende storiche della chiesetta votiva di San Leonardo ci hanno riportato molto indietro nel tempo, all’epoca in cui Udine era ancora la capitale dello Stato patriarchino, in quanto residenza del patriarca friulano (Aquileia lo era solo nominalmente e Cividale lo era stata solo per un periodo), e una bella fetta del’attuale centro storico, comprendente l’attuale via dei Gorghi, si trovava al di fuori della mura cittadine ed era, perciò, zona suburbana, attraversata dalla rapida e limpida corrente della roggia di palma: l’epoca in cui Boccaccio vide la città di Udine, o ne sentì parlare da qualche mercante fiorentino, e vi ambientò una novella del suo Decameron, quella di Madonna Dianora (giornata decima, novella quinta), che incomincia come se fosse una fiaba: In Friuli, paese quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora… (cfr. il nostro articolo Il giardino d’inverno, pubblicato sulla rivista Graal, n. 9, maggio-giugno 2004 e poi, ampliato, sul sito dell’Accademia Nuova Italia, il 25/03/18). Sorto come cappella gentilizia, attesta la munificenza di una classe dirigente che sapeva unire l’utile al bello e l’interesse privato a quello pubblico: alla faccia dei radicati pregiudizi sul "buio medioevo", i signori del XIV secolo costruivamo, accanto ai loro palazzi, delle chiese che hanno sfidato i secoli e che, abbellite dalle opere di pittori e scultori di pregio, sono arrivati fino a noi, conferendo una nota di gentilezza alle nostre città moderne. Quel che non sanno fare i ricchi dei nostri giorni, lasciare alla comunità i cui vivono e alle generazioni future qualche bene che sia anche di pubblica utilità, qualche opera che abbellisca il panorama urbano e che contribuisca ad arricchire la spiritualità, loro lo facevano senza farsi tanto pregare. E se oggi, in mezzo ai condomini anonimi e alle brutte costruzioni di cemento, in mezzo al traffico disordinato delle automobili e ai rumori di una città che sempre meno assomiglia al luogo in cui vive una vera comunità organica e sempre più a un insieme caotico di soggetti che si ignorano e si sovrappongono, inseguendo ciascuno, in maniera anarchica e individualista, un proprio miraggio di benessere e di felicità, vediamo sbocciare, come un fiore tra le pietre, una piccola meraviglia del passato, antica di secoli, come la chiesetta di san Leonardo, non lo dobbiamo alla generosità o alla lungimiranza dei ricchi dei nostri giorni, né dell’amministrazione comunale, ma al gesto di un nobile quasi dimenticato del 1300, del quale a stento è sopravvissuto il nome. Nel frattempo la sua dimora gentilizia è scomparsa, e di essa sono sopravvissuti solo il giardino e, appunto, la chiesetta: due lasciati preziosi per i posteri, dato che i cittadini possono ancora ammirare l’edificio con gli affreschi di Giulio Quaglio, e i proprietari di cani possono portare a spasso il loro amico a quattro zampe in quell’angoletto di verde fra le case (oggi e non cinquant’anni fa, perché, ripetiamo, allora il giardino era chiuso al pubblico, anche se era ugualmente bello da vedere). Tutto questo, ci sembra, contiene una lezione: uomini come Leonardo Arcoloniani erano uomini che sapeva vivere, perché sapevano che non si vive in eterno, ma bisogna, prima o dopo, presentarsi davanti a Dio; e che il senso della propria vita risiede anche nel fare qualcosa di buono e di bello a vantaggio degli altri, perché sono quelle le cose con le quali l’anima si presenta al Giudizio, e, se non ne possiede alcuna da mostrare, non avrà nemmeno qualcosa con cui bilanciare i propri peccati, e sarà perduta. È perduto chi vive pensando solo a se stesso, preoccupandosi solo di soddisfare i propri desideri; è salvo chi ha compreso che la vita è fatta per amare, ma per amare davvero, cioè per aiutare gli altri a realizzare la loro parte migliore. Perciò costruire una chiesa significa costruire qualcosa di spirituale, un bene incommensurabile per le anime; costruire solo supermercati, centri commerciali e sale giochi permette di realizzare dei lauti profitti, ma non è di giovamento interiore ad alcuno, né a chi li possiede e li gestisce, né a chi vi si reca per inseguire i tristi rituali del consumismo. Gesù Cristo ha ammonito (Matteo, 6, 19-21): Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. E ancora (Matteo, 7, 21-27; cfr. Luca, 6, 46; 13, 25-27): Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande.
In un certo senso è buffo, è sorprendente. Noi moderni, figli dell’illuminismo e del positivismo, siamo così fieri e orgogliosi della nostra "civiltà" che ci permettiamo di denigrare il passato, di disprezzare la tradizione; non parliamo poi dei cattolici "moderni", per non dire modernisti (ma a quel punto non staremmo più parlando di cattolici) debitamente progressisti, buonisti, ambientalisti, immigrazionisti e dialoganti, beninteso dialoganti con l’universo mondo e specialmente coi nemici di sempre della Chiesa, tranne che coi loro confratelli che non condividono tutte queste "aperture", anche perché non hanno mai fatto parte del Magistero, per la bellezza di millenovecento anni; però l’evidenza ci mostra quanto siamo piccoli e meschini, quanto sono limitate le nostre aspirazioni, quanto sono asfittici i nostri sogni. Noi non sappiamo più pensare in grande, sentire in grande, amare in grande: siamo diventati come dei nani che amano, sentono, pensano in piccolo. Dei nostri discendenti non ci preoccupiamo; non pensiamo neppure ai nostri figli, al mondo in cui vivranno: ci basta pensare a noi stessi. I nostri nonni avevano fatto la terza o al massimo la quinta elementare, però in confronto a noi erano dei giganti: avevano un cuore grande, non mettevano i loro genitori in casa di riposo, non lasciavano che i nipoti orfani andassero in orfanotrofio: si prendevano in casa gli uni e gli altri. E pensavano a Dio. Come ci siamo rimpiccioliti, come ci siamo rattrappiti! Con tutti i nostri gingilli firmati e con tutta la nostra tecnologia elettronica, siamo dei poveracci, siamo meno che dei pezzenti accanto a loro. Non abbiano capito nulla del segreto del vivere; viviamo come analfabeti; arriviamo alla morte senza esserci mai fatti le domande essenziali. Allorché saremo pesati, risulteremo ben scarsi. Quando ci desteremo da questo sonno e apriremo la mente e il cuore?