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Dobbiamo tornare a parlare della virtù e del vizio

La società odierna, la società che noi abbiamo costruito, e che, in una certa misura, abbiamo subito, ma alla quale comunque apparteniamo per avervi fatto il nostro apprendistato, i nostri studi, la nostra carriera, i nostri amori e la nostra famiglia, ha completamente abdicato alla propria funzione educante: ai bambini e ai giovani, oggi, gli adulti hanno smesso di insegnare qualcosa, semplicemente perché non hanno più uno straccio di progetto educativo. Dopo le ubriacature della contestazione, del Sessantotto e, in genere, delle utopie di sinistra, gli adulti non sanno che dire, per cui sovente si sono ridotti a fare da parcheggiatori dei figli più piccoli (all’asilo o davanti alla televisione) e da bancomat per quelli più grandicelli: senza autorevolezza, senza credibilità, senza neppure un poco di dignità. La scuola, da parte sua, fa anche di peggio: si è trasformata in un’agenzia di diseducazione, con tanto di militanti LGBT che scorrazzano dentro e fuori, reclamizzando le meraviglie della identità sessuale fluida fra i bambini di quattro, cinque e sei anni, insinuando in loro il dubbio che, se maschietti, forse sarebbe più bello essere femminucce, e viceversa, dopo di che basta dire: Mamma, voglio cambiare sesso!, e i servizi sanitari pubblici sono lì, fatti apposta per soddisfare una così legittima e sacrosanta richiesta. No, non bisogna aspettarsi più nulla dalla scuola pubblica, e, in verità, neppure da quella privata: non è una scuola privata, l’università cattolica di Lovanio, in Belgio, quella che ha licenziato il professor Stéphane Mercier, reo di aver parlato in termini poco entusiastici del legittimo diritto di aborto, pardon, d’interruzione volontaria della gravidanza? Tranne alcune lodevoli, anzi, eroiche eccezioni, la maggioranza degli insegnanti, maestre e professori, sono ormai completamente omologati al politically correct: basta fare un stranuto fuori dal politicamente corretto e subito s’inalberano, scattano, mordono, come al cane di Pavlov viene l’acquolina in bocca non appena ode trillare il campanello, per un riflesso condizionato. E mentre nessuno s’indigna, nessuno protesta, né alza la voce, anche tra le esigentissime famiglie, se una professoressa incita i suoi studenti di liceo ad andare alle manifestazioni di piazza, al fianco dei centri sociali e a favore dell’immigrazione selvaggia, e soprattutto contro il fascismo, l’eterno fascismo — Dio non voglia che ritorni il fascismo! – e li rimprovera se si mostrano tiepidi e poco sensibili al problema, e restii ad indossare le magliette rosse di protocollo, si scatenerebbe il finimondo se ai ragazzi venisse detta una parola diversa, se udissero — non sia mai — una voce contraria, da parte di un insegnante: una voce fuori dal coro. Così, quando — per fare un esempio — un certo professore di una scuola superiore di San Donà di Piave (provincia di Venezia), due anni fa, si presentò in classe in parrucca sgargiante, minigonna inguinale, calze a rete e tacchi a spillo, non è successo assolutamente nulla, anzi il preside, interpellato dalla stampa, ha risposto, senza batter ciglio, né scomporsi per così poco, che il comportamento di quel professore rientrava nella linea educativa dell’istituto, che è quella dell’inclusione. Inclusione! Ecco una delle parole magiche, delle parole truffa, delle parole malefiche che ormai corrono sulla bocca di tutti per contrabbandare i comportamenti più inadeguati, le scelte più balorde, i discorsi più opinabili e le filosofie di vita più disordinate.

Dunque, bisogna ripartire dalle famiglie. È solo dalle famiglie – quelle vere, intendiamoci, quelle naturali, non quelle altre, quelle orride contraffazioni della famiglia che vanno sotto il nome di famiglie arcibaleno — che deve partire la riformulazione di un vero progetto educativo, degno di questo nome. È necessario che i genitori, naturalmente in primo luogo con l’esempio della loro vita, poi anche con i discorsi, tornino a parlare ai loro figli del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, della virtù e del vizio. Come ai tempi del libro Cuore di De Amicis? Sissignore: come ai tempi del libro Cuore. Fateci caso: è anche un fatto numerico e statistico. Quante volte, nel corso ella giornata, sentiamo parlare di omosessualità, di droga, di violenza, di pornografia, di diritti da riconoscere a questo e a quello, di libertà intesa in senso illimitato, di fare della propria vita quel che si vuole; e quante volte sentiamo chiamar le cose con il loro nome, dal punto di vista schiettamente morale: virtù, le virtù, e vizi, i vizi? Se chiedessimo a un tredicenne, a un quindicenne, a un diciassettenne, di spiegarci che cosa significa la parola "vizio", che cosa saprebbe rispondere? E se gli chiedessimo di dirci, con le sue parole, che cosa è la "virtù", ne sarebbe capace? O annasperebbe e farfuglierebbe chissà quale risposta confusa, contraddittoria e incomprensibile? E allora dobbiamo dirlo e spiegarlo, ai bambini e ai ragazzi, che cos’è il vizio e che cos’è la virtù. Bisogna far capire loro che il vizio è l’abitudine a fare il male, e la virtù è l’abitudine a fare il bene. Che i vizi capitali sono sette: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia; e che anche le virtù capitali sono sette: umiltà, opposta alla superbia; generosità, opposta all’avarizia; castità, opposta alla lussuria; pazienza, opposta all’ira; sobrietà, opposta alla gola; fraternità, opposta all’invidia; diligenza, opposta all’accidia. E che per il cristiano, al di sopra di queste, che sono frutto della natura e della volontà, ce ne sono altre sette, di origine soprannaturale: le tre teologali, la fede, la speranza e la carità; e le quattro cardinali, la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Bisogna inoltre far capire ai giovanissimi che virtuoso non è colui che compie un atto buono ogni tanto, ma chi vive una vita costantemente orientata verso il bene: e che tale traguardo è possibile, è raggiungibile, purché si accompagni alle sette virtù soprannaturali, che sono infuse e rafforzate dalla grazia divina, e non si debba far conto unicamente sulle virtù naturali, che non basterebbero, se non a riconoscere il bene, forse anche a volerlo, ma non ad attuarlo e a perseverare in esso, senza mai deflettere e senza stancarsi o scoraggiarsi. Bisogna far capire al bambino, senza drammatizzare eccessivamente, ma anche senza troppo edulcorare la realtà, che la vita non è uno scherzo, ma una guerra: una guerra del bene contro il male; e che ciascun essere umano è chiamato a parteciparvi, né ad alcuno è riservato il discutibile privilegio di restarsene neutrale. Bisogna scegliere e prendere posizione nell’uno o nell’altro schieramento: e se per caso qualcuno si rifiuta di farlo, automaticamente finirà per trovarsi "arruolato" dalle forze del male, perché l’inerzia davanti a quest’ultimo, che è l’accidia, è, appunto, un vizio, e quindi una forma di male. Bisogna fargli capire, inoltre, che nessuno di noi è solo, in questa lotta; che nessuno deve combatterla con le sue sole forze. Chi si batte per il bene, appartiene alla comunione dei Santi e può contare sull’aiuto dei vivi e anche delle anime buone passate alla vita eterna, nonché delle potenze angeliche e, in ultima istanza, di Dio stesso; chi sceglie il male, godrà del sostegno di tutti i malvagi, anche di quelli che non conosce fisicamente, perché pure nel male esiste una sorta di malefica "comunione", e, quel che è più tremendo, avrà dalla sua le potenze tenebrose dell’inferno, le quali non danno il loro aiuto alle anime se non per perderle e trascinarle a sicura rovina. E basterebbe già questa semplice riflessione per capire che, nonostante tutte le difficoltà che i buoni devono affrontare nella vita terrena, conviene sempre stare dalla parte del bene, perché la paga dei malvagi è, in ogni caso, la dannazione eterna: prospettiva spaventosa, della quale oggi si parla poco e niente, dacché la neochiesta ha deciso di occultare la terribile realtà dell’inferno e di cullare tutti quanti nella funesta illusione che, alla fine, Dio sarà talmente largo di manica da perdonare tutti e da premiare tutti con la beatitudine eterna, anche quei malvagi che, dopo una vita di vizi abominevoli e di atroci delitti, sono scesi nella tomba senza mostrare neppure un’ombra di pentimento per le scelleratezze compiute. Ma questa, sia ben chiaro, è una blasfema contraffazione del Vangelo. Quante volte Gesù ha ammonito che, per i peccatori impenitenti, non vi sarà alcuna misericordia, e che il Padre celeste, nel giorno di giudizio, dirà loro: Via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, dove sono tenebre e stridore di denti?

A queste tanto semplici considerazioni la società moderna, imbevuta di cultura irreligiosa, materialista ed edonista, reagisce in due maniere: da un lato, sul piano intellettuale, instillando nelle menti il veleno del relativismo: chi può dire cosa è il bene e cosa è il male? Il bene, quello che per me è il bene, essa dice, potrebbe non essere tale per il mio vicino: e allora, chi farà da giudice fra me e lui? Non esiste una tale istanza superiore: dunque, la decisione finale verrà determinata dalla forza, o dall’astuzia: il più forte o il più astuto farà quel che vorrà, anche ai danni del prossimo, e chiamerà il suo agire "bene", e chiamerà "male" l’agire altrui. Non è forse una verità lapalissiana che la storia, da sempre, viene scritta appunto dai vincitori, e che i vinti non hanno voce, e devono subire, oltre alle conseguenze della sconfitta, anche il carico di responsabilità per quel che è accaduto, delle lotte che ci sono state, delle vittime innocenti che hanno sofferto? E sul piano morale, la cultura moderna suggerisce che nessuno è capace di fare sempre il bene; che un tale programma di vita è superiore alle nostre forze (il che è vero, ma perché la cultura materialista non prende neanche in considerazione l’ipotesi di domandare aiuto a Dio); e che, se pure qualcuno fosse capace di avvicinarsi, tra mille stenti a pericoli, ad un simile ideale, il prezzo da pagare sarebbe la rinuncia ad ogni gioia terrena, ad ogni legittima aspirazione umana e ad ogni speranza di trovare quel poco di felicità verso cui tutto il nostro essere anela. Sono entrambi dei sofismi, però funzionano, perché moltissime perone non sono più abituate a ragionare; e soprattutto perché sono totalmente svirilizzate dallo stile di vita consumista, del quale sono diventate dipendenti, come il drogato lo è dalla sua razione di eroina; e, di conseguenza, non hanno né gli strumenti per rendersi conto dell’inganno, né la volontà per reagirvi. Alla prima obiezione, quella intellettuale, si può facilmente rispondere che il relativismo può mettere in dubbio il riconoscimento della verità, non la verità in se stessa, la quale è, sì, un atto della coscienza — la corrispondenza fra la cosa e il giudizio — ma è anche, per ciò stesso, un fatto, come lo è la mela che san Tommaso d’Aquino poneva sulla cattedra, invitando ad uscire quelli che non fossero d’accordo con il fatto che essa era, appunto, una mela e non qualcosa d’altro: perché i fatti non si possono mettere in dubbio, a meno di proclamare che solo la follia ha il dritto di cittadinanza in questo mondo. La verità del bene, pertanto, indubitabilmente esiste; il problema, semmai, è quello di riuscire a vederla e attuarla. E questo ci porta alla seconda obiezione, quella etica: l’asserita difficoltà, impossibilità e inutilità di perseverare nel bene, in un mondo che premia i cattivi e che nega ogni legittima soddisfazione ai buoni. A questa seconda obiezione si può rispondere che una difficoltà, o una supposta impossibilità, non sono sufficienti a modificare la legge universale, secondo la quale tutti sono tenuti a fare il bene e a sforzarsi di essere virtuosi, cioè di farlo non occasionalmente, ma sempre, mentre a tutti è proibito di fare il male. Contra factum non valet argumentum. Se la verità esiste, esiste anche il bene; e il fatto che non sia cosa facile riconoscerlo, e soprattutto attuarlo, non dispensa alcuno dal dovere di farlo comunque, facile o non facile che sia, possibile o impossibile.

Ma come!, e qui i relativisti pregustano già il loro trionfo, ci si domanda forse di fare l’impossibile? Ad impossibilia nemo tenetur, diranno, fregandosi le mani per la soddisfazione, felici di averci colti in flagrante contraddizione. Quel che non hanno considerato, però, è che qui non stiamo parlando solo delle virtù morali naturali, quelle che l’uomo possiede da se stesso e che può, eventualmente, rafforzare e disciplinare con la forza di volontà: perché, come abbiamo già detto, se agli uomini si chiede di fare sempre il bene, tali virtù non sono però sufficienti. Ci vuole qualcos’altro; ci vuole la grazia divina. Per mezzo della grazia, l’uomo acquista una forza, una saggezza, una prudenza, una intrepidezza e una perseveranza che non potrebbe mai darsi da solo, neppure dopo una vita intera di esercizio. Quel che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio: sono le parole con le quali Gesù ha replicato a coloro i quali gli facevano osservare che le forze umane non sono sufficienti a resistere alle tentazioni della carne. Ed ecco perché Gesù pregava moltissimo, ogni volta che era possibile, e raccomandava ai suoi segaci di seguire il suo esempio: pregare sempre, fervidamente, con fiducia filiale, senza mai stancarsi. Per mezzo dell’aiuto di Dio, il timido diventa coraggioso, il pigro diventa alacre, l’avaro diventa generoso, il superbo diventa umile. È Dio che fa, non l’uomo. Ma c’è anche un altro aspetto da tener presente. Secondo il modo di pensare del mondo, impegnarsi a divenire virtuosi è non solo fatica sprecata, è anche un privarsi delle gioie della vita; ebbene, occorre rovesciare questo punti di vista. Esso è paragonabile a un uomo abituato a vivere nella penombra, il quale, accecato da un raggio di luce, proclami che la luce è una cosa cattiva, perché ferisce la vista; quando, però, i suoi occhi si sono abituati ad essa, allora e solo allora egli si rende conto che la luce è una cosa buona, e che le tenebre, nelle quali trascinava la sua esistenza sono una cosa cattiva. Allo stesso modo, per apprezzare la virtù bisogna cominciare ad esser virtuosi: non per nulla la saggezza popolare afferma che la virtù è premio a se stessa. Un poco alla volta, procedendo nell’abitudine a fare il bene, l’anima si accorge che solo così è felice, si sente appagata, né vorrebbe tornare indietro, al buio, neanche se qualcuno le svolgesse innanzi un soffice invitante tappeto rosso.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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