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Omaggio alle chiese natie: il Cristo

La chiesa del Cristo? Ma certo: ecco, deve andare dietro la stazione ferroviaria, la chiesa del Cristo è là, in via Marsala, a Gervasutta. Così, pensiamo, un cittadino udinese di oggi risponderebbe a un turista il quale gli chieda indicazioni per raggiungere la chiesa del Cristo. Certo, non avrebbe torto. Solo che la chiesa del Cristo, decisamente moderna, è stata trasferita nella sede attuale nel 1927, dall’allora arcivescovo Anastasio Rossi, e ha conservato l’antica intitolazione, ma in origine sorgeva in tutt’altra zona della città. Anticamente aveva sede in un edificio del largo Ospedale Vecchio, di fronte alla chiesa di San Francesco, ma con la facciata rivolta alla Via Odorico da Pordenone. Monsignor Rossi la vendette al Comune e col ricavato, più le offerte dei fedeli e un sostanzioso contributo della famiglia Modotti, poté acquistare il terreno a Gervasutta e costruire la nuova chiesa, molto più grande della precedente, per le esigenze degli abitanti di un nuovo quartiere che si stava espandendo al di là della linea ferroviaria Venezia-Trieste. La primitiva chiesa del Cristo era stata eretta su donazione dei nobili fratelli Savorgnan e aveva le funzioni di oratorio per l’adorazione delle piaghe del nostro Signore Gesù Cristo. Essa era la sede di una confraternita del 1500, la confraternita del Santissimo Crocifisso, nata per impulso di un pellegrino che aveva ammirato una icona che lo aveva particolarmente impressionato, anche se popolarmente l’edificio era noto soltanto come chiesa del Cristo. Il parroco di essa aveva il titolo di rettore o cappellano e vari nomi illustri si segnalano nei suoi archivi, ma fra tutti spicca quello di monsignor Francesco Tomadini, benefattore in aria di santità, fondatore dell’orfanotrofio che sorgeva nella via dedicata, a lui, che fu rettore per ben quarantasette anni, come riportato nel Dizionario biografico dei friulani, il Nuovo Liruti online. La confraternita esiste ancora e si è trasferita essa pure nella nuova chiesa; si riunisce ogni primo venerdì del mese nella cripta: bell’esempio di continuità di una tradizione antichissima, legata alla spiritualità dei laici e all’apostolato della preghiera e dell’adorazione (si veda l’articolo di Giuseppe Capoluongo su Il Messaggero Veneto del 18/02/2008). La vecchia chiesa del Cristo, dopo la vendita del 1926, fu per molti anni adibita a palestra, mentre di recente, dopo aver subito ampi lavori di ristrutturazione, è diventa sede di manifestazioni culturali, come del resto la dirimpettaia ex chiesa di San Francesco.

La cosa significativa è che neppure la presenza di una confraternita antica di almeno cinque secoli è valsa a rinverdire la memoria della cittadinanza e a rinsaldare il legame col passato. Lo diciamo per esperienza personale: abbiamo frequentato il primo anno delle superiori, l’ultimo vissuto in città, in una scuola che allora aveva sede praticamente di fronte alla chiesa del Cristo, e non ci eravamo mai accorti che quell’edificio fosse… una chiesa. E questo nonostante i due bei portali seicenteschi, uno sul largo dell’Ospedale Vecchio, l’altro sull’ultimo tratto di Via Odorico da Pordenone; ma neppure uno straccio di targa o una qualsiasi indicazione segnalava la cosa, e nessun professore ce ne ha mai parlato. Questo la dice lunga su quanto gli italiani amino le loro radici, su quanto poco siano coscienti della loro importanza per avere una identità. Certo, in Italia la ricchezza del patrimonio storico e artistico è talmente esuberante, talmente sbalorditiva, che ogni città e ogni quartiere, ogni villaggio è, più o meno, un museo a cielo aperto; e non c’è chiesa che non contenga qualche opera illustre, non c’è palazzo del ‘600 o del ‘700 che non meriti di essere ammirato e visitato. Nessuno pretende di bloccare l’edilizia e la crescita urbanistica per trasformare l’Italia in un enorme museo, però questa ricchezza straordinaria esige una sensibilità, una cultura, e soprattutto una consapevolezza, che urbanisti e amministratori pubblici, molto spesso, mostrano di non avere. Che bisogno c’era di abbattere l’antica Porta San Lazzaro, per esempio, che non era affatto pericolante? Eppure venne abbattuta, nel 1955, semplicemente per "esigenze di viabilità". E che bisogno c’era di abbattere l’antica chiesa di Santa Maria Maddalena, in pieno centro? Nessuna; la si sarebbe potuta restaurare, ma si preferì buttarla giù per far posto al nuovo Palazzo delle Poste, nel 1921. E si potrebbe continuare. C’era bisogno di coprire quasi tutte le rogge cittadine, negli anni ’50, che davano un aspetto tanto caratteristico ai vecchi borghi? E la chiesa di San Pietro e Paolo, in borgo Aquileia; e la chiesa di San Nicolò, all’angolo di via Zanon e via Viola (oggi via Muratti), era proprio indispensabile abbatterle? Non erano forse un pezzo di storia, per non parlare della loro bellezza e, naturalmente, del valore spirituale, che è inestimabile? E se si è proceduto con tanta insensibilità nei confronti di opere importanti, innumerevoli sono stati i delitti minori, dei quali solo gli abitanti delle case vicine sono stati testimoni. C’era una bella fontana all’angolo di via Villalta e via Baldissera: che fine ha fatto, chi ha deciso di asportarla, dov’è andata? E perché nemmeno una targhetta ricorda, in via Tomadini, la chiesetta settecentesca dedicata a San Girolamo Emiliani? E come mai quasi nessuno sa che esiste ancora il convento di San Francesco della Vigna, anche se la chiesa non c’è più? E perché nessuna indicazione segnala la chiesa di San Vincenzo de’Paoli, in via Morpurgo, attualmente utilizzata dagli ortodossi serbi? Anche di quella, siamo pressoché certi che novantanove udinesi su cento non ne hanno mai neppure sentito parlare. E della chiesetta delle suore della Carità, in via Rivis, qualcuno ne sa qualcosa, a parte i residenti? E perché nemmeno un cartello segnala al turista il nome del Palazzo Montegnacco-Berghinz-De Concina, all’angolo di via San Lazzaro e Via Mantica? Eppure è uno dei più bei palazzi seicenteschi della città: anche il visitatore più distratto non può non restarne colpito, tanto più che si trova in una posizione talmente scenografica che è impossibile non vederlo, già da lontano. E i vecchi mulini delle rogge, fuori le mura, come quello di Viale Volonari della Libertà, perché non si dedicano tutte le attenzioni alla loro manutenzione e alla pulizia dei corsi d’acqua? Anch’essi sono un pezzo di storia, una testimonianza inestimabile di come si viveva e di come si lavorava sino a poche generazioni fa. Quando saranno caduti in rovina e resteranno solo le fotografie, avremo perso un altro capitolo della nostra storia, un altro tassello della nostra identità. Saremo come quei bambini che non sanno dire che mestiere fa il nonno, anzi, che non sanno dire nemmeno che lavoro fanno i suoi genitori. Lasciamo andare il passato come si lascia andare un vestito vecchio: che se lo mangino le tarme, tanto non serve più. Stessa cosa per il dialetto e per la stesa lingua italiana. La figlia di un nostro caro amico, sposata ed emigrata all’estero, non ha mai insegnato una parola d’italiano ai suoi tre figli. Risultato: quando i bambini vengono, assai raramente, in Italia (non è un viaggio breve quello dall’Australia), non capiscono una parola e domandano, indicando il nonno: Ma chi è quel signore? In compenso, passano le ore coi giochi elettronici e non s’interessano a nient’altro.

Che cosa è più importante: aprire un nuovo centro commerciale o preservare la memoria di quello che siamo stati? Senza la memoria di se stessi, svanisce anche l’identità: si perde la coscienza del proprio essere, si fluttua nel vuoto, si va a finire nel nulla. Ma se non c’è rispetto dell’arte e del passato, non c’è nemmeno il senso del tempo: la vita si riduce a uno shopping, a una navigare in rete, a uno scambiarsi continuamente messaggini telefonici, anche andando in bicicletta, anche in automobile, anche in treno o in autobus: decine, centinaia di messaggini al giorno, per non dirsi nulla, assolutamente nulla. Forse, a scuola, gli insegnati farebbero bene a non ignorare la storia e l’arte dei luoghi in cui vivono gli allievi, e soprattutto a non dare per scontato che ne sappiano qualcosa: perché, in realtà, non ne sanno nulla. Anche molti insegnanti, temiamo, ne sanno poco o niente: è più facile parlare dei massimi sistemi, oppure della pena di morte, o dell’ecologia, o dei migranti e della cosiddetta accoglienza: così tutti possono dire la loro, perché credono di avere un’opinione. La città di Udine ha voluto e ottenuto l’università, nel 1978 (ma ce n’era bisogno? sappiamo di dire un’autentica bestemmia, che manderà sulle furie gran parte dei friulani, ma il dubbio ce l’abbiamo e ce lo teniamo), però le nuove generazioni non sanno niente della loro città, né hanno mai sentito parlare del tram bianco o del tram verde; e nessuno ha mai parlato loro del Cinema Eden, una meraviglia architettonica in stile liberty, abbattuta così, per capriccio e sciatteria, da un giorno all’altro, nel 1958 (aveva poco più di trent’anni), per fare posto ai grandi magazzini della U.P.I.M. Una scelta molto intelligente, vero? Senza memoria, senza identità, senza coscienza di quel che si è, non si va da nessuna parte: si scompare, letteralmente. E si viene sostituiti, perché il vuoto attira il pieno, e le case vuote attirano nuovi abitanti, venuti da fuori, così come le chiese vuote attirano nuove confessioni religiose e nuovi fedeli. Diverse chiese cittadine sono attualmente officiate dal clero ortodosso, nelle sue varianti russa, romena, serba: quella di San Giacomo, in pieno centro; quella di San Bernardino, che era la chiesa del Seminario arcivescovile (trasferito altrove, armi e bagagli, e comunque accorpato con quelli di Gorizia e Trieste), la chiesa del collegio Renati e quella di San Vincenzo de’ Paoli. Certo, sono arrivate le badanti dell’Europa dell’Est: ma il fatto è che loro, a Messa, ci vanno; noi, no. La popolazione di Udine aveva toccato e superato i 100.000 abitanti nel 1971, quando l’abbiamo lasciata per sempre; sono passati quarantasette anni, quasi mezzo secolo, ed è leggermente scesa, è un poco sopra i 99.000. Stabile, dirà qualcuno. Niente affatto. Gli udinesi, come tutti gli italiani, del resto, stanno sparendo; i numeri restano quelli di prima per l’arrivo degli immigrati. La crescita degli stranieri è stata costante: 7.900 nel 2005, 13.700 nel 2016 (fonte ufficiale: Comuni-Italiani.it). I gruppi più numerosi vengono da Romania, Albania, Ucraina, Serbia e Kosovo (ed ecco spiegata la faccenda delle chiese), poi dal Ghana, dalla Nigeria, dalla Cina, dalle Filippine e dal Marocco. Insomma, anche Udine sta diventando una città multietnica, perché quasi 14.000 persone su un totale di neanche 100.000 vuol dire, se la maestra ci ha insegnato bene la l’aritmetica, il 14% di stranieri: e infatti, questo è quel che si vede girando per le strade. Gli islamici sono una quota minoritaria, ma sono anche quelli che fanno più parlar di sé. Nel dicembre 2016 una ragazza marocchina è stata sottratta alla famiglia e inserita in una struttura protetta, perché, a scuola, aveva dovuto confessare che la madre l’aveva picchiata di santa ragione. Motivo? Quando usciva di casa doveva indossare il velo, ma arrivata a scuola se lo toglieva, poi lo rimetteva per tornare, finché i suoi l’hanno scoperta e pestata. Si è presentata a scuola con il volto contuso e il labbro spaccato e, per prima cosa, è stata accompagnata per una visita al pronto soccorso. Intendiamoci: non siamo di quelli che si scandalizzano perché un genitore alza le mani su suo figlio: una sberla ben data, e meritata, vale più di cento prediche a vuoto. E non siamo di quelli che chiamano i carabinieri appena sentono il vicino di casa che sta sculacciando il suo bambino. Ma qui il problema è un altro; è un problema culturale: quella madre ha picchiato sua figlia per una ragione precisa, cioè perché desiderava integrarsi; ma integrandosi, avrebbe contravvenuto alla sua tradizione. Un bel pasticcio: quei genitori, dal loro punto di vista, hanno ragione a far valere la loro autorità, anche con le maniere forti: fa parte della loro cultura. Ma non della nostra.

E qui sorgono i problemi. Perché una società i cui membri non riescono a condividere le cose minori, non potrà mediare i conflitti per cose ben più importanti e più urgenti. Può sembrare un episodio minore, e certamente lo è, rispetto a tanti altri ben più gravi, però dà un’idea del genere di situazioni che si creano quando a qualcuno viene in mente d’inaugurare quella meraviglia che è la società multietnica. Peccato che una cosa del genere non esista, non è mai esistita e mai potrà esistere; al massimo, può esistere una società totalmente disgregata, destrutturata, disanimata, formata dalla giustapposizione di diverse culture, nessuna delle quali vorrà integrarsi davvero, se non in maniera apparente e formale (e anche da questo obiettivo minimo, di puro e semplice rispetto delle leggi e delle norme, siamo comunque ben lontani, né forse mai ci arriveremo). Guardiamo la storia del più duraturo Stato europeo, la Repubblica di Venezia: fu potente e gloriosa, prosperò per un migliaio d’anni e non permise mai agli islamici, coi quali pure intensamente commerciava, di costruire una sola moschea nel suo territorio. Ne deriva che i veneziani erano una genia di razzisti, fondamentalisti e intolleranti? No: erano saggi, e avevano acquisito molta esperienza nei rapporti con l’altro. Sapevano quel che si può fare e quel che non si può, né si deve fare; conoscevano l’arte di andare d’accordo con il mondo, con gli ebrei, coi luterani, con i seguaci del Profeta, ma anche quella di dire "no", quando ciò era nel superiore interesse dello Stato. I governanti degli Stati europei moderni sono dei pazzi in libertà o, più probabilmente, dei venduti e dei traditori. Predicano la necessità dell’accoglienza e il dovere della tolleranza, ma stanno consegnando le chiavi di casa a dei nuovi arrivati che non hanno né rispetto, né amore per il Pese in cui s’insediano. I governanti italiani, sopravanzati spesso dal neoclero progressista e di sinistra, brillano su tutti per il loro zelo immigrazioni sta, spinto fino al masochismo e al’autolesionismo. I personaggi più in vista, a cominciare dal presidente della Repubblica e dal capo della neochiesa, levano le loro strida fino al cielo per ogni supposto caso di "razzismo", ma non hanno una parola di biasimo per il razzismo alla rovescia di cui sono vittime gli italiani da tre decenni, abbandonati in balia di situazioni ingestibili…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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