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Omaggio alle chiese natie: San Paolo Apostolo

Con la chiesa di San Paolo Apostolo torniamo a parlare, purtroppo, delle brutte chiese di periferia costruite nel periodo postconciliare. È stata costruita, e subito eretta a parrocchia, nel 1971, per servire un’ampia zona posta fra la parrocchia di Sant’Osvaldo e quella del Cristo, a Gervasutta. Come sede è stata scelta via Modica, una traversa di via Lumigacco, non molto lontano dalla località San Pietro, dove esisteva, alla fine del Duecento, una chiesa, detta di San Pietro in Tavella, appartenente a un monastero di monache benedettine, scomparsi entrambi; rimane solo, nei pressi, una chiesetta della seconda metà del XIX secolo, che l’aveva sostituita, e che oggi è sconsacrata. È difficile immaginare un edificio "sacro" più brutto e insignificante di questo, anche se la sua bruttezza, perlomeno, non è sfacciata e aggressiva come quella di altre chiese costruite negli stessi anni, e la sua anonimità ha qualcosa d’ingenuo rispetto alla fredda, calcolata a-cattolicità di certe altre, che non hanno alcun simbolo religioso e che ostentano l’aspetto di sale-congressi e non di luoghi consacrati ad una fede specifica, quella in Gesù Cristo. Nella chiesa di San Paolo Apostolo si sente una generica volontà di rinnovamento, di "apertura", di "dialogo" con il mondo moderno, e infatti essa riflette una concezione dell’arte sacra tipicamente moderna: costruzione in cemento armato, forme rigorosamente geometriche, parallelepipedi accostati e quasi incastrati l’uno nell’altro, spigoli e superfici spezzate; colpisce l’esiguità della superficie riservata all’illuminazione, che si riduce a pochi finestroni verticali. L’insieme è massiccio, sgraziato, fortemente orizzontale, e tutto questo in una zona periferica caratterizzata da case basse, piena di verde e di aree edificabili perfettamente disponibili, quindi senza alcuna giustificazione di tipo funzionale. Non c’è una ragione al mondo per costruire, in uno spazio così aperto, una chiesa che sembra un fortino, chiusa in se stessa e cinta da un muretto di cemento ancor più brutto della chiesa. Vista da fuori, quest’ultima non fa pensare affatto a una chiesa, semmai a un cementificio o a un grande capannone industriale. Ci vuole molta buona volontà per entrare nell’ordine d’idee che questa sia davvero una chiesa cattolica. L’unico indizio è la grande croce metallica — in questo caso si sono degnati di metterla — sospesa al fianco del portone d’ingresso, su di una facciata lugubre come quella d’un forno crematorio. Ma se si arriva dai lati o da dietro, in nessun modo si capisce che quel blocco di cemento dalle superfici bianche e apparentemente senza finestre, è una chiesa; potrebbe essere benissimo un teatro o un palazzetto dello sport. Né si scorge un campanile, o qualcosa di simile a un campanile, tranne che dalla facciata; anche se c’è, in effetti, o meglio c’è una torre campanaria, ma così ben dissimulata fra i parallelepipedi, che, senza la croce sovrastante, non lo si riconoscerebbe.

Ci rimettiamo alla descrizione "tecnica" del sito www.chieseitaliane.chiesacattolica.it:

Edificio a pianta centrale, in cemento armato a vista, orientato a Sud; risulta dall’accostamento di vari parallelepipedi attornianti il corpo maggiore, cioè la sala assembleare che si articola con quattro bracci cruciformi, raccordati nella copertura troncopiramidale con oculo quadrangolare zenitale, cui si aggiungono altri quattro minori uno in ciascun angolo. Spostato sul lato sinistro del braccio del capocroce si aggrega un ulteriore parallelepipedo dalla copertura troncoconica con oculo quadrangolare zenitale, corrispondente nell’interno al vano della Riserva Eucaristica. Il braccio destro dell’organismo a croce si prolunga nel locale della sacrestia. L’organismo architettonico ha un accentuato orizzontalismo, visibile dall’esterno, e anche all’interno, per la modesta altezza del soffitto. Il prospetto principale si struttura in tre parallelepipedi sfalsati di uguale altezza, dei quali quello di sinistra dalla copertura troncoconica con oculo sommitale e sulla cui facciata è applicata una grande croce in stanghe metalliche, aggetta rispetto al parallelepipedo centrale, che prospetta con uno sporto nel cui interno è il largo portale, e che si distingue anche per le due iscrizioni incise nello spessore cementizio, una al di sopra dello sporto e l’altra in facciata della bassa paratia laterale; il parallelepipedo di destra è in posizione retrostante e ha funzione di torre campanaria in rapporto alla cuspide in barre di metallo con altoparlante centrale. Nella parte retrostante dell’edificio il grande accesso ai locali pastorali ipogei e sul fianco destro l’accesso secondario con gradinata entro spallette cementizie. L’interno a pianta cruciforme ha le pareti in cemento faccia a vista e i bracci si raccordano nella spiccata lanterna a copertura tronco piramidale con oculo sommitale; punti di luce zenitale angolari all’incrocio dei bracci in rapporto ai quattro pilastri doppi e in corrispondenza di ciascun braccio come dei parallelepipedi un aggetto verticale a sezione triangolare con asola vetrata. L’area del presbiterio è nel braccio di fondo, sopraelevata di due gradini, su cui si estende la base dell’ampio altare a cassa; sul lato destro retrostante una mezza paratia vetrata a contenere il tabernacolo sferico; nel vano sinistro l’organo. In controfacciata sul lato sinistro il vano della cappella feriale con parete vetrata e luce zenitale; Lungo il braccio di accesso, sul lato sinistro il vano del fonte battesimale, su quello destro il profondo vano che contiene l’immagine della Madonna. Pavimento in cotto.

Come abbiamo detto, questa chiesa è stata costruita nel 1971, proprio l’anno in cui ce ne siamo andati da questa città, per cui non abbiamo alcun ricordo che sia legato ad essa; via Lumignacco e la sua zona erano un’area quasi campestre, del tutto slegata dal centro urbano, anche se ben servita dai mezzi pubblici; molti piccoli condomini sono stato costruiti dopo, per cui, allora, questo non era, propriamente parlando, un quartiere, ma una specie di terra di nessuno sospesa tra la frazione di San Osvaldo e quella di Gervasutta. In essa si esprime pienamente il preteso "nuovo spirito" conciliare: nessuno si sarebbe sognato di costruire una chiesa del genere appena dieci anni prima; nessuno, fino alla seconda metà degli anni ’60, avrebbe pensato che un simile edificio potesse fungere da chiesa cattolica. Sarebbe parsa una inutile stranezza e, forse, un’audacia sconveniente, al limite della dissacrazione. Non c’erano i preti operai, almeno in questa parte d’Italia, quindi non c’era l’idea che una chiesa, per essere più vicina alla mentalità del mondo moderno, debba somigliare a una fabbrica. Fino alla metà degli anni ’60, la stragrande maggioranza dei fedeli seguitava a pensare che una chiesa deve essere solo una chiesa, non un ponte per dialogare coi non credenti o coi non cristiani; che deve essere l’edificio nel quale i cattolici si riuniscono per incontrare, nella liturgia della Parola e soprattutto nel Mistero del Sacrificio eucaristico, il Signore Gesù Cristo. Né avrebbero mai immaginato che, cinquant’anni dopo, sarebbe arrivato un papa, o sedicente tale, il quale sostiene che Dio non è cattolico; che la sera della sua elezione ha salutato la folla, dal balcone del Palazzo apostolico, con un laicissimo Buonasera; che fa dei viaggi "apostolici" in giro per il mondo, nel corso dei quali non si prende il disturbo di nominare neppure Gesù Cristo; e che, richiesto di benedire i fedeli, come accaduto a Palermo il 15 settembre 2015, si rifiuta di farlo, per una malintesa forma di rispetto nei confronti di chi non è cattolico, e si astiene anche solo dal tracciare con la mano il segno della Croce. C’erano, questo sì, i primi preti dalle idee rivoluzionarie; ne ricordiamo alcuni, ma solo a partire dalla fine degli anni ’60 e dai primi anni ’70. C’erano quelli che contestavano apertamente il vescovo, monsignor Giuseppe Zaffonato; quelli che non solo non lo sostennero quando cadde nel tritacarne delle critiche e dei sospetti per supposte malversazioni finanziarie, ma che si unirono, più sguaiatamente di altri, al coro dei suoi accusatori, in un momento storico in cui — si era nella scia del Sessantotto – era di moda sparare nel mucchio su chiunque rappresentasse, in un modo o nell’altro, l’autorità, che fosse il padre, esecrato "capofamiglia", o il professore, detestabile rappresentante — come aveva insegnato il cattivo maestro don Lorenzo Milani – di un sistema d’istruzione classista, iniquo e discriminatorio contro i poveri. Sì: una certa inquietudine serpeggiava nel clero alla fine degli anni ’60, per l’effetto sommativo del Concilio e del Sessantotto; e i più irrequieti non erano sempre i giovani, ma anche diversi preti di una certa età. Si vede che avevano morso il freno per molto tempo e che ora, improvvisamente, avevano trovato lo spazio per manifestare apertamente la loro insofferenza verso ciò che era stato insegnato loro in seminario. Un osservatore attento avrebbe dovuto accorgersene; ma la maggior parte dei fedeli non se ne accorse, perché non era quello compito loro. I fedeli si fidavano e pensavano che il clero è lì per aiutare la fede della gente, non per metterla in crisi; e che i teologi hanno la funzione di chiarire, nei limiti del possibile, la visione cristiana della vita, non di metterla in dubbio o contestarla. Non vi era una grossa inquietudine, a quel che possiamo ricordare – benché fossimo ancora bambini — fra i laici; i laici si fidavano del clero e si fidavano della stampa cattolica, di tutto quello che veniva, direttamente o indirettamente, dalla Chiesa. Quando un credente entrava in una libreria paolina, un adulto per cercare un testo di spiritualità, una mamma per cercare un libro per i suoi bambini, non nutrivano il minimo sospetto che avrebbero trovato solo buone letture, in armonia con la visione cattolica della vita. E avevano ragione di pensarlo, almeno fino alla metà degli anni ’60. La stampa cattolica, Il Giornalino destinato ai più piccoli, per esempio, o le ottime collane di testi patristici, o di testi di psicologia e pedagogia, o di traduzioni di romanzi stranieri, specie dell’Europa orientale, delle Edizioni Paoline, non celavano trucchi, né inganni. Il veleno del neomodernismo si è insinuato, poco a poco, a partire dal 1965, ma per almeno una decina d’anni non ha attirato molto l’attenzione, e si era quasi mimetizzato nel panorama, complessivamente ancora buono, della vera stampa cattolica. Sì, giungevano notizie inquietanti dall’estero: il Nuovo Catechismo Olandese, per esempio, eretico e apostatico, apparve nel 1966 e venne tradotto anche in Italia; conteneva affermazioni sconcertanti sui punti essenziali della dottrina, dal peccato alla Redenzione, dall’Eucarestia al ruolo di Maria Vergine. Ma i pestiferi autori della teologia rahneriana uscivano col contagocce, insieme a tanti buoni testi di autentica teologia cattolica. Fu solo verso la metà degli anni ’70 che l’ondata protestantizzante prese il sopravvento, e nuovi personaggi presero la direzione della stampa e dell’editoria cattolica. I vescovi e i sacerdoti, per qualche anno, mantennero una posizione ambigua; sì al Concilio, sì anche al non meglio specificato spirito del Concilio, ma sì anche alla Tradizione, sì anche al Magistero perenne, dunque non modificabile. Poi anch’essi, a partire da quella data, iniziarono a prendere posizione, e quasi tutti per la fazione progressista. Lo spirito di fazione era entrato e stava trionfando nella Chiesa. C’erano sempre state tendenze diverse, nel mondo cattolico, ma la Chiesa aveva sempre saputo contemperarle e fonderle in un movimento armonico e unitario; qualche volta, per riuscirci, i pontefici avevano dovuto prendre posizioni molto energiche; nei casi più gravi era stato necessario convocare dei concili ecumenici, come quello di Trento, per condannare formalmente le proposizioni eretiche e inaccettabili, e per fissare con chiarezza, o meglio ribadire, la dottrina cattolica di sempre. Ma dopo il Vaticano II avvenne l’incredibile: chi restava fede alla Chiesa di sempre, improvvisamente diveniva estraneo ad essa, era guardato con tanto d’occhi, come una rarità, come un fossile, come un mummia: ricordiamo bene in quali termini si parlava di monsignor Lefebvre. Pareva che una tarantola l’avesse morsicato; eppure, come poi abbiamo capito, egli non aveva fatto altro che tenersi fermo alla dottrina di sempre, alla Chiesa di sempre. Tradidi et quod accepi, "vi ho trasmesso quel che ho ricevuto", diceva con semplicità, e aveva ragione; ma in una stagione di febbrili cambiamenti, chi mantiene una posizione del genere, di fedeltà e di coerenza, pare che voglia tornare indietro; stare fermi sulle posizioni di principio, quando tutti vogliono il cambiamento (ma è vero che lo volevano "tutti"? o era una minoranza astuta, rumorosa e senza scrupoli, fornita di potentissimi agganci?), è visto come una sfida, come una provocazione Di qui l’odio, non possiamo usare una parola diversa, anche se ci rendiamo conto che è pesantissima – che i progressisti riservano ai "conservatori", cioè a quelli che essi vedono come tali, e ai quali addossano tutti i mali del mondo — o, come in questo caso, tutti i mali della Chiesa. Se la Chiesa andava male, se non aveva più nulla da dire agli uomini moderni, era per colpa dei "conservatori", o, peggio, dei "tradizionalisti". Tradizione, senza la maiuscola, divenne una parolaccia; e con la maiuscola, venne semplicemente dimenticata. Ora i modernizzatori avevano una testa di turco contro la quale scagliarsi, come gli staliniani avevano i trozkisti per addossar loro la colpa di tutto ciò che non andava bene in Unione Sovietica: i lefebvriani, quelli che non accettavano il Concilio. Come se il Concilio fosse non l’inizio di un nuovo capitolo, ma di una nuova chiesa. Ed ecco l’eresia: qualcuno avrebbe dovuto accorgersene. Non tra i laici, ripetiamo, ma nella gerarchia, sì. Eppure, nessuno fece nulla: la retorica del "nuovo spirito" e della "seconda Pentecoste" ebbe via libera, mentre "passava" la nuova Messa di Paolo VI e con essa, anche la mentalità dell’uomo carnale. Cosa che si vide fin dal ’68, con la contestazione alla Humanae Vitae

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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