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Omaggio alle chiese natie: Santa Maria degli Angeli

La chiesa di Santa Maria degli Angeli è, crediamo, la meno conosciuta fra gli stessi udinesi, fatta eccezione, ovviamente, per quelli del quartiere di Baldasseria. Il quale non è nemmeno, propriamente parlando, un quartiere, quanto piuttosto un’area decisamente vasta, situata a sud-est della città, caratterizzata da strade lunghe e solitarie, fiancheggiata da filari di gelsi e acacie e da campi di granoturco, con poche case sparse in mezzo alla campagna. Sono tre le vie principali che formano il reticolo stradale: via Badasseria Alta, via Baldasseria Media e via Baldasseria Bassa. La piccola ma deliziosa chiesa di Santa Maria degli Angeli, in stile neoclassico, fu costruita nella prima metà dell’Ottocento, nel 1830-31, lungo la via Baldasseria Media, al tempo in cui la parrocchia di riferimento per gli abitanti di tutta questa zona era ancora quella del Carmine, in via Aquileia, e quindi i fedeli dovevano percorrere due o tre chilometri a piedi per raggiungerla, lungo strade ovviamente non pavimentate e quindi scomode e piene di pozzanghere, quando il tempo era piovoso. Una distanza che anche in quei tempi di scarse pretese e di ancor più scarsa abitudine ai comfort della vita moderna, alla fine dovette risultare eccessiva e indusse gli abitanti a chiedere e ottenere di poter avere una chiesetta per la loro comunità, che, naturalmente, edificarono da se stessi, rimboccandosi le maniche e lavorando buona lena, tanto che in circa un anno l’edificio era bell’e terminato. Più di un secolo dopo, essa sarebbe stata inglobata nella nuova parrocchia di San Pio X, istituita nel 1958. Comunque, anche se ora la parrocchiale era molto più vicina, la chiesetta di Baldasseria Media è rimasta in funzione, perfettamente curata e mantenuta, e per le sue caratteristiche di raccoglimento e per la sua atmosfera un po’ fuori dal tempo viene utilizzata qualche volta anche per la celebrazione di matrimoni.

Ecco come ne traccia la storia il sito www.viaggioinfriuliveneziagiulia.it:

La chiesa di Santa Maria degli Angeli si trova in Via Baldasseria Media a Udine e fa parte della parrocchia di San Pio X. Fu eretta dagli abitanti di Baldasseria, borgo alle porte della città, nel 1831. La sua costruzione fu ritenuta necessaria per assistere alla messa senza doversi recare presso la chiesa del Carmine in Via Aquileia, che allora era la sede parrocchiale. Venne intitolata alla Madonna.

Qui fu trasportata e posta sull’altare un’icona dipinta su legno che prima era custodita in una cappella posta all’inizio di quella che era Via Palma (Stradòn di Palme), l’attuale Viale Palmanova. Questa cappella, eretta nel 1676, venne demolita nel 1810 dai Francesi. 

Nel 1873 ci fu un’epidemia di colera in città che colpì anche Baldasseria. I cittadini, cessato il pericolo, fecero voto di recitare un rosario presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli e versare un obolo ogni terza domenica d’agosto. Fu redatto un documento conservato presso la chiesa e sottoscritto da 60 persone appartenenti alle famiglie di Baldasseria, nomi che ancora oggi si incontrano: Carlini, Franzolini, Marchiol, Plaino, Rizzi, Ridussi. Nacque anche la sagra, che ancora oggi si tiene presso la parrocchia.

Nel 1878 alla chiesa  venne restaurato il tetto che si era rovinato a causa di un cattivo legname usato per la copertura. Nel 1895 fu eretto il nuovo campanile di 17 m, che andava a sostituire quello posto sul tetto. La spesa fu finanziata per metà dalla famiglia Carlini.

Nel 1958 la chiesa di Santa Maria degli Angeli entrò a far parte dei beni della nuova parrocchia di San Pio X.

Per la descrizione della chiesetta dal punto di vista architettonico ci affidiamo, invece, al sito www.chieseitaliane.chiesacattolica.it:

Edificio di ridotte dimensioni, ad aula rettangolare, orientato est-ovest, con presbiterio a pianta rettangolare di volumetria minore, basso corpo di sacrestia annesso a destra del presbiterio con ingresso anche esterno. Torre campanaria, con accesso esterno, in parte inglobata nell’innesto fra la sacrestia e il punto di attacco del presbiterio. Facciata piana con timpano a cornici rilevate e oculo di aerazione; piccolo portico a tre falde su due colonne frontali impostate su basso muretto; nicchia superiore con monogramma "SM"; portale lapideo. Interno con soffitto piano impostato su cornice grigia modanata a correre, su ciascun lato due finestre rettangolari ad arco ribassato. Presbiterio rialzato di due gradini che prospetta tramite l’arcosanto a tutto sesto dipinto di grigio chiaro; soffitto piano su cornice perimetrale modanata di colore grigio ed emblema centrale; due finestre rettangolari a sesto ribassato contrapposte. A destra la porta di accesso alla sacrestia. Pavimentazione in seminato con fascia perimetrale ed emblema centrale fitomorfo con le date "1831" e "1998".

Si prova un profondo senso di pace e di raccoglimento in questa chiesetta dallo svelto campanile, costruita con tanta fede e buona volontà, auto-tassandosi, dagli abitanti di una modestissima borgata fuori mano come Baldasseria, davanti a un folto di alberi che le fa da cornice, lungo una strada dritta e suggestiva che sembra perdesi nella campagna come una freccia, e poi entrando nell’interno silenzioso, spoglio, semplicissimo, con le bianche pareti dipinte a calce, senza il mimino ornamento, né un quadro, né una decorazione, né un lampadario, nulla, ad eccezione della famosa icona, dipinta su legno, sfuggita alla distruzione della cappella campestre in cui si trovava fon dal XVII secolo, ad opera dei gloriosi "liberatori" francesi che vennero in queste terre a portare la liberté, la fraternité e l’egalité, nonché a rubare e fare man bassa di tutto quel che capitò loro a tiro, cominciando col fare mercato della millenaria Repubblica di Venezia con l’imperatore d’Austria, come dei briganti, nel 1797. È commovente, guardando quel manufatto che è stato posto dalla pietà popolare sopra l’altar maggiore, pensare che ha superato felicemente tante disavventure e che ancora, dopo quattro secoli, ravviva la fede di quanti vengono qui a dire una preghiera. Di fronte, pochissime case dall’aspetto modesto; a destra e a sinistra, la via che corre nella pianura, in mezzo al verde; a breve distanza, il canale Ledra, che taglia la campagna mormorando e porta le acque del Tagliamento a riversarsi nel torrente Torre. Sembra il quadretto delineato, con pochi versi aggraziati, da Aldo Palazzeschi in Rio Bo — ricordate?-: Tre casettine / dai tetti aguzzi, / un verde praticello, / un esiguo ruscello: Rio Bo, / un vigile cipresso… Tuttavia, se la cornice è bucolica e quasi idillica, la storia di questa comunità, di queste pietre, di questo dipinto, è molto seria, quasi drammatica: è la storia di come un popolo semplice, laborioso, pacifico, sovente calpestato dalla violenza della storia, ha lottato per conservare la fede; un popolo che è sempre stato povero, che ha sparso i suoi emigranti ai quattro angoli del globo terracqueo, a costruire la ferrovia transiberiana e a produrre legame nelle segherie della Terra del Fuoco, ma che ha sentito il bisogno di eseguire uno sforzo ulteriore per avere la propria chiesetta, per avere un prete che alla domenica venisse a celebrare la santa Messa in quest’angolo di campagna così vicina, ma anche così lontana dal centro cittadino. Un popolo ignorante, con un alto tasso d’analfabetismo, e, per giunta, un popolo incline alla bestemmia, antico vizio molto diffuso nelle campagne friulane fino a pochi anni fa — oggi, non sapremmo dire — e tuttavia, a modo suo, religiosissimo. Un popolo che ha sempre cercato e trovato in Dio, nel Dio annunciato da Gesù nel Vangelo, quindi nel Dio cattolico – checché ne dica oggi il signore argentino che dice di essere papa, ma non agisce da papa, non parla da papa, non pensa da papa, anzi, nemmeno da cristiano – il sostegno e il conforto in tutte le sue tribolazioni: dalle sanguinose e distruttive incursioni dei turchi, alle pestilenze, alle due guerre mondiali con i loro orrori e i loro eccidi, al terremoto del 1976 che è stato solo l’ultimo di una lunga serie di disastri naturali. Un popolo che ha sempre lottato, che si è sempre rimboccato le maniche, che non si è mai auto-compassionato, non ha mai fatto la vittima, non ha mai aspettato che altri risolvesse i suoi problemi (fasin di bessôi, "facciamo da soli" è sempre stato il suo motto e perfino il suo difetto), e che è andato avanti grazie alla sua fede. Impossibile non fare un confronto col presente, con la fede odierna dei cattolici.

Ma esistono ancora, i cattolici? O sono ormai una specie estinta? Sono cattolici quelli che vanno in piazza ad applaudire il signore argentino, ma pensano che l’aborto non sia un peccato poi così grave, più un dramma per la donna che la soppressione di un nascituro; che si possa benissimo divorziare e risposarsi, e tuttavia fare la Comunione, come se nulla fosse; che ci si può sposare fra persone dello stesso sesso, e ricevere la benedizione della Chiesa; che si può scegliere l’eutanasia, per se stessi o per i propri cari, e restare pecorelle del gregge di Cristo. Che basti dire sempre: accoglienza, accoglienza, anche se si tratta di incrementare il traffico di esseri umani che arricchisce dei criminali senza scrupoli, e anche se, così facendo, si riempie l’Italia di gente allo sbando, che vive in clandestinità, che commette centinaia e centinaia di reati ogni giorno; che basti, insomma, scaricare la cosiddetta accoglienza sulle spalle di qualcun altro, gravare oltre ogni limite il peso che deve portare l’intera società, per essere dei buoni cattolici. Eppure tutto questo zelo di carità, tutta questa smania di essere accoglienti, tutta questa solerzia per i bisognosi, non si erano manifestati, in forme così spettacolari, e in prediche così imperative, per non dire intimidatorie e ricattatorie, spinte fino all’anatema contro i cattivi, i populisti, i sovranisti, allorché si trattava di prendersi cura degli italiani poveri, il cui numero cresceva a dismisura dopo la grande crisi del 2008 e che ha riempito l’Italia di disperati e di suicidi, gente che si è ammazzata perché aveva perso i risparmi o il posto di lavoro, e perdere il posto di lavoro a cinquant’anni vuol dire perdere anche la speranza di trovarne un altro. Specie con un governo che, come la neochiesa, sembra preoccuparsi solo dei migranti, avere compassione solo per loro, cercare delle soluzioni solo per loro, e fornire loro ogni possibile giustificazione, anche quando commettono gravi reati: come quel tribunale del riesame che ha rimesso in libertà uno spacciatore africano recidivo, dicendo, nella sentenza di scarcerazione, fra l’altro, che costui non aveva altre fonti di reddito e quindi, poverino, poteva contare solo sullo spaccio di droga per mantenersi.

Le vicende storiche di una piccola chiesa di periferia, come quella di Santa Maria degli Angeli, e di una piccola comunità cattolica, come quella di Baldasseria, ci ricordano cosa vuol dire veramente essere società e cosa vuol dire essere Chiesa. E come per fare una società non basta una massa disordinata d’individui provenienti da ogni angolo del mondo, ciascuno con le proprie tradizioni e ciascuno coi suoi interessi egoistici da imporre sugli altri, allo stesso modo per fare Chiesa non basta che ci sia un gruppo di persone che professano esteriormente certe forme cultuali, e soprattutto non basta dirsi cattolici, tanto meno dirsi seguaci di Francesco. Il papa non è altri che il vicario di Cristo e lo si può considerare il capo della Chiesa visibile, ma sempre in subordine a Cristo, finché rimane nel solco del Magistero, della Traduzione e delle Scritture; non merita più obbedienza, né venerazione, né rispetto, se esce dal seminato, se si fabbrica un suo magistero, se disprezza la Tradizione e se legge le Scritture a modo suo, cioè come fanno i protestanti. Anzi, se egli si macchia di tali gravissime colpe, diventa un preciso dovere del cristiano quello di dire forte e chiaro che egli sta trascinando la Chiesa su di una strada errata, e per la salute delle anime è doveroso ammonire che non bisogna ascoltarlo, né seguirlo, ma anzi bisogna mettere in guardia tutti i fedeli contro i suoi falsi insegnamenti. Quello che manca, in una società ridotta a una somma numerica d’individui eterogenei, e in una chiesa (minuscola) ridotta a un gregge sbandato che non segue il vero ed unico Pastore, ma segue falsi pastori infedeli alla dottrina, dei lupi travestiti da pastori che portano le anime alla perdizione, è, in entrambi i casi, l’anima. L’anima di una società risiede nella concordia e nella coesione dei suoi membri; i quali possono, certo, avere idee diverse e in qualche misura, accogliere elementi stranieri, ma che non potrà mai funzionare se il numero degli stranieri diviene tale da non essere assimilabili e soprattutto se prevale in tutti, stranieri e cittadini di nascita, un atteggiamento egoistico e una ottusa volontà di far prevalere logiche di parte, estranee e contrarie al bene collettivo. Allo stesso modo, l’anima della Chiesa visibile risiede nella fede viva dei suoi membri: che non si manifesta nelle forme ostentate e clamorose di "amore" per il prossimo, tutti di segno ideologico e tali da mette gravemente a disagio i propri fratelli, come fa quel prete di Pistoia che mette a dormire in chiesa i sedicenti profughi e clandestini, in spregio alle decisioni della pubblica amministrazione, esasperando gli animi e accendendo le fiammelle di una strisciante guerra civile. Senza questa fede viva, la Chiesa non c’è: c’è, sì, una fede nell’uomo, ma non in Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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