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Omaggio alle chiese natie: S. Martino a Cussignacco

La frazione di Cusisgnacco è un po’ un modo a sé stante. Dista tre chilometri e mezzo dal centro di Udine ed è un paese che si è trovato inglobato nella espansione urbana della città, a differenza di altri paesi del circondario che non ne sono stato raggiunti. Questo è accaduto perché si trova vicino a uno dei principali assi stradali, quello che va dalla montagna verso il mare, costituito da via Palmanova; uscendo dal centro città, si trova sulla destra, all’altezza di via Veneto, dove sorge anche la chiesa parrocchiale. Il turista potrebbe fare un po’ di confusione, perché oggi non esiste un paese di nome Cussignacco, mentre esiste, in città, una via Cussignacco, che va da piazza Garibaldi a piazza Unità d’Italia, per cui, se domanda informazioni a qualche passante, potrebbe essere indirizzato verso quest’ultima. Invece il nome Cussignacco indica un paese che di fatto non esiste più, è diventato un quartiere periferico di Udine, e che, pur avendo conservato un suo aspetto caratteristico, non è più quello di una volta, mentre sono rimaste quassi immutate altre frazioni, come Laipacco, Beivars o Godia. È facile arrivarci: ma, per evitare il traffico piuttosto intenso di via Palmanova, che è priva di marciapiedi, conviene svoltare all’altezza di via del Partidor, raggiungere la rotonda di piazza del Commercio e proseguire sempre dritti verso sinistra: si arriva direttamente alla chiesa parrocchiale. La quale è dedicata a San Martino Vescovo e sorge al centro di una piccola piazza dedicata a papa Giovanni XXIII, all’altezza di via Padova. Benché di fatto raggiunto dalla città e divenuto un quartiere periferico, Cussignacco ha conservato alcuni tratti del tipico paesino della pianura friulana: è vivace, con edifici moderni, ma non brutti, e molte casette col giardino; ha la fortuna di non trovarsi proprio sull’arteria principale, ma un po’ all’interno di essa, e questo lo salva dall’attraversamento del traffico pesante. In pratica, un abitante del centro di Udine non ha alcuna ragione di venire qui, a meno che vi sia il suo luogo di lavoro, o vi abiti un amico, o che, la domenica, frequenti una trattoria della zona: ma non ha nulla, in se stesso, che lo possa attirare, e questo è il motivo per cui anche noi, da bambini, non ci siamo stati mai, se non di passaggio e di sfuggita, senza riportarne quasi alcun ricordo. È strano che ciò possa accadere in una città non molto grande, tuttavia è abbastanza comune: a ben pensarci, le persone tendono a frequentare sempre gli stessi posti, la propria via e il proprio quartiere, e, se hanno del tempo per muoversi, preferiscono allontanarsi parecchio, anche grazie all’abitudine di usare l’automobile privata. Negli anni ’60 l’automobile sono alcuni l’avevano, e noi non eravamo fra questi; c’erano, è vero, i mezzi pubblici, un eccellente sevizio di autobus urbani, e uno di corriere su percorsi anche assai più lunghi, fino a Roma da un lato, fino a Vienna dall’altro; inoltre una piccola agenzia di taxi, cui sovente facevamo ricorso per le gite domenicali, tanto che l’autista era diventato quasi un amico di famiglia. Erano anni in cui la lira andava fortissimo, si faceva una vacanza in Austria (in Austria, non in Iugoslavia!) praticamente per risparmiare; in cui una famiglia della piccola borghesia poteva permettersi di andare al ristorante ogni domenica, o quasi, e prendere il taxi, e vistare i musei, e pagare anche il pranzo all’autista, tutte cose che oggi, a parità di stipendio, ma non di potere d’acquisto della moneta, sarebbero impossibili.

Ad ogni modo, a Cussignacco, no, non ci era mai capitato di passare. Nella geografia privata di ogni bambino e adolescente ci sono i luoghi familiari, anche se non vicinissimi, e quelli remoti e mal conosciuti. Per noi, Paderno era un po’ lontana, ma familiare; Cussignacco non lo era, e meno ancora Paparotti, circa un chilometro più oltre, che già nel nome, invero un po’ buffo, evocava distanze misteriose, quasi esotiche. Queste cose possono far sorridere al giorno d’oggi, quando la gente si sposta con la macchina privata anche solo per andare e prendere il giornale, e i bambini mostrano sovente ben poca curiosità, non guardano neanche dal finestrino e s’immergono nei loro giochi elettronici fino a quando sono arrivati a destinazione, sicché non sanno nulla della strada che hanno fatto, non saprebbero ritrovarla nemmeno sulla piantina e, se qualcuno domanda loro dove hanno trascorso la domenica, rispondono "al ristorante", ma dove fosse questo ristorante, non lo sanno dire, e in verità non sono minimamente interessati a saperlo. Tutto ciò, a nostro parere, è male, perché la fantasia e l’immaginazione del bambino si alimentano di queste piccole cose quotidiane, e se le si spegne, se gli adulti per primi non favoriscono in lui l’insorgere della più piccola curiosità, ma danno l’impressione che conti solo il "risultato", cioè, nel caso di una gita domenicale, il fatto di sedersi a mangiare, e bere, poi ripartire, e magari ficcarsi ore e ore dentro un centro commerciale ove non arriva neanche la luce del sole, non si sa se è giorno o notte, estate o inverno, quel bambino crescerà come un fiore intisichito, non sboccerà mai, perché un bambino privato della fantasia e dell’immaginazione è un bambino derubato dei suoi sogni, e un bambino senza sogni non è più un bambino, ma solo un arido vecchietto che è cresciuto troppo in fretta, senza occhi, né orecchi per vedere e udire le cose belle. E le cose belle non sono un lusso, sono una necessità, beninteso se si vuole conservarla propria umanità e non scadere al livello delle bestie, preoccupate unicamente di soddisfare le loro necessità primarie. E magari si trattasse solo di questo: di solito, le persone che non sanno vedere la bellezza sono le stesse che dedicano molto tempo e moltissime energie, per non parlare della spesa, a procacciarsi una quantità di cose inutili, per saziarsi di capricci consumistici che non recano alcun senso di vero benessere, né un appagamento profondo. A ciò ha contribuito molto anche il fatto che i bambini di oggi giocano sempre di meno, se giocare vuol dire servirsi di qualche giocattolo per volare con l’immaginazione; mentre i cosiddetti giochi di oggi, quasi tutti elettronici, giocano da soli, e il bambino è relegato a semplice testimone passivo: non è lui che gioca, lui guarda, e subisce, il gioco, che non è un gioco, ma una brutta contraffazione della realtà, mostrata nei suoi aspetti peggiori. Il bambino sano vive le esperienze della sua età in un clima favoloso e associa i ricordi alle piccole, grandi cose che sollecitano la sua fantasia. Se l’adulto esamina i suoi ricordi d’infanzia, si accorge che il segreto dell’età felice è questo e non l’aver fatto chissà quali esperienze, viaggi, pranzi e acquisti di oggetti costosi. Limitandosi ai giocattoli, non ricorderà quelli più cari ed elaborati, ma quelli che hanno stimolato la sua fantasia o che si legano a un clima affettivo di serenità. Ad esempio, noi ricordiamo con precisione l’acquisto di una modestissima busta di soldatini di plastica, da poche lire, in una modestissima tabaccheria di Paderno, e ricordiamo perfino che tipo di soldatini erano, in ogni particolare: eppure non si trattava certo di un regalo di lusso, e neppure ricordiamo per quale motivo ci trovassimo in quel luogo distante da casa, noi che non avevamo l’automobile; però è stato un piccolo regalo di nostro padre, che non ci ha mai viziati, pertanto quel piccolo regalo si è impresso nel ricordo e si è associato all’esperienza di una cosa bella, di un diversivo sereno, magari, chissà, a margine di una vista medica, o dentistica, o di qualche altra esperienza ordinaria e di per sé noiosa, che però è stata totalmente cancellata dalla memoria. Una esperienza quasi identica è legata a un altro luogo, un negozietto di materiale plastico in piazza Garibaldi, una sera già buia d’autunno; e anche in quel caso, ricordiamo perfettamente che tipo di soldatini fossero. E, a proposito, il segreto è anche questo: la sobrietà. Un bambino viziato non apprezza nulla, perché riceve troppo, e non associa le cose che riceve ad alcuna emozione particolare, perché ricevere, per lui, è un’esperienza normale; mentre solo se l’esperienza ha qualcosa di speciale essa si imprime nel suo mondo affettivo e genera sensazioni profonde e, più tardi, dolci ricordi. Un genitore profondamente buono, ma un po’ severo, che fa un piccolissimo regalo di tanto in tanto: questa è una cosa che colpisce un bambino assai più di un genitore eccessivamente indulgente e permissivo, che vola a tradurre in realtà ogni più piccolo desiderio del figlio, e addirittura lo previene.

Tornando alla chiesa di San Martino Vescovo, a Cussignacco, si presenta semplice ma dalle linee armoniose. È lievemente sopraelevata, con la facciata a capanna, due piccole cuspidi alle estremità degli spioventi, senza colonne, né lesene, e senza alcuna finestra o apertura all’infuori del portale d’ingresso; sommità a timpano, e il robusto campanile incorporato alla congiunzione del presbiterio con l’abside, non alto, la cella campanaria piatta e di poco sovrastante la sommità del tetto della chiesa, con le pietre scure a vista che contrastano gradevolmente con le superfici chiare e perfettamente lisce del sacro edificio. Le origini della chiesa sono medievali, risalgono al XIII secolo; l’edificio attuale però ha poco più di 200 anni, essendo stato consacrato nel 1803, in stile neoclassico. Anche la parrocchia è antica; e Cussignacco, con la sua roggia e i suoi mulini, di cui resta traccia nella toponomastica, era già un comune autonomo nel 1313, e lo è rimasto fino a tempi relativamente recenti. La sorpresa, però, viene dopo aver varcato il portale d’ingresso. L’interno, a navata unica, con l’alto soffitto e le pareti piene di stucchi, le grandi lesene dai capitelli ionici, le ampie cappelle laterali, la statua lignea di Sant’Antonio da Padova ai piedi del presbiterio rialzato di due gradini, e il bell’altare maggiore di marmo, con le statue dei Santi Pietro e Paolo ai lati, e dietro le canne lucenti del grande organo: tutto ciò, immerso in una luce chiaroscurale diffusa, sorprende per la ricchezza, per lo sfarzo, per l’armonia delle forme e delle proporzioni. E, su tutto, l’occhio è attirato verso il punto focale dell’abside, illuminato da due alte bifore contrapposte, dove spicca una grande pala con il celebre episodio di San Martino, in groppa ad un cavallo bianco, che si sporge a tagliare con la spada il proprio mantello, per offrirne un lembo al mendicante, seminudo e intirizzito, che giace a lato della strada, sotto il cielo azzurro, ma freddo di novembre. Non sarà un capolavoro, ma è un’opera di discreta fattura, che s’imprime nell’immaginazione dei fedeli. E, a proposito dell’importanza delle impressioni ricevute da bambini, chi lo sa quanti bambini di Cussignacco, abituati a vedere quel dipinto ogni volta che entravano in chiesa, e quasi familiarizzati con esso, non hanno introiettato un po’ alla volta, crescendo, anche il significato del gesto che esso raffigura: il gesto del dare, del donare, dell’aprirsi generosamente ai bisogni degli altri. E non solo i bambini, ma una intera comunità, che abbia familiarità con questo tipo d’iconografia, è probabile che riceva da essa più spunti educativi e religiosi di quanti ne potrebbe avere da tanti discorsi, ornati forse di belle parole, ma poveri di sostanza spirituale e di spessore umano. Noi tutti, figli di una civiltà che è stata cristiana, non facciamo più caso a tali cose, non vi riflettiamo, non vi dedichiamo un pensiero; eppure, proviamo a considerare la cosa in questi termini: quanti spunti di bontà, di generosità, di altruismo, anche da una semplice opera di pittura di un maestro locale, come la pala della chiesa di San Martino, ricevono i membri delle altre civiltà? Senza voler svalutare o sminuire nessuno: quante volte un ebreo, un islamico, un indù, uno scintoista, vedono qualcosa che ricordi loro la bellezza del donare, anche privandosi del necessario, come lo vedono i fedeli che entrano in una modesta chiesa di paese, come quelli di Cussignacco? Il fatto è che, per noi, questi spunti di bontà, queste esortazioni alla carità cristiana, al perdono, alla condivisione, che ci vengono ogni giorno da cento parti, non solo dalla pittura sacra, ma dalla scultura, dalla musica, dalla poesia, dalla letteratura, perfino dai proverbi, o dai mille capitelli che si trovano agli incroci o nelle nicchie dei muri delle case di una volta, sono diventati parte del nostro paesaggio fisico e spirituale, sono diventati parte di noi stessi, del nostro modo di pensare e di sentire; non vi facciamo più caso come non si fa caso al proprio respiro, perché respirare è la cosa più naturale del mondo. Ma in altre culture il perdono, la condivisione, la bontà come stile di vita, diciamo pure la santità come modello, non sono affatto sentimenti frequenti, perché non vengono alimentati né dal codice morale, né dai soggetti dell’arte sacra. Diceva un capo villaggio del’isola di Sumatra, in Indonesia, Paese a stragrande maggioranza islamico, a un missionario: Voi cristiani avete una cosa che noi non abbiamo, per questo siete molto apprezzati dalle nostre comunità: avete la capacità di perdonare; mentre a noi è stata insegnata la vendetta, ogni offesa deve essere vendicata e così le faide tribali vanno avanti per generazioni e generazioni, senza che se ne sappia più l’origine.

Ripetiamo: non si tratta di sminuire gli altri e di assumere atteggiamento di superiorità; si tratta di essere se stessi. Il cristiano dovrebbe essere fiero di essere tale, cioè un seguace di Gesù Cristo, colui che pregò perfino mentre lo stavano inchiodando sulla croce: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che lo fanno. La teologia della svolta antropologica, che tende a storicizzare ogni cosa, e quindi a mettere le varie religioni sullo stesso piano, magari con la scusa del dialogo, tradisce non solo il Vangelo, ma tutto il bene che il Vangelo può fare ai non cristiani. Per una falsa idea di rispetto e pluralismo, il cristiano progressista e "dialogante" si auto-censura, non annuncia più il Vangelo: come ha fatto il signore argentino durante il viaggio "apostolico", che tale non era, in Myanmar e Bangla Desh nel 2017, durante il quale ha parlato molto dell’uomo e poco di Dio, meno ancora di Gesù. Ecco: questo è il tradimento del cristianesimo, oltre che della funzione del vicario di Cristo. Se non deve annunciare il Vangelo, cosa ci sta a fare un cristiano, che ci sta a fare il papa?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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