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Omaggio alle chiese natie: Godia, S. Giovanni Battista

Si arriva facilmente alla frazione di Godia – un toponimo che tradisce l’origine germanica e altomedievale – percorrendo, da Paderno, la bella e dritta via Liguria; oppure, da Beivars, la via Bariglaria. Tuttavia è un angolino talmente appartato che bisogna venirci apposta, magari con l’autobus urbano, perché gli abitanti del centro non hanno alcuna ragione di venire da queste parti e perciò Godia, più che una frazione, si direbbe un piccolo paese a sé stante, rimasto un po’indietro nel tempo. Può anche darsi che il turista non riesca nemmeno a trovarlo, ammesso che gli venga il capriccio di vederlo: le guide della città non lo nominano affatto e quanto alle piantine topografiche, è facile che non "arrivino" a indicarla, perché situata un po’ troppo a Nord, ben oltre le Officine Bertoli, che, a Paderno, rappresentano di solito il limite estremo cui si spingono le rappresentazioni cartografiche. Godia si trova infatti a più di cinque chilometri a Nord-Est del centro cittadino e subisce la stessa sorte di Colugna, all’estremità Nord-Ovest, che si trova circa alla stessa distanza e non è neppur essa raffigurata sulle piantine: con la differenza che Colugna, benché venga servita da una linea di autobus urbani, appartiene già ad un altro comune, essendo frazione di Tavagnacco (la cui sede comunale è a Feletto Umberto) mentre Godia fa parte del capoluogo. Questa comunque non è una periferia industriale, grazie a Dio; le principali arterie di traffico, quella da Nord a Sud e quella da Est a Ovest, non passano qui vicino; insomma, è un’isola felice, l’ideale per chi ama fare passeggiate ed escursioni in santa pace e tranquillità. Si aggiunga che questa frazione conserva un elemento architettonico che altrove è quasi scomparso, i mulini, che un tempo erano numerosi lungo le due rogge, quella di Palma e quella di Udine: uno, sulla Roggia di Palma, è stato conservato in ottimo stato ed è un piacere stare a guardarlo, mente gira spinto dall’acqua, e continua a lavorare come faceva decenni e addirittura secoli fa: sembra di risalire a ritroso la corrente degli anni. È un piccolo mondo antico che fa venire in mente, più che il romanzo di Antonio Fogazzaro, quello di Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po: fa riemergere le memorie lontane di un mondo ormai quasi favoloso, che ha il sapore di una fiaba anche se era la pura e semplice realtà quotidiana nella vita nelle nostre campagne, secondo ritmi antichissimi, che su succedevano da una generazione all’altra e che sono sopravvissuti fino all’alba del XX secolo.

La chiesa di San Giovanni Battista a Godia è settecentesca; la facciata principale è a capanna, col timpano triangolare, mentre la facciata nord, con un altro ingresso, è preceduta da un loggiato. anch’esso a timpano triangolare, sopraelevato a causa della pendenza del terreno, su colonnine poggianti sopra un muretto aperto al centro, il quale le conferisce un aspetto caratteristico, che ricorda la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Colugna. La cosa che più colpisce, nel luminoso interno barocco a navata unica, impreziosito dal pulpito ligneo scolpito, è il presbiterio, verso il quale corre subito l’occhio di chi entra, e le cui linee armoniose non riescono a smorzare né il solito, brutto altare postconciliare, né il mediocre affresco moderno sulla parete superiore dell’abside. Il bellissimo altar maggiore appare subito di pregevole fattura, con il ciborio, cioè il tabernacolo di marmo a baldacchino sostenuto da quattro colonnine, affiancato dalle statue di San Nicola di Bari, sulla destra, con la mitra in capo, il pastorale, il Vangelo e tre palle d’or, e di San Michele Arcangelo, sulla sinistra, che brandisce una spada di fuoco e si regge la veste con l’altra mano (notevole il gioco di linee e di piani spezzati creato dal panneggio, che si anima come se fosse una pittura): quest’ultimo, soprattutto, raffigurato in una postura originale. Il gruppo è alquanto mosso, secondo lo stile barocco, ed è opera di una mano esperta, che risente della lezione del Torretto.

Sulle rogge di Udine e i loro antichi mulini, scrivono gli autori del sito www.loppure.it:

Il Torre, famoso fiume di Tarcento, si vede immettere quindi le sue acque in due rogge: la roggia Cividina sulla riva sinistra e quella di Udine sulla destra.

La prima scorre in territorio non udinese, mentre la roggia di Udine da Zompitta passa per Cortale, Rizzolo, Santa Fosca, Cavalicco, Paderno, Chiavris, Udine, Basaldella, Zugliano e finisce la sua corsa nel Cormôr a Mortegliano. In città sgusciava veloce da Porta Gemona, piegava verso ovest e percorreva Borgo Santa Maria (oggi via Zanon) seguendo via del Gelso, che è la strada perfettamente coincidente con la roggia sottostante. Curvava in via del Sale, dove c’era un gran mulino all’angolo con piazza Garibaldi, entrava in via Grazzano e usciva dalla città finendo in campagna. Alla sua destra dall’Ottocento scorre il canale Ledra, che spesso è confuso erroneamente (anche dagli udinesi) con "le roe". La roggia di Udine ufficialmente cede una parte della sua acqua a una roggia che finisce poi a Pavia di Udine disperdendosi nelle ghiaie e a un canale che da Beivars raggiungeva Udine a Planis, passando piazza Primo maggio, precisamente per Largo delle Grazie (dove c’erano due mulini importanti, e dove poi farà i suoi riusciti esperimenti Arturo Malignani, (…), scendeva lungo piazza Patriarcato, girava in via Manzoni, via Ciconi, si dirigeva a sud, attraversava Cussignacco e raggiungeva la fortezza di Palmanova. Quest’ultima, la roggia di Palma, e la roggia di Udine costituiscono un importante patrimonio per la città e i suoi dintorni, creando un bel contesto ambientale con la loro vegetazione, il tortuoso andamento, allineando i borghi, i villaggi e i casolari che le accompagnano nel loro percorso.

Le prime notizie ufficiali del loro utilizzo risalgono al 1171, con un atto che consentiva l’uso delle acque alle ville di Cussignacco e Pradamano. Ufficialmente i due canali furono inclusi nella città quando quest’ultima, in forte espansione, allungò la sua cinta muraria.

Con la loro viva corrente, le rogge di Udine hanno mosso molti macchinari generando le prime attività industriali. Su questi due canali d’acqua, infatti, sorgevano una cinquantina di grandi ruote idrauliche che azionavano alcuni mulini e filatoi, alimentando molte attività specialmente nella zona di Borgo Grazzano e Borgo Gemona.

L’acqua era fresca, chiara, limpida e pulita. La si considerava potabile o comunque utilizzabile, anche se per gli udinesi di oggi questo potrebbe sembrare alquanto strano, dato che l’acqua della roggia è considerata piena di qualsiasi cosa sgradevole. Con l’espansione urbana e la crescita demografica aumentò l’inquinamento anche per la città di Udine, inquinamento naturale ma anche animale e umano, che rendeva l’acqua sporca, data anche la vicinanza dei letamai e la precarietà degli scarichi fognari. Furono imposti molti divieti al fine di mantenere l’acqua delle rogge limpida e di buona qualità, ma molto probabilmente non vennero rispettati pienamente. In ogni caso, l’acqua dei canali di Udine veniva utilizzata, e spesso veniva usata la frase "lâ a cjoli l’aghe in te roe".

Per il resto, pace assoluta: al tempo della nostra infanzia non c’erano un ristorante, una trattoria, un locale particolarmente noti, come crediamo che non ci siano neppure adesso: e se non c’è nulla che serva ad attirare chi non fa parte di questo piccolo mondo, chi abita in centro, allora anche i ritmi della vita moderna qui rallentano, si fermano addirittura. Il mulino Coiutti di Godia, situato in via Genova, è antico di sei secoli, poiché risale addirittura al 1400, e se oggi la ruota funziona grazie ad un meccanismo a cilindri, un tempo era azionata da una serie di vaschette. Ancora oggi vi si macinano il mais, la segale, il frumento, l’orzo e il grano saraceno. In Friuli esistono diversi altri mulini: il mulino Braida, a Flambro di Talmassons; il mulino Zoratto, a Codroipo, con un maglio in legno per battere e ammorbidire lo stoccafisso norvegese — precisamente, quello delle Isole Lofoten -, caso unico nel nostro Paese; il mulino Romano, a Partianicco di Mereto di Tomba; il mulino Cocconi di Ospedaletto, unico sopravvissuto al tragico terremoto del 1976, che ha distrutto tutti gli altri nella zona di Gemona. Chissà quanti ce n’erano un tempo: dovevamo essere letteralmente decine. Non per caso il Boccaccio, nella quinta novella della decima giornata del Decameron, quella di Madonna Dianora, scrive: In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, un incipit che sembra quello di una fiaba. Senza dubbio Boccaccio, che non risulta essere mai stato da queste parti (a differenza di Dante, che probabilmente fu ospite del conte di Gorizia nel castello di Tolmino e forse fu anche a Udine, allora capitale di fatto del Patriarcato di Aquileia) aveva avuto queste informazioni dai numerosi mercanti toscani venuti a stabilirsi in questa regione nel XIV secolo, i quali dovevano essere rimasti colpiti dall’abbondanza delle acque e, senza dubbio, anche dei mulini.

Bisogna precisare, però, che le rogge di Udine, alle quali si deve, se non la nascita, certo lo sviluppo urbano della città, al tempo ij cui era limitata alla rocca del Castello, non sono un dono della natura, ma un’opera intelligente e laboriosa degli uomini, i quali hanno prelevato le acque del torrente Torre, principale affluente di destra dell’Isonzo, all’altezza di Zompitta, e le hanno incanalate verso la nascente città, ai piedi del castello, che allora era costituita da un’unica arteria: quella via Sottomonte che oggi non si percorre senza una specie di stretta al cuore per quanto è angusta, buia e incassata fra le case.

Scrive lo storico Gianfranco Ellero nell’articolo Le rogge di Udine, una triste fine, pubblicato l’11 agosto 2015 e consultabile su www.e-paper.it):

Udine, una piccola villa accoccolata sotto il colle incastellato, attraversata da un’unica stretta strada, oggi denominata via Sottomonte, poté crescere fino a diventare una città soltanto dopo che, non si sa chi e quando, un’autorità politica o ecclesiastica, riuscì a captare l’acqua del Torre a Zompitta e a canalizzarla verso il Cormôr, da nord-est a sud-ovest, sfruttando la naturale pendenza del territorio. Prima delle rogge c’erano naturalmente dei pozzi, a Udine cinque per la precisione nel Duecento, e già allora considerati molto antichi, ma non erano in grado di rifornire d’acqua una città, anche perché pescavano in una falda freatica molto profonda e on molti abbondante (circa sessanta metri).(…)

Il torrente, che scende da Tanataviele sopra Tarcento, sarebbe quasi sempre in secca a sud di Zompitta se le sue acque non fossero immesse nella roggia Cividina sulla riva sinistra e nella roggia di Udine sulla destra. La prima scorre a est di Primulacco e, per Povoletto, Grions, Remanzacco e Selvis, riporta l’acqua nello stesso torrente all’altezza di Cerneglons. La seconda, che per Cortale, Rizzolo, Santa Fosca, Cavalicco, Paderno, Chaivris, Udine, Basaldella, Zugliano, finisce la sua corsa nel Cormôr a Mortegliano, cede una parte della sua acqua a una terza roggia che, per San Bernardo Godia, Beivars, San Gottardo, Pradamano, Lovaria, raggiunge Pavia di Udine, dove si disperde fra le ghiaie. A sua volta questa roggia cee una parte dell’acqua a un canale che da Beivars raggiunge Udine a Planis, passa per piazza 1° Maggio e, per Cussignacco, Lumignacco, Risano, Chiasottis, Lavariano, dall’inizio del Seicento porta acqua alla fossa di Palmanova.

Il primo documento che nomina un’acqua corrente, "que per villam nostram de Utino fluit", è un atto del patriarca Volrico II di Treffen, rogato il 4 maggio 1171 per concedere l’uso dell’acqua alle ville di Cussignacco e Pradamano, al canine annuo di sessanta staia di avena da consegnare al "cellario de Utino". L’espansione urbana e la crescita demografica fecero poi aumentare le cause di inquinamento e anche i divieti nelle norme degli Statuti comunali. Erano vietati i letamai in prossimità delle rogge e il colaggio dei liquidi dai cortili alle strade, da dove potevano facilmente finire nell’acqua. Era altresì proibito lavare panni e pelli, gettare nelle acque visceri di animali e "bigatti", ovvero bachi da seta morti per malattia o per il calore della stufatura, come risulta facesse il pittore Giovanni Ricamatore, detto Giovanni da Udine, allievo di Raffaello. C’era il divieto di bagno e lavaggio per le persone, e a maggior ragione per le anatre e le oche.

Oggi le rogge sono state coperte lungo quasi tutto il loro corso urbano, e i mulini sono caduti in rovina, uno dopo l’altro; eppure sia le une che gli altri resistono ancora, qua e là, e ci lasciano intravedere la bellezza e la poesia di un altro tempo, quando il rapporto fra l’uomo e la natura, in particolare fra l’acqua e le necessità pratiche del lavoro e della vita urbana, era molto più esplicito e visibile di quanto non sia oggi. Le nuove generazioni, che non sano nulla, perché non resta quasi più nulla da vedere e perché nulla è stato detto da chi doveva tramandare la memoria del passato, rischiano di crescere in un deserto non solo culturale ma anche psicologico e affettivo. Solo se conosciamo la nostra storia possiamo rafforzare la nostra vacillante identità e capire con chiarezza chi siamo e cosa stiamo a fare in questo mondo. E scusate se è poco: il segreto del vivere è tutto qui.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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