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Omaggio alle chiese natie: Sacro Cuore di Gesù

La chiesa del Sacro Cuore di Gesù e San Valentino è una chiesa moderna: sorge in uno spiazzo alla fine del cavalcavia Simonetti, nel punto di congiunzione con via Cividale, dove questa descrive un’ampia curva, proprio di fronte alla vasta recinzione della caserma Spaccamela. È stata costruita nel 1925, quando tutta questa zona era ancora praticamente campestre, e solo lungo via Cividale sorgevano delle case sparse, però stava iniziando una fase di espansione edilizia. I lavori procedettero alquanto spediti e nel giro di neppure un anno l’intero edificio, in stile neoromanico, era stato iniziato, terminato e consacrato. La chiesa ha un impianto basilicale classico, a tre navate, con il tetto del presbiterio che è il semplice prolungamento della navata centrale, l’abside esagonale più basso del resto, ed è orientato con la facciata verso sud anziché verso ovest, in modo da allinearla con la sede stradale antistante, molto più bassa del sagrato. L’edificio ha uno sviluppo fortemente verticale, la facciata tripartita è bicroma per l’alternarsi dei mattoni rossi a vista e degli elementi in pietra banca, compreso il protiro a capanna ad arco; due alte e strette bifore sulle facciate laterali e un rosone, molto più in alto, su quella centrale, in modo da conferire all’insieme un forte slancio ascensionale; tre portoni, d’ingresso, piccoli i due laterali, grande quello centrale, col protiro. L’interno è semplice, luminoso, riposante e accogliente per l’estrema sobrietà della decorazione, scandito dalla fuga delle colonne della navata centrale sormontate da capitelli corinzi e reso suggestivo dall’alto soffitto a capriate; l’affresco del Sacro Cuore di Gesù occupa interamente la parete di fondo dell’abside ed è, a motivo delle sue gradi dimensioni, oltre che per la sua centralità prospettica, che lo sguardo di chi entra corre immediatamente lì, ricordandogli la dedicazione della chiesa. L’atmosfera è favorevole al raccoglimento, grazie all’ambiente proporzionato, armonioso, simpaticamente disadorno e ben scandito nei suoi spazi architettonici, con la luce che entra copiosa dalle alte finestre laterali. Spiace, tuttavia, che l’abside la riceva non dall’alto, ma, anche’esso, da due alte e strette finestre laterali, che spezzano l’unità dell’insieme e interrompono la decorazione, perché ciò crea un elemento di disarmonia a livello prospettico e attenua il senso della trascendenza a livello mistico e simbolico. Un difetto che sarebbe stato facilmente evitabile e che, insieme all’orientamento non tradizionale dell’edificio, anch’esso non necessario visto che ci sarebbe stato lo spazio sufficiente per rispettarlo, tradisce una certa noncuranza moderna nei confronti della tradizione.

Sia dal punto di vista architettonico che per l’epoca in cui è stata costruita, questa chiesa si può considerare la gemella della chiesa del Cristo, in via Marsala, che fu eretta subito dopo e con gli stessi criteri stilistici, al punto che le due facciate si somigliano moltissimo; e riflette il fervore dell’edilizia sacra che si ebbe negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, sia per ampliare o ristrutturare i vecchi edifici, sia per crearne di nuovi, in vista dell’aumento della popolazione. Così, questa chiesa ci parla di un’epoca felice, in cui c’era un alto tasso di natalità e l’avvenire, pur con tutte le sue incertezze, non si presentava tale da scoraggiare i matrimoni e la formazione di nuovi nuclei familiari; ci parla di un’Italia che si leccava le ferite della Grande guerra (che qui aveva comportato l’invasione e un anno di occupazione dell’esercito nemico, con la conseguente fuga di moltissimi abitanti) e che tuttavia guardava avanti, piena di slancio e di entusiasmo; un’Italia molto diversa da quella di oggi, stanca e sfiduciata, che aveva ancora una notevolissima riserva di fiducia in se stessa e di ottimismo riguardo al domani. Oggi, invece, girando per la città, si nota che parecchie chiese sono chiuse, o sono state sconsacrate e destinate a usi profani, oppure — il che ci sembra il male minore – sono state cedute a delle comunità ortodosse, non solo in periferia, ma anche in pieno centro, come quella di San Cristoforo; e fra esse perfino quella del seminario. Il quale, a sua volta, si è trasferito altrove, unendosi ai due ex seminari di Gorizia e Trieste, ma riuscendo a conservare solo una modestissima schiera di studenti e futuri sacerdoti, mentre il peso principale delle parrocchie ricade su preti sempre più anziani, che sono pressoché obbligati a restare in servizio ben oltre i normali limiti di età, per assicurare almeno una parvenza di continuità nello svolgimento delle loro delle funzioni. E la crisi, anzi il crollo, delle vocazioni, non riguarda solo il clero secolare, ma anche quello regolare: valga per tutti l’esempio della partenza dei cappuccini da questa città, dopo una permanenza di quattro secoli e mezzo, i quali avevano ben due conventi, uno in centro, quello della Madonna della Neve, in via Ronchi, e uno in periferia, quello di via Chiusaforte, ma che sono stati chiusi entrambi, il secondo dopo appena tre lustri di vita, gelando le speranze dei padri superiori e frustrando le rosee previsioni che avevano spinto quei religiosi a far costruire un complesso imponente, con ben cento celle per i confratelli che, si prevedeva, sarebbero ben presto arrivati.

Questo è il segno evidente, quasi tangibile, del declino non solo demografico, ma anche vocazionale e religioso della città, in linea con quel che succede in tutta l’Italia e in tutta l’Europa, un continente ormai moribondo e sempre più popolato da stranieri, arrivati in maniera incomprensibile, e favoriti in ogni modo dai governanti e dagli stessi vertici della Chiesa, benché siano, in gran parte, completamente estranei alla sua tradizione e ai suoi valori: il che fa pensare a una abdicazione volontaria della nostra civiltà e quasi ad un progetto di autodistruzione, perseguito da poteri occulti dietro la maschera politicamente corretta dell’accoglienza, della solidarietà e dell’inclusione, assurte ormai al rango di parole magiche, che tutti adoperano senza vagliarne la reale corrispondenza con le cose che indicano. Se volessimo paragonare la vita spirituale di una società alla rete idrografica che innerva e rende feritile una regione, allora dovremmo parlare di un rapido, impressionante processo di desertificazione, con la portata d’acqua dei fiumi che diminuisce sempre più, fino a quando non restano che i letti nudi e desolati, dal fondo sassoso, su cui si vedono boccheggiare gli ultimi pesci rimasti intrappolati, all’asciutto. Ma una società senza preti, frati e suore è una società che si avvia inesorabilmente al suo tramonto, proprio come una regione i cui fiumi s’inaridiscono e non giungono più al mare, è destinata alla fine: la terra riarsa non potrà più dare i suoi frutti, e le generazioni di uomini che vi si sono avvicendante dovranno partire e andarsene altrove a cercare, sotto un cielo più ospitale, nuove opportunità di lavoro e di vita. A casa resteranno solo i vecchi più ostinati, o più rassegnati, a contemplare tristemente, con il cuore stretto nella morsa di una bruciante nostalgia, le rovine di quel mondo che avevano conosciuto da ragazzi, e che avevano contribuito a rendere bello, laborioso e pieno di vita, sperando di vederlo un giorno, come era stato per i loro genitori e per i loro nonni, ricco di animazione e reso festoso dalla presenza dei nipotini, pegno di una continuità e di una perennità della stirpe. Un tempo si credeva, e i signori della sinistra lo hanno insegnato nelle scuole e ripetuto da ogni pulpito, che le vocazioni religiose sono una specie di anomalia, se non una patologia vera e propria: i marxisti dicevano che erano il prodotto della alienazione religiosa, e gli psicanalisti le spiegavano in termini di repressione sessuale, di nevrosi e di senso di colpa per qualche oscuro e indicibile trauma infantile. E si citava sempre l’esempio classico della Spagna cattolica nel XVI e nel XVII secolo, per sostenere che quando una società produce troppi sacerdoti e troppi religiosi, invece che mercanti, artigiani, banchieri, quello è il segno infallibile della china discendente che essa ha imboccato, e che la condurrà alla rovina; mentre si evidenziava con molto compiacimento, per contrasto, l’ascesa politica e la prosperità economica dell’Inghilterra protestante, nello stesso periodo di tempo. Oggi, ahimè troppo tardi, si comincia a capire che le vocazioni religiose non sono un di più, un lusso o uno spreco che la società si concede; che gli uomini e le donne chiamati a seguire la chiamata divina non sono dei disertori, dei disadattati, delle bocche inutili da sfamare e quasi dei parassiti della società, perché consumano senza produrre, ma che sono, al contrario, come il sistema di fiumi e di laghi che rende fertile una regione, o come il sangue che circola nelle vene e nelle arterie di un organismo vivente. Se il loro numero cala vertiginosamente, se i conventi si svuotano, se le chiese vengono abbandonate e sconsacrate, è l’intero corpo sociale che perde la sua vitalità, la sua coesione, e anche la sua speranza nel futuro. I figli sono importanti, importantissimi, e quindi è necessario che una società ne faccia; ma non meno importante, anzi, perfino più importante, è la filiazione spirituale: anche se non fanno figli, gli uomini e le donne consacrati a Dio rendono alla società un servigio inestimabile, perché, oltre a preservare i legame di essa col divino, che altrimenti si spezzerebbe, fungono anche da serbatoio di riserve spirituali e da modello positivo per i giovani, i quali, anche se, in apparenza, lo snobbano, non possono però fare a meno, magari a livello inconscio, di ammirare la forza spirituale, la coerenza, la serenità e l’armonia interiore di quelle persone, le quali rappresentano, per il solo fatto di esserci, qualcosa di simile a delle fresche oasi verdeggianti nel deserto, senza le quali nessun viaggiatore potrebbe arrivare in quei luoghi. Pertanto la loro presenza getta un seme che cade nel terreno e può sembrare, sul momento, che vada perduto, ma forse produrrà frutti abbondanti più tardi, quando meno lo si aspetta.

Abbiamo saputo che il parroco della chiesa del Sacro Cuore di Gesù, don Roberto Gabassi, già da molti anni, a causa appunto della scarsità di sacerdoti, è stato richiesto dall’arcivescovo di occuparsi anche delle parrocchie del Buon Pastore e di San Gottardo, le altre due chiese che sorgono nell’area a settentrione di via Cividale. Ciò vuol dire che deve occuparsi della cura di qualcosa come 12.000 anime, tale è la popolazione di questo vasto quartiere, una parte del quale, la zona di via Di Giusto, è considerata anche particolarmente difficile. Oltretutto don Gabassi non è più un giovanotto, nel 2018 ha festeggiato i quarant’anni della sua ordinazione sacerdotale, e deve occuparsi anche degli anziani genitori, venuti a vivere con lui. Seguire contemporaneamente tre parrocchie, con un totale di 12.000 abitanti, è un’impresa decisamente improba: 12.000 abitanti sono il doppio, il triplo o il quadruplo di quanti ve ne sono in centinaia di comuni italiani. È quasi impossibile che un solo sacerdote riesca a fronteggiare un simile impegno, pur tenendo conto che oggi molte persone non desiderano aver niente a che fare con la parrocchia, non fanno battezzare i figli, non li mandano alle lezioni di catechismo e non domandano esequie religiose per i loro congiunti; e ciò senza contare gli stranieri di altra religione, che pure sono una bella fetta degli abitanti di questa città, circa il 14%. Paradossalmente, questo calo della domanda di assistenza religiosa alleggerisce un po’ la pressione sui pochi sacerdoti che devono affannarsi per assicurare un minimo di cura pastorale, e che, nonostante il ricorso alle cosiddette collaborazioni pastorali, in pratica la fusione di più parrocchie in una sola, sono sempre troppo pochi. D’altra parte, il problema essenziale dei parroci, oggi, non è un problema che si possa considerare solo in termini quantitativi; al contrario, è prima di tutto un problema di ordine spirituale, morale e culturale. Un deserto morale ha preso il posto, nelle anime, della vecchia pratica religiosa, quella tramandata dalle generazioni precedenti e lasciata cadere nel vuoto in questo mutamento di paradigma, fra la piena modernizzazione della metà del ‘900 e i giorni nostri, giorni di globalizzazione, relativismo e indifferentismo religioso (indifferentismo nel senso tecnico, teologico, del termine: l’accordare la propria preferenza a una religione qualsiasi, magari per ragioni emotive o addirittura di comodo, senza preoccuparsi del suo contenuto di verità). E qui il discorso sul come fare pastorale, oggi, si salda con l’altro discorso, sull’inaridimento spirituale della società, che produce, a sua volta, scarsità di vocazioni religiose. A nostro parere, la Chiesa non sta perdendo adesioni perché il mondo si sta sempre più secolarizzando, dal momento che il mondo è già da tempo secolarizzato, ma soprattutto a causa del fatto che ha rinunciato al suo ruolo specifico e che, nel vano tentativo di recuperare consensi, si è messa a parlare un linguaggio sempre più simile a quello del mondo. In altre parole, è la Chiesa che si secolarizzata: e una chiesa di tal fatta (che scriviamo, appunto, con la minuscola) non ha più niente da offrire, il che spiega il crollo delle vocazioni. Un giovane non si sente spinto a entrare in seminario per trovare delle cose simili a quelle che offre il mondo, ma per trovare delle cose diverse: una visione e una pratica di vita radicalmente alternativa rispetto a quella del mondo. Perciò è un grande equivoco e un tragico errore quello di voler fare dei preti degli operatori sociali: il prete deve fare il prete, essere un uomo di Dio; l’amore del prossimo, in lui, deve manifestarsi principalmente attraverso l’esempio della santità, con la preghiera, l’adorazione, il servizio divino. Occuparsi dei bambini, dei poveri, degli emarginati, tutte queste cose vanno bene, nella misura del possibile, purché non stravolgano la sua prospettiva pastorale: che deve far perno su Dio. Il suo compito è salvare le anime portandole a Lui; e non si portano le anime a Dio se si fa quello che fa il mondo. Perciò, trovandosi a dover operare una scelta, il sacerdote, oggi, non deve fare come Marta, affannandosi per mille cose, ma come Maria: deve scegliere la parte migliore, che non gli verrà tolta, e darne l’esempio anche agli altri…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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