
Omaggio alle chiese natie: Sant’Andrea
15 Agosto 2018
Come se li è lavorati bene quei preti, il diavolo
15 Agosto 2018La chiesa di Santa Maria della Misericordia è la chiesa che si trova all’interno dell’Ospedale di Udine, nome completo odierno: Azienda Sanitaria Universitaria integrata, intitolata appunto a Santa Maria della Misericordia. Le origini dell’ospedale sono molto antiche, risalgono al XIII secolo, quando esisteva in città una Confraternita dei Battuti che si occupava dell’assistenza ai malati. Nel 1775 l’ospedale fu intitolato a Santa Maria della Misericordia e in esso confluirono tre confraternite laiche. Dalla seconda metà del 1700 alla metà del 1900 l’ospedale dei Battuti, detto Ospedale Grande e affidato ai francescani del vicino convento, ebbe sede nel palazzo appositamente costruito sul modello dell’ospedale Maggiore di Milano, oggi adibito a Tribunale. Ai primi del ‘900 si avvertì la necessità di dotare la città di una struttura molto più grande e così, nel 1924, ebbero inizio i lavori per la costruzione di un nuovo Ospedale civile, in via Forni di Sotto, località Chiavris, alla periferia nord-occidentale. I lavori dell’imponente complesso subirono una pausa durante la Seconda guerra mondiale, che vide anche alcuni pesanti bombardamenti alleati ai danni del primo lotto, terminato nel 1938, che causarono gravi danni. Ripresi i lavori al termine del conflitto, negli anni ’50 furono terminati sia il secondo lotto che la chiesa di Santa Maria della Misericordia; alla fine degli anni ’60 il complesso era stato sostanzialmente ultimato, anche se per il ventennio successivo vi fu ancora una notevole attività edilizia, per il continuo ampliamento della struttura, destinata a diventare una delle più importanti sedi ospedaliere d’Italia.
La chiesa interna dell’ospedale è una snella costruzione moderna progettata dall’architetto Giacomo Della Mea, autore di diverse opere sacre in Friuli e fuori, personalità peraltro già pervasa da un certo spirito conciliare ancor prima del Concilio. Per la decorazione delle pareti esterne e interne, volte a celebrare la misericordia della Vergine Maria verso l’umanità sofferente chiamò una squadra di artisti che hanno impreziosito l’edificio sacro con alcune delle opere più interessanti degli anni ’50: Fred Pittino, cui si devono i mosaici; Luciano Bartoli, per le vetrate; Max e Giulio Piccini, che hanno scolpito le sculture; ed Ernesto Mitri, che ha realizzato i graffiti. L’edificio, preceduto da un atrio con pronao a colonne cilindriche e una cupola a ombrello conclusa da una lanterna, è a pianta centrale, con una cripta circolare e un abside sopraelevato contenente l’altare maggiore e i due altari laterali. Iniziato nel 1957, fu terminato nel 1959 e consacrato dall’arcivescovo monsignor Giuseppe Zaffonato il 20 novembre di quell’anno. La Cappellania Ospedaliera di Santa Maria della Misericordia ha curato una bella pubblicazione, riccamente illustrata, dal titolo La chiesa Santa Maria della Misericordia nell’Ospedale Civile di Udine, pubblicata nel 2003 e consultabile anche online, dalla quale riportiamo queste righe di Gian Carlo Menis (pp. 7-9):
Ai lati del portale d’ingresso si dispongono due graffiti dell’artista Ernesto Mitri raffiguranti "La risurrezione di Lazzaro" e "La guarigione del cieco di Gerico", due episodi dell’opera taumaturgica di Gesù, che danno sollievo e speranza. I quattro maniglioni di bronzo dei portali d’ingresso dello scultore Max Piccini rappresentanti angeli oranti ne sono la felice conferma. A lato del portale si possono ammirare i vetri istoriati con la raffigurazione delle "Opere di misericordia".
Entrando nell’ampia aula si resta quasi abbagliato dallo smagliante mosaico absidale con al centro la Madonna seduta con le braccia aperte, quasi ad accoglierti pietosa, opera di Fred Pittino, nella realizzazione della scuola del mosaico di Spilimbergo. Tutto passa in second’ordine dinnanzi a questa visione felice che invita alla contemplazione e alla preghiera.
Lentamente, lo sguardo osserva l’ambiente, i mosaico ci circondano la Vergine, l’altare maggiore, gli altari laterali con le pale a mosaico, le slanciate vetrate istoriate, la Via Crucis bronzea, la bella cupola centinata con la vistosa stella accentrata da un disco multicolore. Tutta una festa di colori e di forme che incanta ed affascina. La seducente "Via Crucis" bronzea dello scultore Max Piccini è una piccola silloge (cm. 30 x 30) delle quattordici scene del cammino di Gesù al calvario, realizzate nel 1961. Le figure degli sgherri si muovono indifferenti intorno all’uomo di Dio, Gesù, con gesti alteri e disarticolati. Il Salvatore, chiuso nel suo silenzio provocatorio, in piedi davanti al giudice, o caduto a terra sotto il peso della croce, rende la rappresentazione tragica e carica di tensione.
L’occhio, quindi, sale ad ammirare le vetrate istoriate sulle pareti dal Prof. Luciano Bartoli, che illustrano i misteri del Rosario. (…)
Ma il mosaico della parete di fondo del coro splendente di riflessi dorati, attira la vista e piega l’anima alla supplica. La grande croce che si staglia sullo sfondo dà corpo all’intera composizione, portandola ad unità. I quattro simboli del Vangelo, l’Angelo di Mattei, il bue di Luca, il leone di Marco e l’aquila di Giovanni, con i nomi dei quattro evangelisti iscritti sui libri aperti, Matheus, Lucas, Marcus e Johannes, ne sottolineano la gravità.
Al centro della croce, tra un tripudio di angeli che spiccano sui bracci laterali, si colloca la "Santissima Trinità". Il Padre, in vesti maestose e con il volto coronato dal triangolo trinitario, regge con la mano sinistra il mondo coronato dalla croce e con la destra benedice.. Il Figlio, in abiti solenni e con la testa coronata di un serto dorato, regge la croce. Lo Spirito Santo, in forma di colomba, spira dall’alto raggi dorati. Attorno alla Trinità si sprigiona una cascata di raggi d’oro.(…)
Al centro del coro è posto l’altare maggiore per la celebrazione della Santa Messa. Otto colonne di marno rosso screziato con i capitelli bianchi, reggono la semplice mensa eucaristica.
Addossata al centro della parete è collocata la cattedra per il celebrante e le sedi dei concelebranti, dell’architetto Federico Marconi. A destra si dispone l’ambone per le letture liturgiche dietro una semplice quinta di marmo.
Siamo stati diverse volte in ospedale, da bambini, e abbiamo ammirato la chiesa e varcato il portone, però nessuno ci aveva mai spiegato che quel semplice circolare, posto fra i padiglioni all’inizio del vasto perimetro interno, è un vero scrigno di opere di pittura, scultura e mosaico della metà del Novecento, nonché una importante testimonianza dell’ultima fase creativa dell’arte sacra ispirata dalla millenaria spiritualità del cattolicesimo. Pochi anni dopo sarebbe venuto il Concilio Vaticano II con la svolta antropologica di Karl Rahner, e i pessimi riflessi del suo preteso spirito avrebbero soffiato come un vento invernale di tempesta anche nell’ambito dell’arte sacra, gelando e intirizzendo l’ispirazione degli artisti dotati di una vocazione religiosa. Fino all’inizio degli anni ’60 si possono ancora ammirare, in tutti i Paesi cattolici, delle opere d’arte pregevoli, delle soluzioni architettoniche originali, come nel caso della chiesa dell’Ospedale di Udine. Nella scultura e nella pittura vi è ancora un riflesso della creatività degli anni ’30 e dei primi anni ’40, poi tanto calunniata, incompresa o ignorata dagli storici dell’arte ideologicamente inquadrati. Bisognava gettar via tutto ciò che l’Italia aveva prodotto negli anni del fascismo, per far dimenticare, così, il fascismo stesso; e si fu ingenerosi e masochisti verso se stessi, si volle buttar via il bambino insieme ai panni sporchi. Non si volle riconoscere, per esempio, che il tanto decantato neorealismo cinematografico, in ciò che esso ha di migliore, era nato proprio nell’ambito del cinema degli anni "del regime", e che è dalle falde del cappotto di Alessandro Blasetti che son usciti i vari De Sica, Rossellini, eccetera. Allo stesso modo, si volle tirare un rigo sopra la pittura degli anni ’30 e si fece torto, non solo a grandi artisti, come Pino Casarini e Alessandro Pomi, per esaltare il banale Renato Guttuso, che aveva il solo merito di essersi politicamente allineato, ma a un decisivo capitolo della nostra civiltà artistica e alla logica continuità nella sua evoluzione, mettendo fra parentesi un ventennio, tra la metà degli anni ’20 e la metà degli anni ’40, cancellando il quale, evidentemente, non è più possibile capire nemmeno gli sviluppi successivi.
Di fatto, se si vuole vedere ciò che di buono, di vivo, di fresco aveva da offrire l’ispirazione religiosa all’arte del Novecento, bisogna venire ad ammirare edifici come questo, che non sarà un capolavoro, ma certo ha qualcosa da dire, e sa dirla con coerenza e con innegabile senso dell’unità compositiva; mentre a partire dalla fine degli anni ’60, e poi, dagli anni ’70 cominciano a proliferare le bruttissime chiese post-conciliari, le opere "sacre" che non hanno più nulla di sacro, i Cristi e le Madonne che non alimentano la pietà e la devozione, ma che hanno, semmai, qualcosa di repulsivo, che allontana l’anima dal pensiero di Dio. Il culmine di questa degenerazione e di questo stravolgimento del sacro, che conclude assai malamente duemila anni di splendida fioritura dell’are religiosa in Italia, si può vedere, ai nostri giorni, nelle brutte pitture del gesuita Ivan Rupnik (sempre i gesuiti…) che ci mostrano un Gesù del tutto privo di maestà, di grazia, di dolcezza, di spiritualità, e delle figure di Santi, di Madonne, di Angeli, le quali vorrebbero richiamare, in qualche modo, la grande tradizione medievale, e soprattutto quella delle icone russe, ma sono semplicemente sgradevoli, perché prive della cosa essenziale: un vero afflato religioso, fondato sul senso della trascendenza. Perfino le illustrazioni dei Messali solo state contaminate da questo sottile spirito di eresia, d’immanenza, di antropocentrismo, che stempera e banalizza ciò che di autenticamente spirituale e soprannaturale vi è nel cattolicesimo. Un anziano sacerdote — che non è, si badi, e non è mai stato, un "nemico" del Concilio Vaticano II in quanto tale – ci ha detto una volta, sconsolato: Io questi Messali moderni non riesco a usarli, mi danno fastidio quelle figure, non possono guardarle. Avviliscono la divinità di Cristo, mi provocano disagio e sofferenza. E così, faccio finta di non vederle e tiro avanti. Chissà quanti ce ne sono, come lui. Ma è dura: l’arte sacra e la musica sacra sono sempre state un aiuto potentissimo per la fede; conosciamo personalmente un sacerdote che ci ha confessato di aver sentito la sua vocazione, da bambino, soprattutto ascoltando, in chiesa, i canti gregoriani, specie nelle festività solenni, il Natale e la Pasqua.
Ma c’è un’altra cosa da osservare, a questo proposito. L’arte sacra ha una duplice funzione: elevare l’anima verso Dio e trasmettere al fedele la certezza che le cose hanno un senso, a cominciare dalla sofferenza. In un ospedale, per esempio, non si entra per una gita di piacere, ma perché si vive una situazione di sofferenza; e chi entra nella chiesa di un ospedale, non cerca solo consolazione, ma anche e soprattutto la conferma che la sua sofferenza ha un significato, che non è inutile, e che, se vissuta con fede, si trasforma in un ponte meraviglioso che Dio getta verso di noi (e non che noi gettiamo verso di Lui, Karl Rahner, Walter Kasper ed Enzo Bianchi permettendo). Ora, la neochiesa ha completamente smarrito il senso della sofferenza, perché ha smarrito il senso della croce, quella di Cristo e quella degli uomini. Per essa Cristo non è tanto il Salvatore e il Redentore, perché, in fondo, essa pensa che l0uomo sia capace di salvarsi da solo, e perché la Redenzione passa per la croce, ma è il modello umano perfetto: più umano che divino Dunque, la neochiesa non sa confortare chi soffre, e infatti, il signore argentino che siede sulla cattedra di San Pietro ha detto più volte, pubblicamene ed enfaticamente, anche a dei bambini che lo interrogavano, di non per spiegare il mistero della sofferenza, e, peggio ancora, li ha essi in guardia contro quanti dicono di saperlo. In pratica, li ha messi in guardia contro la vera Chiesa e contro Gesù Cristo, il quale disse: Chi vuole esse mio discepolo, prenda su di sé la sua croce, e mi segua. È logico che l’arte "sacra" della fase posteriore al Concilio non sia né di consolazione, né di conforto alle anime: anch’essa ha smarrito il senso della croce. I suoi Cristi crocifissi paiono dei poveracci condotti al macello, senza un senso, senza una speranza. È la vecchia tesi, cara a certa saggistica d’ispirazione ebraica, secondo la quale Gesù non voleva morire, come recita il titolo del libro di H. J. Schonfield. Roba vecchia e datata, fritta e rifritta, ma sempre buona per i baldi neopreti, che arrivano in ritardo di cinquanta o cento anni rispetto alla teologia protestante e neomodernista, e credono di essere all’avanguardia di chi sa mai quale rinnovamento "nello spirito conciliare". Abbiamo detto che la neochiesa ha smarrito il significato della croce e della sofferenza; precisiamo che, secondo ogni evidenza, lo ha voluto smarrire, il che non è proprio la stessa cosa. C’è un piano, c’è un disegno, almeno ai livelli superiori. Ai livelli inferiori c’è solo tanta ignoranza, tanta superbia e tanta faciloneria. Ma chi sta in alto, sa bene quel che sta facendo; e se lo sa, vuol dire che il suo obiettivo è smantellare la Chiesa e dissolvere la fede. Nell’arco di soli cinquant’anni ha fatto dei progressi straordinari e pare giunto vicinissimo alla meta. Molti nostri amici pensano che tutto sia perduto e si sono completamente persi d’animo. Noi come Léon Bloy invece dei giornali leggiamo l’Apocalisse: era stato già annunziata ogni cosa 2000 anni fa. La prova è giunta: ma Dio scriverà l’ultima parola…