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Omaggio alle chiese natie: Santo Spirito

La chiesa di Santa Elisabetta, o, come qui la chiamano tutti, di Santo Spirito, è veramente un caso particolare: è nello stesso tempo una delle più belle del 1700, per non dire delle più belle in assoluto, e una delle meno conosciute e frequentate. È la chiesa del convento delle suore Ancelle della Carità, situato in via Crispi, all’altezza del Largo Ospedale Vecchio, ed è anche la chiesa cittadina in cui si tiene regolarmente la celebrazione della santa Messa secondo il Vetus Ordo tridentino. L’esterno può trarre facilmente in inganno: un po’ insolito, con la sua struttura ottagonale preceduta da un avancorpo più basso con timpano triangolare e trabeazione spezzata, ma nello stesso tempo spoglio, disadorno, con superfici bianche e lisce, pochissime finestre e una facciata in aderenza alle case vicine, e il campanile che, dalla strada, si scorge a fatica, nonostante l’originalità della struttura e le dimensioni non piccole, tende a passare relativamente inosservato, come se non volesse disturbare nessuno. E invece, una volta varcato il portone — quasi sempre aperto — si scopre un autentico gioiello: un ambiente architettonicamente perfetto, equilibrato, armonioso, che ha la leggerezza e l’ariosità del tardo stile barocco ma anche una classica sobrietà e una essenzialità che derivano da uno spazio meravigliosamente scandito secondo il ritmo delle linee ascensionali e il vigoroso rilievo dei chiaroscuri. Entrare in questa chiesa è come passare in un altro mondo, in un altro universo. L’anima prova un senso di raccoglimento e insieme di espansione, come se respirasse più liberamente e vedesse più in alto.

Così la descrive Maurizio Buora nella sua Guida di Udine (Trieste, Lint, 1986, pp. 281-83):

Notizie della prima chiesa risalgono alla fine del Trecento (1395); essa fu restaurata nel 1527 e forse in quell’occasione fu fornita di un portico in facciata. Passò poi alle Pinzochere, ovvero Terziarie francescane, che nei pressi tenevano un educandato e vi stettero dal 1665 al 1753. La chiesa attuale è dovuta al progetto di Giorgio Massari (1738-1743). L’altar maggiore è opera di Giuseppe e Giovanni Mattiussi (1752-1753). Lavori di modifica si ebbero nel 1764. Dal 1885 è tenuta dalle Ancelle della Carità, già in servizio presso l’ospedale civile.

Il progetto del Massari, poi copiato da un suo seguace per la chiesa di S. Carlo a Gorizia, è in parte diverso nei disegni conservati. "La pianta, costituita da un vano centrale quadrato con angoli concavi circondato da ampie cappelle, esedra absidale semicircolare preceduta da vano quadrato ai cui lati è il coro (fu eseguito solo il vano centrale) è testimonianza della sua indiscutibile capacità di adeguare moduli del repertorio classico alle richieste del nuovo stile in una piacevole quanto abile ambiguità" (Bergamini, 1984). La decorazione moderna dell’interno non rispetta il respiro originale del progetto. All’interno di segnalano i dipinti del soffitto con la "Trinità" e l’"Assunta" di F. Zugno (sec. XVIII) e una pala di P. Venier. Erano qui due quadri di G. B. Cignaroli, la "Morte di S. Giuseppe", poi trasferito nella chiesa della Pietà, e "Madonna con due Santi" (firma e data 1783), successivamente portato nella chiesa di S. Giorgio.

Questa chiesa, centrale eppure appartata, che pare non voglia farsi notare tanto è discreta, ma che ricompensa con eccezionale munificenza la curiosità di chi voglia rubare qualche minuto alle sue faccende ordinarie per entrare e ammirarne l’interno, ci è particolarmente cara per il fatto di ospitare, come abbiamo detto, due domeniche al mese, la seconda e la quarta, alle undici, la santa Messa secondo il Vetus Ordo. Il lettore interessato può andare sul sito Biel lant a la Messe e vi troverà le immagini della Messa in latino celebrata l’8 febbraio 2009, accompagnata dal coro Vôs di Muzane di Muzzana del Turgano; e potrà sentire l’audio dei momenti essenziali della Messa: l’introduzione, il canto d’inizio, un estratto dalla sequenza al Vangelo, l’omelia, l’Agnus Dei e la benedizione, infine il canto Suspîr da l’anime del compianto Oreste Rosso.

Affrontare la questione della Messa tridentina significa confortarsi con il nodo centrale della questione. Ci si può girare attorno fin che si vuole; la si può snobbare, o minimizzare, o banalizzare; la si può ridurre a una questione di forma, di nostalgia, di memoria: e invece è una questione di sostanza. Quanto più si confronta il Novusu Ordo Missae, l’unico che la stragrande maggioranza dei cattolici oggi conoscono, e l’unico che i giovani abbiano mai conosciuto, con la Messa di Pio V, e quanto più si riflette e ci s’interroga onestamente, tanto più si giunge ad un’unica conclusione: non sono due riti diversi della stessa cerimonia; sono proprio due cerimonie differenti. Non vogliamo dire, con questo, che la Presenza Reale di Gesù Cristo non ci sia nella nuova Messa; niente affatto: ma siccome gli uomini sono uomini, e non Angeli, e hanno bisogno di tutti gli strumenti e gli accorgimenti necessari per accostarsi al Mistero di Dio, anzi al Mistero più grande della religione cattolica, che è il Sacrificio eucaristico, allora risulta evidente quale immensa imprudenza, quale sconsiderata semplificazione, quale sopravvalutazione inescusabile della natura umana sia stata compiuta quando si volle sostituire la Messa di Paolo VI a quella di prima. in vigore dal Concilio di Trento, cioè da quattro secoli, che era uguale per tute le diocesi e le parrocchie sparse nei cinque continenti e si celebrava nella stessa lingua, quel latino ecclesiastico che è sempre stato un elemento di unificazione spirituale e psicologica fra le centinaia di milioni di fedeli appartenenti a popoli e civiltà diversi. Né si può ridurre il significato della cosiddetta riforma ai suoi singoli aspetti esteriori e stemperarlo, dissolvendolo, in una quantità di frammenti indipendenti, perché la questione non riguarda singoli aspetti, per quanto importanti, come l’abolizione del latino (peraltro mai decisa da alcuno e del tutto assente nei documenti conciliari) o, più tardi, la decisione di distribuire la Comunione sulla mano dei fedeli, sino alle forzature di quei sacerdoti i quali rifiutano di comunicare i fedeli in bocca e pretendono che tutti si adeguino al nuovo uso. No, non sono i singoli gesti e le singole parole, ma è tutto l’insieme dell’atmosfera che è radicalmente cambiato: assistere alla vecchia e alla nuova Messa e rendersene conto all’istante è una sola cosa. È sparita la trascendenza; è sparito il timor di Dio; tutto si è abbassato al livello di una celebrazione umana: non si sente più il respiro dell’infinito. Per cui, se anche — ipotesi quanto mai fantasiosa — domani qualcuno decidesse di ripristinare i vecchi altari, facendo rimuovere quelle orribili tavole di marmo che sfigurano i presbiteri delle chiese, le quali vennero costruite con l’anima rivolta al Santissimo e non alla cosiddetta assemblea dei fedeli; se anche qualcuno decidesse di ripristinare i paramenti sacri di prima del Concilio, e il sacerdote si presentasse col piviale e il tricorno col fiocco, di per sé non cambierebbe niente, non farebbe alcuna differenza, perché quello che si è perduto, e che occorre assolutamente ripristinare, è il giusto atteggiamento dell’anima e la giusta disposizione spirituale e morale.

Il punto non è se scambiarsi il gesto di pace, stringendosi le mani e creando subbuglio nei banchi, sia, in sé e per sé, giusto o sbagliato, e neppure se sia giusto eseguire musiche moderne, con la chitarra, e con degli arrangiamento musicali, per non dire dei testi, che sanno più di ballo in spiaggia che di Messa: quel che importa è sapere se, quando ci si reca alla santa Messa, si pensa, oppure no, che si va incontro al Cristo che si offre nel Sacrificio eucaristico, e quindi ci si va con tutta l’umiltà possibile, con la piena coscienza dei propri peccati, con la limpida intenzione di lasciarsi investire dalla grazia divina per convertirsi e cambiar vita, permettendo la nascita dell’uomo nuovo, l’uomo spirituale, al posto del vecchio uomo carnale, che sempre è agitato da mille passioni, perché spinto dal pungolo della concupiscenza. Se esiste questa chiara consapevolezza, tutto il resto diventa, non diciamo secondario, ma una logica conseguenza: lo stile che si adotterà nel corso della Messa sarà l’effetto di questo desiderio di conversione. E perciò, a monte della Messa, c’è il sacramento, oggi alquanto negletto, della Confessione o Riconciliazione: una buona Confessione è la premessa indispensabile per una partecipazione fruttuosa alla Messa. Se l’anima non si riconcilia con Dio prima di presentarsi all’incontro con il Signore e, ovviamente, prima di ricevere la santa Eucarestia, allora il "fedele" non mangia il Corpo del Signore, ma la propria dannazione. E anche qui non si può tacere che il signor Bergoglio ha fatto del suo meglio, o del suo peggio, per confondere le carte e per turbare le anime, quando ha detto, nella Messa per il Corpus Domini del 2015, che l’Eucarestia non è un premio per i buoni, concetto trionfalmente ripreso da Famiglia Cristiana e da tutta la stampa ex cattolica ed ora ferventemente bergogliana. Come sempre, ha detto con aria convinta una mezza verità, perché la Messa è anche un premio per i buoni, vale a dire per quanti, con il sacramento della Confessione, si sono riconciliati con Dio, così come è un aiuto soprannaturale per perseverare nella vita buona, che è la vita in grazia di Dio; in ogni caso, non è, come ha detto il signore argentino, un vincolo di comunione che ci aiuta a non disgregarci, perché questi sono concetti puramente umani, che non hanno niente a che col Mistero eucaristico, e per giunta sembrano preludere alla trasformazione dell’Eucarestia ad un semplice simbolo, a una semplice commemorazione dell’Ultima Cena, come per i suoi amici protestanti. Ma anche questa, in fondo, è una manovra prevedibile, diremmo quasi scontata: la Presenza Reale, di Gesù Cristo, infatti, dà fastidio. Dà fastidio a chi vuol entrare in chiesa e partecipare alla Messa non per convertirsi dai peccati e cambiar vita, ma per perseverare nei peccati e chiamare Dio, empiamente, a testimonio della loro perfetta liceità.

La questione è, in sostanza, tutta qui. La liturgia non è una veste che s’indossa per partecipare alla Messa; ma è qualcosa di sacro in se stesso, nella misura in cui riflette l’atteggiamento delle anime che desiderano santificarsi. Chi si reca alla Messa da peccatore, ben deciso a restare nei propri peccati; o, peggio, chi osa rovesciare la morale e pensa di non essere in peccato, perché Dio ci vuole così come siamo, e non si aspetta da noi la conversione, bensì che ciascuno di noi cerchi la propria realizzazione, intesa in senso terreno e carnale, è automaticamente fuori dalla vera Chiesa e fuori dalla grazia di Dio. Quel prete americano, per esempio, che in chiesa, durante l’omelia ai suoi parrocchiani, ha detto loro: Sapete che c’è? Io sono omosessuale; e non ho intenzione né di lasciare l’abito, né di cambiar vita, perché ho capito che Dio mi vuole così, mi ama così, e sarebbe un’ipocrisia se fingessi di essere diverso da come sono (è accaduto nella chiesa di Santa Bernadette a Milwaukee, e il prete in questione è un tale Gregroy Greiten; ma il fatto è tutt’altro che insolito, visto che concetti identici sono stati espressi pubblicamente anche dal signor Bergoglio; tanto è vero che il suo arcivescovo lo ha difeso e avallato la sua esternazione), ben rappresenta l’atteggiamento di chi, a Messa, ci va per dettare a Dio le sue condizioni e costringere gli altri fedeli ad adeguarsi alle sue pubbliche scelte. È la naturale conseguenza di tutto l’orientamento pastorale invalso nella Chiesa dopo la cosiddetta "svolta antropologica" in teologia, teorizzata da Karl Rahner, che ha instillato nei fedeli l’idea che a Messa non si va per convertirsi e per lasciarsi vivificare dalla grazia del Signore, ma per confermarsi nelle proprie umane convinzioni, perseverare nei propri stili di vita e rivendicare la propria autonomia e l’esercizio dei propri diritti. E nessuno mi può giudicare, come direbbe, riecheggiando il motivo di una celebre canzone di Caterina Caselli, il signore che siede sulla cattedra di San Pietro ma che non è papa, per il semplice fatto che non è cattolico e che lo dice e lo dimostra ogni giorno, strappando entusiastici consensi sia da parte dei nemici esterni e dichiarati della Chiesa, i radicali, i massoni, gli atei militanti e aggressivi, per non parlare dei seguaci delle altre religioni, tutti diventati improvvisamente, non si sa come, amici del cattolicesimo e soprattutto amici di Bergoglio, sia da parte di quanti, nella Chiesa, detestano e disprezzano la Tradizione, pretendono di modificare il Magistero secondo le esigenze dei tempi, e di leggere e interpretare liberamente le Scritture come i protestanti: e infatti non si stancano di dire e di ripetere, come fa il gesuita Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, che Lutero aveva ragione e che la Chiesa ha peccato contro di lui, e adesso lo deve riconoscere e pentirsi.

La santa Messa è il cuore della Chiesa e il senso del cristianesimo. Nel Sacrificio eucaristico, Gesù Cristo rinnova il suo estremo atto di amore per gli uomini e questi, mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue, riconoscono la sua divinità, lo adorano, si offrono a Lui e gli chiedono la grazia di rimanere Suoi figli adottivi. È un Mistero immenso, abissale, eppure può accostarsi ad esso anche un bambino di una decina d’anni. Gesù non si rivolge ai sapienti e agli intelligenti e non pretende dagli uomini più di questo: lasciarsi amare da Lui e rimanere nel Suo amore. Tutto il resto, la conversione e il mutamento di vita, viene di conseguenza. Se si stravolge il senso della Messa, se si altera l’Eucarestia, si colpisce al cuore il cristianesimo. Senza la Presenza Reale come dono gratuito di Dio agli uomini, non c’è più Chiesa, né Vangelo. Resta solo un’assemblea di pretenziosi chiacchieroni che parlano a vanvera di Dio e dicono: noi siamo chiesa, ma in realtà non sono nulla…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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