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Omaggio alle chiese natie: il Tempio Ossario

Non è bello, il Tempio Ossario, o a noi, almeno, non è mai parso bello; imponente, questo sì: incredibilmente solido, massiccio, grandioso, a suo modo eroico, d’un eroismo intriso di retorica, eppure a suo modo sincero. Il fatto è che, per le generazioni nate dopo la Seconda guerra mondiale, è terribilmente difficile entrare nella mentalità degli uomini che hanno vissuto le due guerre e ne sono rimasti segnati profondamente, con tutti gli ideali, i valori e le illusioni che le accompagnarono, che in qualche misura le favorirono, e che poi si portarono via, in un immenso cumulo di rovine, la giovinezza e i sogni di milioni e milioni di persone, lasciandoci in eredità questa Italia e questa Europa un po’ così, senza troppi romanticismi, anzi, diciamo pure alquanto ciniche, interamente sprofondate nelle cose immediate, nella ricerca del successo personale, nel miraggio del benessere economico. Tuttavia, se si vuol essere giusti, bisogna cercar di tornare alla mentalità di un secolo fa, quando la Prima guerra mondiale era appena finita, il popolo italiani piangeva i suoi caduti e c’erano ben poche famiglie che non fossero state toccate da un lutto, o da un parente o un amico invalido, o mutilato, o ammalato per le ferite e gli strapazzi sopportati in tre anni e mezzo di guerra di trincea. Inoltre, per essere giusti verso questa singolare opera architettonica, bisogna tener conto del fatto che il progetto originario venne stravolto in corso d’opera per il sopraggiungere di circostanze estranee, sicché quel che abbiamo oggi davanti agli occhi è sostanzialmente un ibrido, o, se si vuole, il risultato di un compromesso fra due stili e due funzioni completamente doversi. L’intitolazione completa sarebbe San Nicolò al Tempio Ossario, ma crediamo che quasi nessun udinese lo sappia, per il semplice fatto che quasi nessuno ricorda che la parrocchia originaria di borgo Poscolle aveva sede nella chiesa di San Nicolò, all’angolo fra via Zanon e via Viola. Il parroco, don Clemente Cossettini, a partire dal 1919 cercò di realizzare una nuova chiese, nel piazzale XXVI Luglio (la data dell’ingresso delle trippe italiane in città al termine della terza guerra d’indipendenza, nel 1866), perché la vecchia era ormai fatiscente e troppo piccola, ma anche per dedicare una chiesa votiva al ricordo dei soldati caduti in guerra, alla quale egli aveva partecipato (prima del Concordato del 1929 anche i sacerdoti dovevano prestare il servizio militare). Il progetto era stati affidato all’architetto udinese Provino Valle, che concepì un edificio in stile barocco; i lavori iniziarono nel 1925 ed erano a buon punto, allorché, nel 1927, un decreto legge approvato dal governo offrì la possibilità di riunire le salme dei caduti sparsi in moltissimi cimiteri di guerra del Friuli, per riunirne circa 20.000 in un solo edificio. In questo modo il tempio votivo si trasformò in un tempio ossario e a Provino Valle si affiancò un famoso architetto romano (di origine egiziana), Alessandro Limomgelli, uomo dalle idee grandiose e fortemente originali, ispirato alle reminiscenze classiche e all’arte dell’antico Egitto, che dal 1930 modificò radicalmente l’impianto originario. Egli era anche il Commissario nazionale per le Onoranze ai caduti e impresse all’edificio un carattere fortemente monumentale, ispirato ad un forte patriottismo non esente dall’ideologia militarista: ne fanno fede le quattro gigantesche statue poste sulla facciata, del fante, dell’alpino, del marinaio e dell’aviatore, opera di Silvio Olivo che fu terminata solo nel 1950, in pietra anziché in bronzo, come da bozzetti originari. Il nuovo progetto fu approvato nel 1932, anno in cui morì Limongelli e la parrocchia di Poscolle venne ufficialmente spostata nella nuova chiesa, mentre i lavori procedevano sotto la direzione del Valle, concludendosi nel 1940. Il 22 maggio di quell’anno la chiesa venne consacrata, meno di un mese prima dell’ingresso dell’Italia in un’altra e ancor più terribile guerra mondiale. Don Cossettini fece in tempo a veder realizzata l’opera alla quale aveva dedicato gli ultimi venti anni della sua vita, profondendovi immensi sforzi e affrontando difficoltà d’ogni genere. La cupola, alta 64 metri e rivestita di piastre in rame, è così grandiosa che si vede da qualsiasi punto elevato della città. Alla fine ben 25.000 salme han trovato riposo fra queste mura, che portano incisi i loro nomi, nella cripta e lungo le navate.

Ci domandiamo cosa possa dire questo notevole edificio sacro al cuore e alla mente dei cittadini di oggi; quali sentimenti e quali ideali, o valori, possa trasmettere; e se riesca ad accendere in loro una pietas anche solo lontanamente paragonabile a quella di don Cossettini e di tutti quanti vollero dare una degna sepoltura e un ricordo imperituro ai soldati che avevano immolato la vita per la difesa e la grandezza della Patria. Che cos’è la Patria, per un giovane di quindici anni, di vent’anni, di venticinque, che si trova a passare davanti al Tempio Ossario, recandosi a scuola o al lavoro, e che vede ogni giorno quel fante, quell’alpino, dalle dimensioni colossali, non belli, gonfi di retorica, e tuttavia espressione di un sentimento vero, che i loro nonni e bisnonni sentivano profondamente? Perché qui, più che in altre pari d’Italia, la guerra è stata vista da vicino, è stata combattuta in casa; nella prima, essa ha significato l’esodo per migliaia e migliaia di friulani, dopo Caporetto, e nella seconda, l’incendio di interi paesi, le rappresaglie e, oltre all’orrore dei bombardamenti alleati e dei rastrellamenti tedeschi, l’orrore ancor più grande di una guerra civile particolarmente spietata, con migliaia di persone gettate nelle foibe dai partigiani comunisti di Tito e dai loro amici nostrani. A Porzus, nel febbraio 1945, una ventina di partigiani "verdi" della Osoppo furono trucidati dai loro "colleghi" comunisti della Garibaldi, proprio perché si opponevano all’annessione di ampie zone di confine alla Jugoslavia. Ma i giovani, oggi, che cosa sanno, cosa hanno sentito dire? E soprattutto, cosa pensano che sia la Patria? È ancora una nozione credibile, proponibile? Sarebbero disposti a sacrificare per lei la loro vita, come fecero i soldati e anche molti civili nelle due guerre mondiali? E il confine, che è così vicino in linea d’aria, non più di una ventina di chilometri, ha ancora un senso, viene ancora percepito come il simbolo di una difesa della propria terra, della propria identità, del proprio modo di vivere, coi relativi valori? Ma quali valori? Ci sono ancora valori? Per un giovane che si laurea e non trova poi lavoro, se non con estrema difficoltà; che deve, magari, andarsene all’estero per trovarlo; che vede i suoi genitori, che lo hanno fatto studiare, annaspare sotto i colpi della crisi, vendere la bottega che avevano da due o tre generazioni, vendere la casa dei nonni, tirare avanti sempre più a fatica con la loro pensione: che cos’è la Patria, e vale la pena di restare per "difenderla"? E davanti all’arrivo quotidiano di centinaia di stranieri, di africani, di asiatici, di sudamericani, che qui penetrano dalla frontiera terrestre, più che dal mare, ma comunque si vedono dappertutto, non si capisce nemmeno se siano regolari o clandestini, ostentano la loro presenza, legale e illegale, primeggiamo nei reati, rendono insicura la vita, spopolano la città al calar della sera, costringono la gente perbene a restarsene in casa o a uscire solo a suo rischio e pericolo: che cos’è, dunque, la Patria, e soprattutto di chi è? È di chiunque arrivi qui fisicamente, di chiunque trovi il modo di stabilircisi, magari in un centro di accoglienza da cui non verrà mai espulso, anche se risulterà che non aveva alcun titolo per essere considerato un rifugiato, come avviene nel 93% dei casi? È di chi ci è nato, per diritti allo ius soli?

Certo, nel 1917 era più facile capire cosa sia la Patria, a cosa serva un confine, e anche a quale scopo valga la pena di tenere in piedi un esercito. Ma adesso? La Patria non può essere l’Italia com’è ora, e nemmeno l’Europa com’è ora: un meccanismo burocratico incomprensibile, che favorisce solo i guadagni smodati di una minuscola élite di finanzieri e di grandi industriali, ma impoverisce tutti gli altri, toglie loro prospettive, speranze, al punto da scoraggiare la formazione di nuove famiglie, la gioia di fare progetti a lungo termine, di mettere al mondo dei figli. E non può essere semplicemente un luogo fisico, un’area di relativo benessere (sempre più relativo, sempre più evanescente), nella quale chiunque ha il diritto di venire di stabilirsi e d’importare le sue tradizioni, le sue regole, i suoi valori, senza curarsi affatto di quelli esistenti. Oppure sì? Oppure hanno ragione quelli che predicano che la terra è di tutti — i preti "di strada", per esempio, che ormai sono la maggioranza; e il signor Bergoglio più di tutti gli altri? E l’idea che la Patria sia un luogo fisico, ma anche un luogo del cuore, legato alle memorie, alle generazioni precedenti, all’identità, alla lingua, alla storia, alla fede religiosa (già, ma quale?) appartiene ormai al passato, era l’idea dei noni, ma adesso solo gli stupidi o gli illusi la sentono ancora in questi termini? Un giovane che non ha fatto, né mai farà, il servizio militare e al quale i professori di sinistra hanno insegnato che tutti gli eserciti sono il male assoluto, che tutte le guerre sono stupide follie, che tutti i confini sono creazioni delle classi dominanti per i loro egoistici interessi, che tutti i popoli sono uguali, che le razze non esistono, che non c’è religione vera o religione falsa, sono tutte vere o magari tutte false, comunque poco importa, o perché Dio non c’è, o perché tutti i fedeli possono abbracciarsi e vivere fianco a fianco in perfetto accordo, rispettandosi e collaborando, tanto che ci vuole?, in fondo il terrorismo islamico non esiste, come dice il signor Bergoglio, tutti hanno i loro difetti, ma non si deve mica generalizzare. Un giovane che ha subito un simile lavaggio del cervello — e temiamo che siano la maggioranza a trovarsi in tali condizioni – che cosa ne penserà di tutte queste cose? Come vede il fatto di essere italiano, di essere europeo, di appartenere a una civiltà che è stata cristiana per millecinquecento anni, anche se adesso non si capisce più che cosa sia, né cosa voglia essere? Certo: per quel giovane il fante e l’alpino scolpiti sulla facciata del Tempio Ossario sono qualcosa d’incomprensibile e d’indecifrabile, di remoto, come i guerrieri greci che combatterono a Maratona duemilacinquecento anni fa, o come le figure scolpite sulle pareti d’un tempio egiziano.

Eppure, anche se molti giovani e meno giovani hanno smesso di crederci, la Patria esiste, per il semplice fatto che esiste un legame naturale, indissolubile, fra gli uomini e la terra che li ha visti nascere, che li ha allevati, li ha nutriti, ha insegnato loro a distinguere il bene dal male, l’onesto dal disonesto; una terra dove hanno ricevuto l’amore di un padre e di una madre. Finché ci saranno queste cose, ci sarà anche la Patria. Ma se queste cose spariranno — si nasce dove capita, poi c’è il diritto alla cittadinanza; e i genitori possono essere benissimo due padri o due madri, basta coi pregiudizi — anche la Patria morirà nel cuore delle persone. Intanto, finché la famiglia esisterà, per quanto disastrata, e finché un modello educativo verrà impartito ai bambini, per quanto screditato, ci sarà anche la Patria. E se non ci sono più gli eroi del Grappa e del Piave, ci sono però gli eroi del nostro tempo. Come quella ragazza di Roma, Luana Zaratti, una ventiseienne che lavorava come dipendente dell’Azienda dei trasporti pubblici e che, nell’estate del 2011, stava facendo la multa a un passeggero, un egiziano che viaggiava sull’autobus senza biglietto, allorché questi le si scagliò contro colpendola al viso con una fortissima testata, fracassandole la faccia e provocandole danni permanenti che hanno reso la sua vita un inferno. Finita la sua giovinezza, finito il suo futuro; terapie continue, costose, e pochi soldi per pagarsele: perché l’azienda non le ha riconosciuto l’infortunio per ragioni di servizio. Incredibile, ma è così: i suoi legali hanno sostenuto, con successo, che non c’è un legame dimostrabile fra la testata ricevuta da Luana e il danno cerebrale che l’ha resa poco più di un vegetale. L’egiziano? Condannato a soli quattordici mesi, è scappato e ha fatto perdere le sue tracce: non ha scontato la pena e si è saputo che non era neanche nuovo a simili episodi di violenza. Ecco, davanti alla storia di Luana, uno, giovane o meno giovane, si domanda: ma che cos’è la Patria? Che cos’è l’Italia? È solo un ente giuridico, o è una realtà dell’anima, per difendere la quale si potrebbe anche fare il sacrifici della vita? Che cosa è stata la Patria per questa ragazza, divenuta inabile al lavoro per aver fatto coscienziosamente il suo dovere (come sarebbe stato facile, per lei, fingere di non vedere quel passeggero che viaggiava a sbafo!), e scaricata dall’azienda pubblica per la quale lavorava? Eppure il signor Bergoglio sa parlare, tutti i santi giorni, sempre e solo del diritto all’accoglienza di tutti gli stranieri. E il presidente Mattarella, se tocca questo argomento, lo fa per mettere in guardia gli italiani dal pericolo di diventare razzisti e di scatenare il Far West nelle strade. Chissà perché, i massimi rappresentanti della Chiesa e dello Stato non parlano mai di casi come quello di Luana: e ce ne sono tanti, Dio sa se ce ne sono: furti, rapine aggressioni, stupri ai danni degli italiani, sono cose all’ordine del giorno, Ma il papa non ne parla e il presidente parla del Far West per stigmatizzare gli episodi di "razzismo". C’è qualcosa che non torna. Tutti lo percepiscono, pochi lo dicono a voce alta: le nostre classi dirigenti si accingono a tradire, ancora una volta, come già tanto spesso in passato. E la vittima del tradimento è il popolo italiano: ridotto a straniero in casa sua, spogliato della sua Patria, dei suoi risparmi, del suo lavoro, dei suoi diritti, e adesso anche della sua fede religiosa, quella ricevuta dai suoi padri. Perché Dio non è cattolico, come dice il signore che siede sulla cattedra di san Pietro, e a un Dio cattolico lui, comunque, non ci crede. E allora, in che cosa vogliamo credere? Nell’Italia che nega l’infortunio professionale a Luana Zaratti e offre la cittadinanza a chiunque venga partorito qui, dopo che i suoi genitori vi sono giunti illegalmente? O in quella delle tante persone oneste che lavorano, educano i figli, trasmettono loro dei valori morali? Come una vecchia madre, quest’ultima ha bisogno di noi…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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