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Omaggio alle chiese natie: Santa Chiara

La piccola chiesa di Santa Chiara è una delle più antiche e, probabilmente, anche una delle meno conosciute dagli abitanti della città; siamo anzi certi che molti non l’hanno mai visitata e forse neppure sapevano che esistesse, fino a quando è stata resa visibile dal lato di via Gemona; peraltro c’è una via cittadina dedicata a Santa Chiara, ma si trova sul lato opposto del Collegio Uccellis, del cui complesso la chiesa fa parte. Quest’ultima, costruita tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300, ha fatto da sfondo a un periodo felice della nostra infanzia e la sua sobria struttura medievale, quasi affondata nel verde di un piccolo giardino privato e perciò sottratta allo sguardo dei più, si è impressa in maniera indelebile nella nostra memoria. Senza dubbio molti la ignorano perché si trova entro un cortile privato, il cui cancello non è sempre aperto, e dalla strada che conduce all’ingresso, cioè da Via Giovanni da Udine, non si scorge affatto; la si vede da Via Gemona, dietro a un laghetto creato in seguito ad un intervento urbanistico recente, mentre al tempo dei nostri ricordi era nascosta completamente alla vista da un alto muro di cinta. Questo antichissimo edificio è un vero gioiello d’arte; l’interno, specialmente, è come uno scrigno di pietre preziose, con gli affreschi di un pittore di notevole bravura, Giulio Quaglio, realizzati alla fine del ‘600. La chiesa non è sconsacrata ma è quasi sempre chiusa; solo due volte l’anno vi si celebra la Messa per gli studenti di un liceo classico che allora non esisteva; esisteva, però, un complesso scolastico di cui faceva parte una minuscola scuola elementare, e lì abbiamo frequentato la classe quinta. L’aula dava direttamente sul piccolo cortile di fronte al lato posteriore della chiesa, e lì, nella ricreazione, si giocava a rincorrersi e a nascondino, all’ombra delle piante e delle antiche pietre del sacro edificio. Quanta bellezza e quanta storia respirano, senza nemmeno rendersene conto, i bambini italiani; e quale immenso privilegio essi hanno, rispetto ai loro coetanei di altre parti del mondo. Quale bambino americano potrà mai dire di aver studiato e giocato a dieci metri da una chiesa eretta sette secoli fa, e ancora perfettamente stabile e funzionante, e di essersi abbeverato tutti i giorni alla fonte dell’arte medievale, senza nemmeno dover prendere in mano un libro illustrato, ma ammirando coi suoi stessi occhi, a volontà, le opere incomparabili di un passato unico al mondo? Eppure, vogliamo essere sinceri sino in fondo, il fatto che la facciata della chiesa sia ora visibile a tutti, le toglie, ai nostri occhi, un po’ di quel fascino arcano che ha avuto per secoli e secoli. È sempre così, con tutte le cose belle: per poterle apprezzare veramente, bisogna andarle a cercare, e magari fare un po’ di fatica e superare anche qualche ostacolo; e non vedersele servite già pronte, offerte su un vassoio d’argento, per iniziativa altrui.

Questo pensieri ci introduce naturalmente ad un altro pensiero, di carattere molto più generale, ma collegato ad esso. La Chiesa degli ultimi decenni si è discostata dalla Tradizione essenzialmente per un orientamento di fondo; i singoli cambiamenti (che quei signori preferiscono chiamare "riforme") liturgici, pastorali e persino dottrinali, non sono che gli aspetti parziali di quest’unica idea centrale: portare la Chiesa incontro ai desideri del mondo, per rende il cristianesimo qualcosa di più facile. Togliere le difficoltà, rimuovere le spine dal sentiero, levare i sassi, in modo che i piedi possano posarsi sicuri e tranquilli, senza incomodi di alcun tipo. È stato un errore clamoroso, che non possiamo attribuire neppure con la massima buona volontà, a una semplice ingenuità; no: è stato un tradimento deliberato e intenzionale. Era fin troppo evidente che, seguendo quella strada, si sarebbe tradito il Vangelo: lo avrebbe compreso anche un bambino. Gesù Cristo non è venuto per togliere le spine dal nostro sentiero, né per appianarci la via, ma, al contrario, per esortarci a prendere ciascuno la sua croce, e seguirlo. La via di Gesù Cristo è la via della croce: chiunque pretenda di trasformarla in una passeggiata amena in un giardino fiorito sta volontariamente stravolgendo il senso del suo Lieto Annuncio. Che non è lieto perché porta il benessere, nel senso comune della parola, ma perché dà un significato all’esistenza e la indirizza al suo fine naturale, che è Dio.

Certo, si può capire — capire, non giustificare — come un tale tradimento abbia trovato, in certo qual senso, il terreno favorevole perché venisse attuato in maniera rapida, micidiale e tuttavia quasi indolore. Il benessere, vale a dire la civiltà dei consumi, stava dilagando in Europa, dopo gli anni terribili della Seconda guerra mondiale. I popoli che erano stati impoveriti da essa e quelli che erano poveri ancora prima di essa, cominciarono ad assaporare la dolcezza del consumismo, che, di per sé, è lo stile di vita più lontano che si possa immaginare dal cristianesimo, perfino più lontano del comunismo. Non è un caso che il Concilio Vaticano II si sia celebrato dal 1962 al 1965, cioè al culmine di quella ondata del cosiddetto benessere; meno di dieci anni dopo, con la guerra del Kippur e la prima grande crisi petrolifera, l’orizzonte spensierato avrebbe cominciato ad oscurarsi, e perfino i più ottimistici cantori di un progresso illimitato e di un mondo sempre più ricco e pacifico, avrebbero ricevuto una rude scossa ai loro sogni voluttuosi. Allora, però, nella prima età degli anni Sessanta, c’erano ben poche nuvole nel cielo del consumismo; al contrario, tutto pareva indicare che l’Europa e il mondo, o almeno il mondo occidentale, si fossero avviati verso un’era di progresso inarrestabile, tanto sul piano materiale, scientifico, tecnico e produttivo, quanto sul piano della comprensione, della tolleranza, della coesistenza pacifica e della collaborazione fra gli uomini e fra i popoli. La Guerra fredda era entrata, dopo la crisi dei missili a Cuba, in una fase relativamente più mite: ormai i due blocchi si erano rassegnati alla coesistenza e quindi si organizzavano per una situazione di lunga durata; il che, per l’Occidente, equivaleva a coltivare sempre di più il mito del benessere.

Come suole accadere, però, coltivare il mito del benessere sfocia di necessità nella creazione di un altro mito, quello del cambiamento, cioè della rivoluzione. La "rivoluzione della minigonna" sta alla sociologia come la "rivoluzione del proletariato" alla politica; l’obiettivo è lo steso: scardinare il sistema. Il sistema morale, nel primo caso; il sistema sociale, nel secondo. Ma, come insegnano gli strutturalisti, una società, qualsiasi società, è un insieme coeso di elementi e di strutture interconnessi: non se ne può scardinare uno e pensare gli altri restino indenni ed efficienti al loro posto. Eppure le società cambiano nel corso del tempo, evolvono: le società non sono mai talmente rigide da non tollerare un processo di riforme. Quel che una società non può tollerare, senza uscirne stravolta, è la rivoluzione: e l’idea di un benessere illimitato è, di per sé, un’idea rivoluzionaria. Non ci si lasci impressionare dal suono delle parole. La rivoluzione non è fatta solo di barricate e di assalti armati ai palazzi del potere; essa avviene anche quando una parte consistente delle classi dirigenti diventa impaziente e insofferente del sistema sociale di cui è parte, e pretende di attuare un drastico mutamento: perché le rivoluzioni sono fatte dalle classi dirigenti, non dal "popolo". Il popolo, qualunque cosa esso sia (e nessuno è mai riuscito a spiegarlo esattamente) fornisce solo la manovalanza; il popolo va bene per dare l’assalto alla Bastiglia; ma per forgiare una società rivoluzionaria, ci vogliono gli Stati Generali, e che questi si trasformino in Assemblea nazionale costituente: il che è una faccenda di élite, non di persone comuni e meno che mai di comuni lavoratori. La rivoluzione del benessere, poi, è la più radicale di tutte le rivoluzioni, perché, anche senza averne l’aria, colpisce al cuore la base morale su cui si fonda la società. La rivoluzione della minigonna ha colpito al cuore la mentalità complessiva in materia sessuale, ha radicalmente modificatola psicologia femminile e ha rovesciato le relazioni fra uomo e donna, introducendo dal basso, cioè attraverso il consumismo, il modello libertino che, fino ad allora, era stato coltivato solo da pochi individui: in breve, ha introdotto l’erotizzazione della società, e lo ha fatto in maniera apparentemente innocente, facendo sì che l’esibizione del corpo femminile apparisse come una cosa perfettamente lecita e naturale. Per giunta, tale esibizione ha prodotto una "reificazione" della donna, che ha innescato, a sua volta, la rivoluzione femminista: la donna, dopo essersi esibita in maniera sempre più provocante, si è scagliata contro l’abitudine "maschilista" dell’uomo di considerarla semplicemente come un oggetto, e ha rivendicato un ruolo direttivo in tutti gli ambiti. Il segno più eloquente di tale doppio processo, di auto-mercificazione e, insieme, di ribellione e rivendicazione, si è avuto con l’ingresso in parlamento di una porno attrice, in arte Cicciolina, naturalmente sotto l’egida del Partito radicale, il vero partito rivoluzionario italiano. Mary Quant è stata per il 1968 non meno efficace di Marcuse o Cohn-Bendit.

In fondo, i due miti, quello del benessere e quello della rivoluzione, sono complementari: chi crede nel progresso senza "se" e senza "ma", crede nelle stessa meta in cui crede il rivoluzionario: quest’ultimo è solo un po’ più impaziente rispetto al primo. I giovani del ’68 erano solo più impazienti dei loro genitori, che contestavano con tanta durezza; ma si trattava fondamentalmente di un equivoco: essi non volevano cose diverse, ma le stesse cose, solo con velocità diverse. Non c’erano i rivoluzionari da un parte e i reazionari dall’altra; erano tutti progressisti, perciò tutti rivoluzionari, i padri non meno dei figli; e un nemico in comune, anche se la cosa, specialmente all’inizio, passava inosservata, o si presentava addirittura al contrario: i valori tradizionali, Dio, la patria e la famiglia. I padri non ci credevano più, facevano solo finta di crederci; i figli volevano sbarazzasi di quell’inutile zavorra. Ecco l’equivoco. Se i figli fossero stati appena un po’ meno impazienti e ignoranti, e i padri appena un po’ meno ipocriti e pusillanimi, si sarebbero riconosciuti, si sarebbero abbracciati e avrebbero marciato insieme, fianco a fianco, nel nome del cambiamento radicale. Numerosi film, romanzi e brani musicali del decennio rivoluzionario 1963-1973 mostrano chiaramente questa convergenza di aspirazioni dei padri e dei figli: se le due generazioni, fra l’epoca del romanzo di Turgenev e quella del romanzo di Paul Nizan, si proponevano cose diverse, al tempo di Cohn-Bendit e di Mary Quant volevano in realtà le stesse cose, benché avessero qualche difficoltà ad ammetterlo. Il che valeva in entrambi i sensi: i padri (e le madri) nutrivano una segreta invidia per la libertà, specialmente sessuale, dei loro figli adolescenti; i figli (e le figlie) adolescenti nutrivano una invidia segreta, ma neanche tanto, per i soldi di papà e mamma, chiave per accedere al paese di Cuccagna del consumismo "trasgressivo". Che di trasgressivo, a quel punto, non aveva più nulla, dato che una cosa, per essere trasgressiva, deve essere praticata da pochi individui, circondati dalla disapprovazione generale; mentre quel che stava accadendo era l’esatto contrario. E la signora quarantenne o cinquantenne che rivaleggiava con la figlia nell’esibire in città la minigonna, il trucco provocante e la scollatura sempre più generosa, e al mare il bikini sempre più ridotto, o il topless, era, appunto, una "rivoluzionaria di massa": inseguiva lo stesso mito di esibizione sessuale ed emancipazione erotica della figlia diciassettenne, e non cercava nemmeno di nasconderlo. La crisi e la disgregazione della famiglia è incominciata da lì: non è certo un caso che proprio negli anni Settanta molti Paesi occidentali, anche di tradizione cattolica, a cominciare dall’Italia, abbiano adottato una legislazione divorzista e abortista: processo che si è concluso nel 2018 con l’introduzione dell’aborto in Irlanda, senza alcuna energica presa di posizione da parte della Chiesa, e specialmente del Vaticano, in tutt’altre faccende affaccendato.

Il Concilio è stato la premessa, logica e ideologica, del ’68; ha introdotto la rivoluzione nella Chiesa, come il ’68 l’ha introdotta nella scuola, nella magistratura, nella stampa e nella società civile: ed entrambe le rivoluzioni hanno trovato il terreno adatto nel dilagare del consumismo e nella crescente erotizzazione della società. In entrambi i casi, al di là delle parole d’ordine più strettamente ideologiche, apertura, dialogo e inclusione per la Chiesa, diritti, parità, emancipazione per la società civile, la base comune era un cedimento all’imperativo della carne: una resa dello spirito davanti alla carne. È da allora che la critica al celibato ecclesiastico è stata usato come una clava per scardinare la spiritualità del sacerdozio, e con motivazioni analoghe a quelle con cui s’invocava la legge sull’aborto, cioè come rimedio agl’inconvenienti di una sessualità non libera, ma repressa o imposta con la violenza: il prete aveva il diritto di sposarsi per non ardere di desideri negati, come la donna aveva il diritto di abortire per non dover portare il peso di una maternità indesiderata. In entrambi i casi, si partiva da una visione naturalistica dell’uomo: il desiderio sessuale è invincibile; resistergli è innaturale, quindi è "male"; d’altra parte, anche portare avanti una gravidanza non voluta è male, perché equivale a una resa, non tanto alla natura, quanto alle convenzioni sociali borghesi, fondate sulla prevaricazione del maschio e l’ipocrisia. Così, il cerchio si chiude. La resa alle tentazioni della carne, cioè all’uomo istintivo e "naturale", ha scardinato la morale, la società e la Chiesa. Per giustificare la svolta, o meglio la rivoluzione, il clero infedele ha negato che il peccato sia peccato, o lo ha minimizzato: si vedano le sue recenti prese di posizione sull’aborto o sulle cosiddette famiglie arcobaleno. Nello stesso tempo, questo clero sta spostando l’attenzione dei fedeli, ossessivamente, sui temi sociali, primo fra tutti l’accoglienza dei migranti…

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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