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Le radici intellettuali dell’arroganza progressista: il caso di Hubert Herring

La cultura che ha dominato l’Occidente, e che lo domina tuttora, è formata da due filoni principali: quello liberaldemocratico e quello marxista (o neomarxista, o cripto marxista, la cui variante attuale è, specie in Italia, il cattolicesimo di sinistra). Altri filoni erano teoricamente ammessi, ma, in pratica, venivano decisamente emarginati, quando non screditati e dileggiati come culturalmente insignificanti; e non perché non avessero uomini e idee, ma perché non avevano case editrici, cattedre universitarie, giornali e televisioni che ne sostenessero la causa. Perciò la partita per l’egemonia culturale era fra i primi due. Di fatto, soprattutto in Europa occidentale e soprattutto nel nostro Paese, vi sono stati lunghi decenni di assoluta preminenza della cultura marxista, perché le prospettive e le aspettative politiche generali erano di tipo rivoluzionario e quasi messianico (tutti aspettavano, dopo il 1968, un altro e risolutivo "1968"), mentre i liberaldemocratici avevano dalla loro "solo" il presente e l’esistente, come dire che i primi avevano la poesia e i secondo la prosa, e si sa che la poesia è più affascinante e seducente della prosa (non per nulla i poeti sono quasi tutti rivoluzionari e i rivoluzionari, molto spesso, sono anche poeti).

Il pedrigee intellettuale di Hubert Herring è di tutto rispetto. Il risvolto del suo libro più noto in Italia, edito da Rizzoli, ci informa che è una autorità in materia di America Latina; che ha lavorato come direttore del Comitato per le relazioni culturali con l’America Latina fin dal 1928; che per trent’anni ha viaggiato attraverso le repubbliche dell’America Latina, intessendo rapporti con uomini di stato, giornalisti e studiosi; che dal 1948 ha insegnato all’università di Pomona e alla "Claremont Graduate School", dove è stato professore di Civiltà latinoamericana. Inoltre, che è nato a Winterset, nello Yowa, nel 1889, si è diplomato in lettere all’"Oberlin College" e nel 1912 si è laureato alla "Columbia University", e nel 1913 ha conseguito la seconda laurea all’Union Theological Seminary. Apprendiamo infine che ha scritto numerosi articoli e alcuni libri famosi come America and Americas; Mexico, the Making of a Nation; Neilson of Smith; Good Neighbours e So to War; e che ha collaborato per la sezione dell’America Latina alla monumentale opera Universalgeschichte, ed è stato co-redattore dei volumi Renascent Mexico e The Genius of Mexico, prima di essere stroncato una malattia nel 1967, dopo anni di intensa attività politica e culturale. Dopo aver letto una simile infilzata di referenze culturali, che farebbero stramazzare un toro, pace all’anima sua (di Herring, non del toro), non tanto per l’ammirazione quanto per gli sbadigli, visto che si tratta di titoli accademici comunissimi in America e che il viaggiare e parlare con la gente, di per sé, non rende le persone né più sagge, né più informate, perché tutto dipende dalla prospettiva che si adotta e dal sapere ascoltare, oppure no, tutte le voci utili a capire le situazioni, per quanto possano contrastare con le proprie convinzioni, il lettore, intimidito e reverente, si accinge a tuffarsi nelle quasi 1.500 pagine del poderoso volume con un misto di timore e tremore, e con la certezza che nessuno meglio di cotanto esperto potrà mai renderlo edotto sulle cose dell’America Latina, fin nelle pieghe più riposte. E infatti, negli anni ’70 del secolo scorso, la sua autorità era universalmente accettata e stabilita, e nessuno poteva parlare di America latina senza fare riferimento a quell’autore e ai suoi volumi, almeno nell’ambito della cultura democratica e progressista, che poi era quella dominante negli Stati Uniti, e molto forte anche in Europa, avendo dalla sua parecchi giornali, televisioni e istituzioni culturali.

Ma era una fiducia ben riposta? Anche noi, lo confessiamo, da ragazzi abbiamo riservato una grande ammirazione a quest’opera, e ci siamo rivolti ad essa per tutte le questioni e per tutti i dubbi riguardanti le vicende storiche, recenti e meno recenti, dell’America Latina. Ahimè: mano a mano che la fascinazione progressista perdeva di efficacia nel nostro animo, emergevano sempre più chiare, sempre più imbarazzanti, si può dire ad ogni pagina (delle millecinquecento totali!) i limiti, le angustie, le imperdonabili leggerezze dell’autore: dovute non solo, e non tanto, all’assenza di un vero metodo storico e di un criterio per discernere il valore e il significato dei fatti, quanto a un diffuso, impalpabile ma pesantissimo e onnipresente pregiudizio ideologico: quello, appunto, democratico e progressista. Con una arroganza tanto più fastidiosa, quanto più (apparentemente) inconsapevole, l’Autore cataloga idealmente il mondo itero in due campi, quello democratico e liberale, regno del Bene, e quello "altro", in cui c’è posto per tutto il resto, dal comunismo al fascismo, passando per ogni forma di esperienza alternativa rispetto alla democrazia capitalista, che è il regno, se non proprio del Male, certamente dell’Ignoranza, della Stupidità e dell’Arretratezza. Una arroganza che non si accorge nemmeno di essere tale, perché dà assolutamente per scontati e di per sé evidenti i propri fondamenti ideologici; cui si unisce l’arroganza involontaria del liberal statunitense che vorrebbe chinarsi affettuosamente sui "vicini" che vivono a sud del Rio Grande, ma non riesce proprio a liberarsi dalle mille idee preconcette che si è fatto dei popoli latinoamericani, e che alla fine rende preferibile la brutale franchezza dei conservatori i quali non si curano troppo di nascondere quel che pensano davvero: ossia che i latinoamericani sono pigri, infingardi, corrotti e inaffidabili (e per giunta cattolici, il che è forse il difetto più grave di tutti, e che tutti li riassume), dal primo all’ultimo, perché Dio li ha fatti così.

Apriamo dunque quasi a caso le pagine del famoso volume e vediamo, a titolo di mero esempio, come "liquidi", con poche battute sprezzanti, il fenomeno dell’integralismo brasiliano, uno dei più apprezzati storci statunitensi del XX secolo: Hubert Herring (1889-1967), esperto di cose dell’America latina, nella sua monumentale Storia dell’America latina (titolo originale: A History of Latin America, from the Beginnings to the Present, New York, Alfred A. Knopf, 1968; traduzione dall’inglese di Francesco Ricciu, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 1214-1217):

La minaccia della sinistra comunista [al regime di Getúlio Vargas in Brasile al principio degli anni ’30 del Novecento] si accompagnava ad un non minore pericolo da parte della destra fascista. Dal 1934 un gruppo d’individui chiamati "integralistas" andava ingrossando rapidamente le sue file sotto la guida di un esaltato, Plinio Salgado, che predicava una dottrina di chiara ispirazione fascista, in cui, culto del sole e culto del "capo" si mescolavano a elementi tratti dal fascismo, dal corporativismo di stato e dall’antisemitismo. I suoi seguaci, che ammontavano a parecchie migliaia, indossavano camicie verdi, avevano un particolare modo di salutarsi, usavano come distintivo il sigma greco, saltavano "dio, patria e famiglia", facevano parate in ogni occasione, inscenavano cerimonie stravaganti in onore del sole nascente. Salgado era ben fornito di denaro, in parte proveniente dall’ambasciata tedesca. L’"integralismo" si diffuse nell’esercito e nella flotta, negli uffici governativi, nelle migliori famiglie. All’orizzonte si profilava la burrasca. (…)

Premuto dagli avversari, nei primi mesi del 1937 Vargas indisse le elezioni presidenziali per il gennaio dell’anno seguente. Tre forze dominarono la campagna: Vargas, che in base alla costituzione non poteva essere rieletto; i comunisti, il cui capo Prestes era in prigione; e gli "integralistas", il partito forse più numeroso. I partiti della vecchia guardia, che non erano altro che macchine elettorali, scelsero i loro candidati. Vargas stette zitto fino a ottobre, quando annunciò che un’insurrezione comunista stava per scoppiare e proclamò uno "stato di guerra" per novanta giorni, esattamente il periodo di tempo che mancava alle elezioni. Plinio Salgado fece il gesto teatrale di offrire i servizi de suoi 100.000 "integralistas" per proteggere la repubblica. In novembre avvenne il colpo di scena: Vargas parlò alla radio del paese, si autoproclamò presidente per un altro quinquennio, sciolse il parlamento e annunciò una nuova costituzione per l’"Estado Nôvo", il "nuovo Stato", un documento scritto da lui stesso e dal suo ministro della giustizia, Francisco Campos. Vargas aveva giocato d’astuzia, forse per prevenire un colpo di stato fascista al cento per cento. I brasiliani, benché liberati dal timore di vedere a capo della nazione il ridicolo Plinio Salgado, digerirono tuttavia con difficoltà l’"Estado Nôvo" e la sua "costituzione ombra" L’America latina aveva visto infatti molte pseudocosituzioni ma la creatura di Vargas le superava tutte. Essa proclamava uno "stato d’emergenza nazionale" e stabiliva che la costituzione non entrasse in vigore finché fosse persistito tale stato di emergenza; inoltre la costituzione sarebbe rimasta inoperante finché non fosse stata approvata da un plebiscito; solo allora avrebbe potuto essere eletto un Congresso, e Vargas si guardò bene, a partire da quel momento, di parlare di plebiscito. Insomma, per dirla con Karl Loewenstein "il gatto costituzionale si mordeva la sua cosa legale o viceversa… questo è il modo brasiliano di far vedere lucciole per lanterne". Tuttavia, l’articolo 180 parlava chiaro: fino all’elezione del parlamento "il presidente della repubblica avrebbe avuto il potere di emettere decreti in tutte le questioni concernenti la legislazione dell’Unione".

La dittatura di Vargas era ormai totale. Egli nominava tutti i funzionari, alti e piccoli; il suo programma sociale, imposto per decreto, garantiva la contrattazione collettiva, ma con sindacati pienamente controllati dallo stato; prometteva anche la giornata lavorativa di otto ore, la limitazione del lavoro notturno e del lavoro dei fanciulli, assistenza sanitaria per lavoratori e donne incinte, e assistenza sociale dalla nascita alla morte. Altri decreti riguardavano questioni economiche. Lo stato assumeva in teoria il controllo di tutto il patrimonio nazionale. "Il Brasile ai brasiliani era il motto: le imprese straniere si trovarono di fronte a un groviglio di nuove norme.

Nel maggio 1938 gli "integralistas" fecero un ultimo tentativo per assicurarsi il potere: parecchie centinaia di uomini, tra cui ufficiali dell’esercito e impiegato statali, strinsero d’assedio il palazzo presidenziale, dove Vargas, sua figlia e alcuni domestici li tennero a bada con pochi fucili finché non sopraggiunsero le truppe di rinforzo. Centinaia di rivoltosi furono arrestati; alcuni di essi dovettero affrontare miti condanne al carcere, e non vi furono condanne a morte. Plinio Salgado riuscì a nascondersi, e trovò asilo in Portogallo. Dopo il 1938 non ci furono più rivolte armate, e Vargas governò incontrastato per altri sette anni.

Vargas amava definire il suo governo "una democrazia di nuovo tipo", una "democrazia disciplinata". Ma i fatti smentiscono le sue parole: non vi era parlamento, non ci furono elezioni; Vargas faceva tutte le nomine governative con decreto; i sindacati erano uno strumento dello stato come nell’Italia di Mussolini; la vita economica era dominata dallo stato. Nonostante la sua arroganza a Vargas si deve però riconoscere il merito di aver affidato alcune cariche a uomini di indiscusso valore, di aver protetto occasionalmente l’integrità dei tribunali e di aver introdotto migliorie nell’amministrazione pubblica in tutto il paese. Karl Loewenstein, nel suo "Brazil under Vargas" trova affinità tra il Brasile di Vargas e l’Austria prenazista, definendo quel tipo di governo: "dispotismo mitigato dalla sciatteria". Era una dittatura mitigata, anche se la mitezza diminuì durante gli ani di guerra. Vargas si era autonominato padre del popolo, un ruolo di cui si compiaceva e che in genere pareva non dispiacesse al popolo.

Ci sarebbero molte cose da dire sul modo di esporre la nascita del regime di Getúlio Vargas e la natura del suo Estado Nôvo; per esempio, quel che dice del presidente brasiliano, cioè che gli si deve riconoscere il merito di aver affidato alcune cariche a uomini di indiscusso valore (…) e di aver introdotto migliorie nell’amministrazione pubblica in tutto il paese, lo si potrebbe anche dire, se l’onestà intellettuale facesse parte del bagaglio di codesti signori liberaldemocratici, anche di Mussolini, e a maggior ragione. Anche la breve descrizione di come Vargas riuscì a sventare il colpo di stato degli integralisti, resistendo con la figlia e con pochi domestici nel palazzo assediato, sa più di film western alla John Wayne che di verità storica: si vede che in quel caso, poiché il colpo veniva da destra, perfino un personaggio poco raccomandabile dal punto di vista democratico, come il presidente-dittatore, acquista una coloritura un po’ più simpatica e diventa una specie di pistolero senza macchia e senza paura.

Tuttavia, limitandoci a ciò che egli dice del movimento integralista, ci pare che sia più che sufficiente a illustrare i gravi difetti che abbiamo sopra ricordato: difetti che nascono da un atteggiamento di arroganza ideologica e si traducono in una mancanza di metodo e di obiettività storica. Dire, per esempio, che Plinio Salgado era "un esaltato", e poco più avanti, definirlo "un personaggio ridicolo", evidentemente non denota alcuno sforzo di obiettività, e, quel che è peggio, lascia trasparire una certa qual sciatteria storiografica, perché né l’esaltazione, né la ridicolaggine sono categorie storiche, mediante le quali si possa spiegare, o anche solo tentar d’interpretare, un personaggio storico e la funzione che ha svolto, bene o male, nella società del suo tempo. È come quando certi sedicenti storici liquidano il "problema" Hitler (problema politico, s’intende; non morale, che è un altro paio di maniche, e che non compete allo storico, o comunque non gli compete in prima istanza) affermando che il Führer "era pazzo", che era "uno squilibrato", nonché un "sadico criminale". Quel che si chiede allo storico non è di sentenziare circa il carattere e la personalità di un certo personaggio, ma di tentar di penetrarne le idee, e di vedere in che misura ha saputo tradurle in pratica: spiegare, per quanto possibile, e non giudicare. Salgado era un esaltato? Benissimo: resta da vedere e da capire come mai un tale esaltato abbia attirato l’adesione convinta di così tante persone. Lo stesso Herring, sia pure di malavoglia, riconosce che il partito da lui fondato era diventato, di colpo, la prima forza politica brasiliana (anche se il numero di 100.000 aderenti è sicuramente sottostimato, e di parecchio): exploit eccezionale, che meriterebbe comunque lo sforzo di una spiegazione. L’allusione ai finanziamenti tedeschi è semplicemente un colpo basso, sferrato in perfetta malafede: perché il signor Herring, avendo viaggiato per trenta anni, da cittadino e da professore statunitense, in lungo e in largo per gli Stati dell’America latina, certo non ignora che tutti quei governi hanno vissuto, in misura maggiore o minore, di finanziamenti segreti da parte degli Stati Uniti (e che i governi decisi a sganciarsi dalla sudditanza economica di marca americana facevano una brutta fine); evidentemente, se i finanziamenti vengono da Washington, sono qualcosa di pulito e di normale, ma ve venivano da Berlino o da Roma, allora erano qualcosa di sospetto e di riprovevole.

A parte il giudizio sprezzante su Plinio Salgado, quel che colpisce è l’ottusità dell’atteggiamento di Herring di fronte al movimento integralista, il quale, ammette, si diffuse nell’esercito e nella flotta, negli uffici governativi, nelle migliori famiglie. Possibile che questo fatto non susciti in lui la minima curiosità di cercar di comprendere che cosa, a torto o a ragione, trovassero nelle idee di Salgado quegli ufficiali dell’esercito e della marina, quegli impiegati statali e quelle famiglie, che, guarda caso, erano (parole sue) "le migliori"? Lo slogan del movimento integralista era "dio, patria e famiglia": possibile che il signor Herring non provi l’umiltà di domandarsi se, dopotutto, quei valori erano minacciati, e quanto fossero importanti per la società brasiliana (come per altre società, del resto) investita, proprio in quegli anni, dall’irruzione della modernità, sotto la due forme brutali del bolscevismo e del capitalismo speculativo? Per il resto, egli sembra rimettersi, in tutto e per tutto, all’opinione del filosofo Karl Loewnstein (Monaco, 1891-Heidelberg, 1973), che cita due volte in poche righe: un esule dalla Germania nazista che si trasferì negli Sati Uniti e vi conquistò la fama di esperto costituzionalista e di uno dei massimi esponenti del pensiero liberale a partire dagli anni ’30 e, poi, nel dopoguerra e durante la Guerra fredda. Ma lui, Herring, non ha una sua opinione da farci conoscere, oltre al fatto che Salgado era un esaltato e un uomo ridicolo, e che i suoi seguaci sapevano solo sfilare e tenere strane cerimonie al levar del sole? Pare di no: a lui basta sapere che tutto ciò appare bizzarro, improbabile, e decisamente al di fuori dei suoi schemi mentali; e, come tutti i presuntuosi, non prova alcun interesse per le cose che non si conformano al suo universo concettuale. Povera storia e poveri noi, che dobbiamo studiarla sui libri di tali autori. Nella arroganza intellettuale di studiosi come Hubert Herring vi è anche la chiave per capire certe costanti della politica americana, anche dei nostri giorni. Il governo statunitense ascolta molto il parere di questi esperti, professori che vanno in giro per il mondo a raccogliere materiale per i loro libri e molti dei quali sono sul libro paga dei servizi segreti statunitensi, perché le informazioni delle quali vengono in possesso sono considerate necessarie alla sicurezza nazionale. Pensiamo alle cosiddette primavere arabe: una volta accettato l’assunto che non vi è altro dio al di fuori della democrazia, non resta che puntare su quel cavallo anche al costo d’inventarsi letteralmente cose e movimenti che non esistono. Le primavere arabe non sono mai esistite, se non nella fantasia dei liberal americani: se fosse stato per loro, oggi al potere, in Egitto, non ci sarebbe il generale Al Sisi, ma i Fratelli musulmani. Infatti nella loro cecità sono anche stupidi: non vedono che si danno la zappa sui piedi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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