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Antonio Raimondi, chi era costui?

Quello di Antonio Raimondi, nati a Milano il 19 settembre 1826 (secondo le biografie ufficiali; ma studi recenti sposterebbero la data a due anni prima, il 1824) e morto a San Pedro de Lloc, in Perù, il 27 ottobre 1890, è un caso che potremmo definire classico di come l’Italia lasci scivolare nell’oblio la memoria dei suoi uomini illustri, che qualunque altro Paese sarebbe fiero di onorare e ricordare; mentre all’estero sono assai conosciuti, apprezzati e ricordati, come in realtà meritano. In Perù, Antonio Raimondi è praticamente un’istituzione: è stato, senza dubbio, il naturalista, il geografo, lo storico, l’archeologo più illustre di quella nazione, e godé di ampia fama e unanime rispetto presso tutti gli altri studiosi dell’epoca, specialmente tedeschi, britannici, americani e francesi, i quali vedevano in lui un precursore, un modello ideale e un riconosciuto e apprezzato punto di riferimento per ogni ulteriore studio o ricerca. Anche il governo peruviano lo teneva in grandissima considerazione: che si trattasse di progettare il tracciato di una ardita ferrovia destinata a scavalcare la Cordigliera delle Ande, o di esplorare i recessi più remoti e pericolosi della selva amazzonica, o, ancora, di vistare e studiare i depositi di guano delle isole costiere, o d’ispezionare una miniera, si poteva essere certi che il milanese non avrebbe esitato a mettersi in viaggio, a dorso di mulo, a cavallo, a piedi, su per le montagne, attraverso i deserti, nel fitto della foresta equatoriale, sfidando qualsiasi terreno, qualsiasi clima, qualsiasi difficoltà. Tutto lo attraeva, tutto lo affascinava del Paese sudamericano: gli animali, le piante, gli uomini, le città, le rovine, i reperti, le memorie, la storia; di tutto si interessò, raccolse una quantità immensa di materiale scientifico, e scrisse di tutto, migliaia e migliaia di pagine che sono una vera e propria enciclopedia della natura e del passato del Perù. In diversi casi fu il primo a giungere in luoghi sconosciuti e fare delle scoperte sensazionali; lasciò il suo nome sia a siti archeologici che a nuove specie vegetali, da lui scoperte nel corso delle sue infaticabili esplorazioni.

La passione per il Sud America, e particolarmente per il Perù, lo aveva afferrato sin da ragazzo. Pare che un fascino decisivo abbia esercitato si di lui un grande cactus peruviano esistente nell’orto botanico della sua città natale, al cui abbattimento fu presente, e che lo impressionò vivamente, accendendogli il fortissimo desiderio di traversare l’oceano per vedere coi suoi occhi quel Paese fantastico e quasi leggendario, che, nella seconda metà dell’ottocento, era ancora in buona parte inesplorato, soprattutto dal punto di vista scientifico, e quindi ricco di scoperte e di sorprese d’ogni genere. Ma la spinta decisiva gli venne dalla disillusione politica. Fervente patriota, partecipò alle Cinque Giornate di Milano e, dopo la sconfitta del Piemonte nella Prima guerra d’indipendenza e il ritorno degli Austriaci a Milano, decise d’imbarcarsi per la terra dei suoi sogni, per iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Probabilmente, nei primi anni, pensava a un soggiorno temporaneo; invece la passione per la sua patria d’adozione lo afferrò con tale prepotenza, da fargli perfino scordare l’Italia, o, quanto meno, da fargli accantonare l’idea di farvi ritorno, anche solo per morire. Morì, difatti, in un angolo del Perù, in un paese della costa settentrionale, a casa di un amico con il quale era partito esattamente quaranta anni prima, nel 1850, addolorato per la tragedia che aveva colpito il Paese alcuni anni prima, quando, nella Guerra del Pacifico (1879-1884), era stato invaso da un esercito cileno, che si era spinto fino ad occupare Lima, provocando terribili distruzioni e gettando la fragile economia del Perù in una crisi molto grave, da cui non si riprese mai del tutto. Ad un certo punto aveva deciso di sposarsi e metter su famiglia; dal matrimonio erano nate tre figlie, una delle quali lo assisté nella sua ultima malattia; e così aveva completato la sua identificazione, anche psicologica e affettiva, con il popolo di quella seconda patria.

Scrive Fabrizio Carbone (su Panorama del 14 ottobre 1990: Esploratori dimenticati. Il centenario di Antonio Raimondi; cit. in: Quaderno di viaggio d’autore. Perù, Roma, Centro di documentazione La cultura del Viaggio, 2011, pp. 181-184):

Raimondi è come preso da un sacro furore per animali e piante. In una cassa di legno e pelle porta dietro il suo laboratorio di ricerche e analisi: classifica 10 mila piante e ne dipinge ad acquerello le più significative imbalsama scimmie, uccelli e serpenti (due di questi verranno chiamati "Raimondi" dal direttore del Museo di storia naturale di Milano, Giorgio Jan), recupera vasi precolombiani, oggi raccolti al Castello Sforzesco. Ed è in grado, da solo di misurare e disegnare passo per passo il Perù in 34 "fogli", carta geografica considerata insuperata perché riporta fedelmente coste, fiumi, montagne, villaggi che non sono ancora oggi raggiungibili da strade.

È in questi viaggi che Antonio Raimondi compie una serie di scoperte archeologiche d’eccezione. La più sensazionale avviene a Chavin de Huantar dove si imbatte nella più grande stele precolombiana che esista. Ed è lui a capire l’importanza di un reperto che è precedente alla cultura incaia. Tanto che oggi il monumento in pietra si chiama stele Raimondi ed è esposto al Museo archeologico di Lima. Ma il milanese non si ferma qui. Trova le "chulpas", le tombe a torre di Silustani sopra io lago Titicaca; rintraccia parte della via degli Incas, la città di Pisac, da molti considerata più bella della famosa Machu Picchu, e si imbatte nella gigantesca fortezza di Paramanga, nel deserto costiero a nord di Lima.

La notizia delle sue spedizioni infiamma i governanti peruviani che lo invitano a insegnare presso l’università di Lima. Raimondi si imbatte in una valle desertica a 4.000 metri d’altezza dove vivono cactus giganteschi che saranno poi chiamati "Puya Raimondi". Dall’Italia l’esploratore riceve l’incarico di cercare regioni adatte all’emigrazione e le individua nella regione di tropicale di Chancamayo dove ancora oggi vive una colonia italiana quasi tutta di origine ligure che considera Raimondi il padre putativo. Dal governo peruviano ancora un incarico: studiare le isole di Chincha, per verificare il livello del guano, fertilizzante ricchissimo. La Royal Geographic Society di Londra offre a Raimondi la possibilità di esplorare, per la prima volta in modo sistematico, le rive peruviane del Titicaca. Antonio Raimondi è sempre più preso dalla bellezza della natura e dalla vita degli Incas. Ormai ha deciso che non tornerà più, in Italia, anche se, è il 1859, Milano è liberata. (…)

Dal governo peruviano Raimoindi ha il placet per scrivere la storia del Paese. Fatalità vuole che la guerra fra Perù e Cile impedisca materialmente ai peruviani di stanziare i fondi necessari per dare alle stampe tutti e venti i volumi previsti. Solo i primi cinque vengono pubblicati. Raimondi si trasferisce a San Pedro de Lloc in casa dell’Arrigioni, l’amico con cui era partito per l’avventura sudamericana e che non l’aveva mai abbandonato. Ed è qui che Raimondi muore il 26 ottobre di cento anni fa [1890]. Il Perù intitola a lui un’intera regione e riordina in un museo "Raimondi", a Lima, tutto il materiale raccolto da quello che viene definito lo "scopritore" del Perù" In Italia cala il silenzio…

Antonio Raimondi era un genio praticamente autodidatta; divenne professore all’Università di Lima guadagnandosi la cattedra sul campo, con i suoi viaggi e le sue ricerche; eppure seppe costruirsi una cultura scientifica di tutto rispetto, tanto che i suoi colleghi di svariate nazionalità lo tennero in altissima stima e le sue opere, pur toccando una quantità di discipline diverse, si imposero per la serietà, l’accuratezza e il rigore, quanto meno al livello degli standard accademici richiesti a quell’epoca. Di lui, in Italia, non c’è un monumento, una lapide, un ritratto che lo ricordi, tanto che è difficile perfino sapere com’era il suo aspetto fisico. Nello stesso tempo, era un uomo dal carattere schivo, alieno dal mostrarsi e dal vantarsi dei propri meriti; senza dubbio, si deve anche a questo aspetto della sua personalità il rapidissimo e totale oblio in cui è caduto nella sua città e nel suo Paese d’origine; altri, con meno meriti e meno credenziali di lui, ma più abili o più portati a intessere amicizie importanti e procurarsi appoggi economici e professionali, sanno assicurarsi un posto ben retribuito in vita, e una nicchia d’onore negli scaffali della memoria.

Così rievoca la sua figura il giornalista Franco Rho, suo conterraneo, che partecipò a una missione archeologica nel Perù settentrionale al principio degli anni ’60 del Novecento (da: F. Rho, Perù e fantasmi, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1964, pp. 2021):

La memoria di Raimondi è venerata, i peruviani ne parlano come di un padre della patria; un padre (il più grande) per quanto concerne il naturalismo, la geologia e altre scienze di cui l’italiano era cultore, non escluse l’archeologia che egli curò, dopo rilevamenti dal nord al sud, disegnando carte con l’ubicazione di rovine, città e cimiteri che servirono a Bandelier e, assai più tardi, anche a Bingham per scoprire il Machu Picchu.

Raimondi era un combattente, uno scienziato, un esploratore, un uomo inquieto, coraggioso e preciso, solitario, pazzo d’amore per una terra che, se oggi non si può definire ospitale, chissà come si presentava il secolo scorso, quando per viaggiare non esistevano che cavalli, buone gambe e un fisico d’eccezione, poiché malaria, febbre gialla e "mosquitos" costituivano infortuni in agguato ad ogni pie’ sospinto.

Raimondi si era addentrato, per anni ed anni,m nei deserti e nella "sierra", fino ai margini della selva, animato da uno zelo missionario, lo stesso zelo che lo aveva indotto a sparare sugli austriaci dalle barricate milanesi, durante le cinque giornate.

Ma c’è un altro aspetto ancora della sua personalità, che merita di essere ricordato ed evidenziato: la sua statura morale, la sua schiettezza e nobiltà d’animo, il suo rifiuto dei compromessi, in breve il senso dell’onore che sempre ebbe e accompagnò tutta la sua vita di uomo, di studioso e di viaggiatore. Ed è un aspetto che ce lo rende tanto più caro, quanto più si direbbe che la stoffa di cui erano fatti gli uomini come lui è diventata estremamente rara, ai nostri dì. Ed ecco come tracciava questo lato della sua personalità un altro suo concittadino, lo scrittore Mario Monti (Milano, 1925-1999), nella sua monografia Gli esploratori (Milano, Longanesi & C., 1965, pp. 64-65):

Questa gente, beninteso, aveva anche un sacrosanto rispetto di sé, ossia era dignitosa in ogni occasione, e Raimondi lo dimostrò più volte: quando, ancor giovane, si rifiutò di dar lezioni private al figlio d’una signora dell’alta società di Lima ("Cara signora", le rispose, "non insegno che alla Facoltà, se suo figlio vuol studiare, venga là, del resto non perderà della sua distinzione"; quando ricevette onorificenze dall’Italia che accettò benché "queste distinzioni non siano conformi alle mie idee democratiche; se ne ho qualche stima è come prova della considerazione del governo del mio paese"; quando, senza chiedere ad alcuno, neppure al governo del Perù, aiuti o sovvenzioni sostenne le sue esplorazioni con i propri mezzi; quando cedette le sue care collezioni per potersi sposare e avere una casa; quando, a chi cercava di sfruttare le sue nozioni offrendogli denaro, rispondeva, sdegnato: "Io sono Antonio Raimondi!", e quando infine, negli anni più tumultuosi, consigliato a tornare in Italia, dove non gli sarebbero certo mancati i riconoscimenti, rispose: "Grazie, ma non posso abbandonare la mia seconda patria nel momento della sua sventura".

Del resto, per avere un’idea precisa di quanto fosse differente da noi, basta leggere queste poche frasi tolte da una sua lettera alla fidanzata. Ormai tutto il mondo sa che, pur di guadagnare, non diciamo una donna, ma la sua attenzione, noi italiani, siamo pronti a ogni bassezza, a camuffarci da banchieri, a fingerci milionari, a impersonare duchi e marchesi, ad attribuirci ogni dote, ogni virtù, insomma siamo pronti a qualunque promessa, Raimondi scriveva invece:

"Posso assicurarle che penso ogni giorno e notte al nostro avvenire. Sento che non Le potrò offrire svaghi perché li amo poco, e, come Lei sa già, esco poco di casa. Per me non sono le ricchezze né gli spassi che fanno la felicità dell’uomo. La vera felicità la faccio consistere nella tranquillità d’animo, nella vita pacifica in famiglia, nel rispetto e nell’affetto reciproco e in tutta l’indipendenza possibile dai fastidi che impone la società di pura etichetta. A me piace la compagnia di pochi amici, ma scelti, veri, tutto cuore, di quelli che si sacrificano l’uno per l’altro".

In effetti, queste poche righe ci restituiscono l’immagine di un uomo davvero grande, ancor più che come studioso ed esploratore. Uno che visse tenendo la schiena sempre dritta, e fu quanto mai sensibile e generoso con gli amici e la famiglia. Riservato, modesto, non inseguì mai la fama, né gli onori. E ai suoi cari non lasciò ricchezze materiali, ma un alto esempio di pulizia e integrità morale.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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