
Parliamo di filosofia
20 Luglio 2018
I due mali che ci stanno uccidendo: la disgregazione della famiglia e quella dell’io
20 Luglio 2018La nascita, sofferta e contrastata, del governo Conte, dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso, sta facendo venire a galla, uno dopo l’altro, inesorabilmente, impietosamente, necessariamente, tutta una serie di nodi irrisolti, di ambiguità tollerate, di contraddizioni palesi, ma intoccabili, sia a livello di politica interna che internazionale, nonché tutta una serie di silenzi voluti, d’ipocrisie di antica data, di palliativi e compromessi che, col trascorrer del tempo, sono diventati strutturali, si sono incistati, incancreniti, e che adesso risulteranno dolorosissimi da incidere. Eppure, bisognerà farlo. Alla nazione italiana si presenta un’occasione forse unica di riappropriarsi del proprio destino, di riprendersi pezzi di sovranità svenduta, di correggere politiche sbagliate e suicide, di rivedere accordi e trattati sfavorevoli e autolesionisti, di ritrovare il rispetto di sé e delle altre nazioni, ma soprattutto di raddrizzare una deriva decennale che pareva inarrestabile e riaprire orizzonti di speranza per le persone comuni, i lavoratori, i pensionati, i giovani e i meno giovani, gli imprenditori e i ricercatori, per le peone di buona volontà, oneste, laboriose, che in tutti questi anni hanno tirato avanti nonostante un senso crescente di sfiducia, di scoraggiamento e inutilità, gravate e condizionate com’erano da una sensazione non ben definibile, ma nettissima, di qualcosa che non andava come avrebbe dovuto andare, di trovarsi in balia di situazioni assurde, di orientamenti contrarti all’interesse nazionale, tuttavia approvati e perseguiti dalla classe dirigente nella sua quasi totalità: una sensazione, per usare una parola grossa, ma efficace, di tradimento. Per anni, per decenni, i cittadini italiani hanno avuto la sensazione che qualcuno, nelle alte sfere, remasse contro l’interesse del popolo italiano; che favorisse sistematicamente l’interesse di qualcun altro, le nazioni alleate ed i loro interessi economici, sul piano internazionale, e all’interno le minoranze aggressive, specialmente gli immigrati/invasori clandestini, dediti a una delinquenza diffusa e tuttavia sempre protetti dalla magistratura e coccolati dall’intellighenzia, nonché dalla Chiesa cattolica, sempre a danno e scorno del popolo italiano, della gente che lavora e paga le tasse, della gente che chiede soltanto di poter fare la sua vita nel rispetto delle leggi, e di sentirsi sicura in casa e per le strade, e di non essere frodata dalle banche e spennata da un fisco assurdamente esoso e rapace.
Per anni, per decenni, il popolo italiano ha reagito a quel senso di tradimento, di disfatta, di 8 settembre, provocato dall’atteggiamento delle istituzioni, ed è andato avanti per la sua strada, facendo appello alla sua proverbiale pazienza, alla sua tenacia e al suo coraggio. È andato avanti come andavano avanti gli uomini della Regia marina, dal 1940 al 1943, pur vedendo che il nemico era sempre infornato delle mosse delle loro navi, era sempre in agguato al momento e nel luogo giusti, e spediva in fondo al mare tanti loro compagni, senza che vi fosse stata una lotta a viso aperto, ad armi pari: e tutto questo mentre si sapeva che tanti ufficiali e ammiragli erano filo britannici, avevano mogli inglesi, erano iscritti alla massoneria inglese, avevano amicizie potenti oltre Manica e insomma avevano tutto l’interesse a veder vincere il nemico e soccombere la Patria; sospetti che sarebbero poi stati più che giustificato da fatti precisi, come l’obbrobrioso articolo 16 del Trattato di pace, che proibiva allo Stato italiano di perseguire quanti avevano agito, sin dal 10 giugno 1940, per favorire la causa alleata, e dalle medaglie generosamente distribuite da Stati Uniti e Gran Bretagna ad alcuni di quegli stessi ammiragli che avevano portato la flotta ad arrendersi vergognosamente, senza aver sparato un solo colpo di cannone, nel porto di Malta, subito dopo l’8 settembre del 1943. Ebbene la stessa sensazione l’hanno avuto inconsciamente, pur senza essere studiosi di storia, e pur senza aver vissuto le vicende alla seconda guerra mondiale, milioni di italiani, dal 1945 al 2018: la sensazione che gli amici degli "inglesi" fossero pur sempre al potere, e che facessero tutto quanto era nelle loro possibilità per vanificare gli sforzi, il lavoro, i sacrifici, il risparmio, la genialità del popolo italiano. Sta di fatto che l’Italia, che ancora quindici anni fa era la quarta potenza economica al mondo, ora è scivolata attorno alla ventesima posizione; che si è caricata di un debito pubblico insostenibile; che ha perso, con la sovranità monetaria, la possibilità di riprendersi e di togliere il collo dal nodo scorsoio che la soffoca; che ha visto crollare le sue esportazioni in tutto il mondo, a tutto vantaggio dell’industria tedesca, sulla cui vecchia moneta, il marco, è stato pensato e realizzato l’euro; che è diventata il campo profughi (dei finti profughi!) permanente dell’Africa. E qualcuno dei suoi politici avrebbe voluto anche trasformarla nella sala parto, cosa che non è riuscita solo perché il 4 marzo le cose sono andate come sono andate, e la classe dirigente antinazionale è stata allontanata a calci nel sedere, e il voto degli italiani ha portato al governo delle forze nuove, dalle quali è lecito sperare che ci sarà un’inversione di tendenza, una vera e propria rigenerazione della politica italiana, una drastica terapia per allontanare tutte quelle forze, interne ed esterne, e fra le prime mettiamoci tranquillamente la malavita organizzata, la mafia, la camorra e la ndrangheta, le quali sono prosperate sulle disgrazie del popolo italiano, e per rinnovare i quadri della pubblica amministrazione e i vertici delle aziende pubbliche, finora così male assegnati, se è lecito giudicare in base ai fatti e non a fumosi ragionamenti e petizioni di principio. Quel che accaduto all’economia italiana fra il 2000 e oggi è stato l’equivalente di una gigantesca Caporetto: l’esercito c’era ed era relativamente forte, ma ha ceduto di schianto ed è stato spazzato via: evidentemente qualcuno ne è stato responsabile. I generali, cioè gli uomini di governo degli ultimi diciotto anni, dovrebbero essere sottoposti a processo per alto tradimento. Qualcuno si è arricchito, si è rafforzato, si è avvantaggiato dalla catastrofe della nostra nazione, mentre il popolo italiano veniva sottoposto a un processo di sfruttamento e di espropriazione della sovranità senza precedenti. La comparsa di milioni e milioni di nuovi poveri esige una commissione d’inchiesta. Basta girare per le città italiane, così animate e fiorenti sino a una ventina d’anni fa, per accorgersi che il nostro Pese è uscito da una guerra vera e propria, e che quella guerra l’ha perduta nella maniera più disastrosa. Ovunque negozi chiusi, fabbriche chiuse, appartamenti chiusi, e cartelli di affittasi e vendesi; ovunque i segni di un tracollo economico senza precedenti, e apertura di nuovi supermercati e centri commerciali inglesi, francesi e tedeschi; e intanto, orde di stranieri clandestini, finti profughi, accolti, nutriti, ospitati per buonismo criminale, i quali bivaccano nelle strade, nelle piazze, fuori delle stazioni ferroviarie, spadroneggiano nei quartieri, rendono insopportabile la condizione dei residenti coi loro atti quotidiani di delinquenza, prepotenza e inciviltà.
Ora staremo a vedere se le cose cominceranno a cambiare; ne abbiamo l’ardente desiderio, la vivissima speranza, come ce l’hanno milioni e milioni di persone comuni. Quel che ci aspettiamo è che chi paga le tasse non sia trattato come un potenziale delinquente, e indotto a frodare il fisco per la pura e semplice necessità di sopravvivere; che chi si difende in casa sua, e reagisce alle rapine con tutti i mezzi che ha a disposizione, non finisca per trovarsi, lui, sul banco degli imputati, e si veda costretto a risarcire il delinquente, o i suoi familiari, per la colpa di essersi difeso e di aver difeso i propri cari da una minaccia reale e immediata; di non vedere mai più le navi del filantropo George Soros scaricare nei porti italiani, ogni santo giorno, centinaia di clandestini di dubbia provenienza, pochissimi dei quali sono veri profughi e la maggior parte, nel migliore dei casi, migranti economici, se non criminali fuggiti di galera e venuti in Italia per godere i vantaggi di un Paese dove la legge, notoriamente, sta dalla parte del disonesto, del violento e del delinquente, e non dalla parte del cittadino onesto che subisce l’altrui violenza; di non vedere più i nostri laureati andare all’estero in cerca di lavoro, a spendere altrove le loro competenze e la loro voglia di fare, dopo che le loro famiglie hanno sostenuto tanti sacrifici per pagare le tasse universitarie; di non dover più sopportare quotidianamente le facce e i sermoni untuosi, subdoli, disonesti, di giornalisti della televisione di Stato che tutto fanno, tranne fornire una onesta e obiettiva informazione, e che mal guadagnano i loro alti stipendi portando avanti una narrazione delle cose che andrà a vantaggio, forse, di qualcun altro, ma non della verità, né degli interessi del popolo italiano; e di non aver più fra i piedi amministratori pubblici che portano alla malora le aziende e le banche loro affidate, e che mettono continuamente trappole e lacci sul cammino del governo, di questo primo governo italiano che merita finalmente un po’ di fiducia, da quando la Repubblica di Pulcinella è stata fondata, nel 1946, sulle ceneri d’una guerra persa, di una feroce guerra civile sempre negata e d’un asservimento allo straniero tanto palese quanto innominabile.
In questo senso, la vicenda del presidente dell’Inps, Tito Boeri, assume il valore di una cartina al tornasole. Se il governo in carica riuscirà a cacciarlo, allora vorrà dire che esistono margini di manovra perché esso si qualifichi come un vero governo di un Paese indipendente e sovrano; se non ci riuscirà, sarà la prova che la catena a cui sono stati legati tutti i governi italiani è tuttora stretta quanto basta per bloccare qualsiasi tentativo di riforma. Sul perché Boeri se ne debba andare, non servono molte parole: gli alti funzionari pubblici sono pagati per badare all’amministrazione e non per fare politica. In Italia c’è troppa gente che si permette di fare politica, anche se non è pagata per quello, e che pertanto guadagna male il proprio stipendio. Fra quanti si permettono di fare politica, mentre non sarebbe loro compito, né loro diritto, mettiamoci pure i vescovi e specialmente la C.E.I, la quale ha pensato bene di formalizzare il proprio dissenso dalla politica del governo in fatto di immigranti e di respingimenti, ribadendo il concetto (abusivo e taroccato) che essa è contraria ai valori cristiani. Ebbene: se la pensano davvero così, che fondino un loro partito, visto che il loro partito di riferimento, il Pd, è stato sonoramente bocciato dagli elettori; altrimenti tacciano e pensino, una buona volta, alle cose spirituali, per le quali occupano le loro sedi. E lo stesso vale per tutti i preti in maglietta rossa e sciarpa arcobaleno che organizzano raduni, marce e manifestazioni per la stessa ragione, cioè perché il governo ha deciso di porre un freno alla sistematica auto-invasione dell’Italia, voluta dai precedenti governi (e decisa dai loro mandanti internazionali). Gli italiani non ne possono più dei Boeri, dei Bassetti, dei Galantino, di tutta questa classe dirigente che non rappresenta nessuno, perché non ha uno straccio di credibilità e autorevolezza.
Un’ultima osservazione, a proposito di legittimità morale, di credibilità della classe dirigente e del divario che esiste fra ciò che i nostri governati e rappresentanti pensano di dover dire e fare, e quel che il popolo italiano si aspetterebbe che dicessero facessero, almeno qualche volta, per salvare la decenza. Il 19 luglio 2018, anniversario della strage di ventisei anni fa, nella quale vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, una piccola folla ha ricordato il coraggioso magistrato nel luogo stesso ove fu fatta esplodere l’automobile carica di tritolo. Ma il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non c’era. Era in Azerbaigian, in viaggio di Stato: un viaggio importante, senza dubbio, soprattutto dal punto di vista economico, ma che non richiedeva necessariamente la sua presenza, o che poteva essere fatto in maniera da non sovrapporsi alla ricorrenza palermitana. La sua assenza può essere interpretata in vari modi, nessuno dei quali assume una luce simpatica di fronte al popolo italiano, di cui egli è il massimo rappresentante istituzionale. Le lente e faticose ricerche della magistratura stanno portando a galla una verità brutta, indicibile: la trattativa fra lo Stato e la mafia, a quell’epoca, ci fu, anche se poi è stata sempre negata; e Borsellino, come Falcone, senza dubbio era visto come un ostacolo sulla via di quell’infame accordo che Totò Riina andava perseguendo, per costringere lo Stato ad allentare la pressione su Cosa Nostra e riguadagnare una posizione di non interferenza reciproca, come quella che aveva assicurato a lungo la sostanziale immunità ai vertici di Cosa Nostra, perfino dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1982. Falcone e Borsellino sapevano che il legame fra lo Stato, o almeno pezzi significativi dello Stato, e la mafia, non è un legame precario e sporadico, ma un legame strutturale, di ferro, mentre loro erano indisponibili a prendervi parte, ad avallarlo, sia pure con il loro silenzio: per questo sapevano di essere in pericolo, di avere i giorni contati. Ma il presidente Mattarella, in Via D’Amelio, non c’era. Noi pensiamo che avrebbe dovuto esserci, per rispetto di quei morti, della memoria di quei giudici e per dare al popolo italiano un preciso segnale: che la lotta contro la mafia non si è arenata, ma prosegue, e che le indagini della magistratura la stanno stimolando ancor più, mano a mano che si definisce con maggiore chiarezza il quadro d’insieme, politico e istituzionale, nel quale il delitto di Capaci e quello di Via D’Amelio sono maturati. Lui, però, non cera. Ha ritenuto più importante andare a Baku, sul Mar Caspio, a parlare di petrolio, di rifornimenti energetici e di partnership commerciale: tutte cose utili, senza dubbio, ma delle quali altri avrebbero potuto occuparsi. Il ruolo del presidente, nella Repubblica italiana, è in primo luogo simbolico e rappresentativo: e cosa avrebbe meritato maggiore attenzione, agli occhi del popolo italiano, da parte del suo presidente: il viaggio in Azerbaigian, o la presenza viva e partecipe, altamente simbolica e rappresentativa, alla commemorazione di Via D’Amelio?
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