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Parliamo di filosofia

Se si passano in rassegna i più celebrati libri di filosofia della modernità e della contemporaneità, ci si accorge che scaturiscono dalla stessa radice che ha prodotto il cinema malato e la letteratura malata: la radice del disgusto nei confronti della vita, del disprezzo dei grandi valori sui quali si regge (Dio, la patria e la famiglia) e sulla celebrazione delle forze disordinate, irrazionali, incontrollabili, o, all’opposto, sulla celebrazione di una ragione, di una scienza e di un progresso che dovrebbero essere il correttivo a tali forze disordinate, ma finiscono per svolgere la stessa funzione: quella di sottoporre l’individuo a dei meccanismi alienanti, deresponsabilizzanti, che lo espropriano sia della facoltà di scegliere e decidere cosa fare della sua vita, sia di godere delle cose belle e buone che ci sono in essa, per corteggiare e sprofondare nelle cose più brutte e aberranti, come il drogato scivola nella dipendenza dagli stupefacenti. La sola differenza è che a leggere i libri di filosofia è un pubblico assai più ristretto di quello che si dedica alla lettura dei romanzi o alla visione dei film. Tuttavia, non bisogna sottovalutare l’influenza che i filosofi, o sedicenti tali, sono capaci di esercitare sulla società odierna: di fatto, essi controllano, direttamente o indirettamente, la cultura accademica, e dunque la formazione universitaria degli studenti; controllano, spesso, la direzione, o almeno la consulenza, delle case editrici e la linea editoriale di molti giornali; sono ospiti fissi, ascoltati e riveriti, di moti programmi televisivi di grande ascolto; moltiplicano la loro presenza nelle città, mediante conferenze, presentazioni di libri (i loro e quelli dei loro amici), pubblici dibattiti. E siccome la massa del pubblico è digiuna di filosofia, ma in compenso è affetta dalla sindrome dello snobismo, per cui pensa che andare alla conferenza di un celebre filosofo significhi strappare qualche raggio di luce riflessa, figuriamoci poi se il grand’uomo firma con le sue mani la copia del libro appena acquistato, alla fine si scopre che le conferenze di filosofia, se vantano la presenza di un nome famoso, attirano perfino più gente che degli eventi culturali di minori pretese o comunque rivolti a un pubblico più ampio, ad esempio presentazioni di mostre di pittura o cineforum; dal che si capisce quanto i filosofi pesino, oggi, sull’insieme dei modo di pensare (o credere di pensare) dell’intera società.

Facciamo una brevissima carrellata, o meglio prendiamo alcuni campioni dalla recente produzione filosofica europea, attingendo alle relative "voci" di Wikipedia, come abbiamo già fatto per il cinema e per il romanzo. E partiamo da un saggio che ha avuto un’importanza decisiva sulla cultura del secondo Novecento, L’Essere e il nulla di Jean-Paul Sartre, pubblicato nel 1943, ma largamente diffuso a partire dagli anni ’50 e ’60 e divenuto la Bibbia dei moderni esistenzialisti.

Durante la sua prigionia di guerra (1940-1941) Sartre lesse "Essere e tempo" di Martin Heidegger, una ricerca ontologica condotta con la visione ed il metodo della fenomenologia di Edmund Husserl (che di Heidegger fu il maestro). L’opera di Heidegger fu in effetti prodromica a quella sartriana, il cui sottotitolo recita "Saggio fenomenologico sull’ontologia". Il saggio di Sartre è manifestamente influenzato da Heidegger, sebbene l’autore francese nutrisse profondo scetticismo riguardo ad ogni forma in cui l’umanità potesse raggiungere una sorta di stato personale di realizzazione comparabile con l’ipotesi heideggeriana di re-incontro con l’Essere. Nella sua più tetra descrizione de L’essere e il nulla, l’uomo è una creatura ossessionata da una visione di "compiutezza", che Sartre chiama "ens causa sui" e che le religioni fanno coincidere con Dio. Venuti al mondo nella realtà materiale del proprio corpo, in un universo disperatamente materiale, ci si sente inseriti nell’essere (con la "e" minuscola). La coscienza è in uno stato di coabitazione con il suo corpo materiale, ma non ha alcuna realtà obiettiva; è nulla (nel senso etimologico di nulla res, "nessuna cosa"). La coscienza ha l’attitudine di concettualizzare le possibilità, e di farle apparire, o di annichilirle.

Ora vediamo il testo fondamentale del rifiuto del cristianesimo, Perché non sono cristiano, di Bertrand Russell, una raccolta di saggi e conferenze di epoche diverse, che iniziano nel 1927l, ma sono stati raccolti in un volume definitivo trent’anni dopo, nel 1957.

Cristiano non è (…) qualunque uomo virtuoso, ma specificamente chi crede nei dogmi dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima e ritiene Gesù almeno il più saggio fra gli uomini. (…) L’adesione alla religione non è dettata da argomenti ma da fattori emotivi, e che la religione non è fonte di virtù: al contrario, essa ha praticato la crudeltà (ad esempio nel periodo dell’Inquisizione) e ostacolato il progresso, nel XX secolo come in passato. (…) Il fondamento della religione è la paura, da cui solo la scienza e il libero intelletto sono capaci di emancipare l’uomo. Secondo il filosofo, "la Chiesa cattolica avrebbe calato in un dogma la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio attraverso la pura ragione: ciò al fine di contrastare i liberi pensatori, al tempo in cui essi invece iniziavano a sostenere che la ragione può legittimamente dubitare di tale esistenza". Il primo argomento affrontato da R. è quello della Causa Prima. (…) R. ritiene che il principio si confuti da sé: se tutto deve avere una causa, allora anche Dio deve averla." Conclude quindi che non c’è ragione per ipotizzare una Causa Prima delle cose, che ben potrebbero esistere da sempre. (…). Ma se pure vi fosse un ordine superiore, ci si dovrebbe chiedere perché proprio quello e non un altro. Se esso è il migliore possibile, allora Dio stesso soggiace a leggi che gli indicano una via da percorrere; viceversa, l’argomento è contraddetto dalla presenza di un ente che agisce ad arbitrio." Secondo R. il principio è ormai superato dalle teorie di Albert Einstein. (…) R. ritiene che Cristo non sia stato il più saggio degli uomini. Considera quindi, "prescindendo dal problema della sua reale esistenza storica, che il suo insegnamento, pur eccellente sotto molti aspetti, appare difettoso sotto molti altri." In primo luogo egli si mostra sicuro dell’imminenza della sua seconda venuta. I primi cristiani credevano in questa imminenza, e, conformemente alla sua parola, non si curavano del domani; ma poi non vi fu alcuna seconda venuta. R. identifica in tutto ciò un primo aspetto che non depone per la saggezza di Cristo. "Ma c’è un altro aspetto, quello morale, che negherebbe tale saggezza: l’insegnamento di Gesù infatti prevede il castigo eterno." Ciò (…) è segno di scarsi sentimenti di umanità: Cristo ha infatti atterrito e scagliato invettive;  in altri passi, ha mostrato inclemenza e inutile crudeltà. Per Russell Gesù non regge il paragone con Buddha, né con Socrate, che mai si fece prendere dall’ira e, in punto di morte, fu dolce anche con gli avversari.

Capitolo II – La religione ha contribuito alla civiltà? R. fa suo il concetto di religione in Lucrezio: una malattia frutto della paura e fonte di sofferenza. Il pensatore sottolinea poi la distanza fra il comune concetto di religione e la vera natura di questa. (…) R. rileva come l’insegnamento di tutti i maestri religiosi sia stato assunto a verità assoluta, e sia per questo via via diventato fonte del potere di una casta privilegiata incaricata di interpretarlo. Tale casta possederebbe dunque una verità eticamente lontana dal messaggio originario, e in quanto immutabile necessariamente contraria al progresso e fonte di oscurantismo. Nel quadro dei rapporti fra religione e civiltà si inserisce la problematica dei rapporti fra cristianesimo e sesso. R. pone in luce "i danni della visione della sessualità come peccato e della sua relegazione nel solo matrimonio indissolubile: dal mancato controllo delle nascite alle conseguenze nevrotiche del tabù nei giovani sottratti alla conoscenza dell’ars amandi." Per R. è l’avvento del cristianesimo a diffondere l’intolleranza religiosa: essa era sconosciuta al mondo classico fuorché, non a caso, a quello ebraico, che forse (…) in questo modo si difendeva dalla minaccia di venir assorbito dai popoli vicini. Le persecuzioni del cristianesimo da parte dell’impero romano sono ridimensionate dal pensatore, in quanto di scarso rilievo, discontinue e di natura essenzialmente politica; viceversa, dai tempi di Costantino in poi, la persecuzione appare essere stata praticata dagli stessi cristiani. L’attuale cristianesimo è indubbiamente assai più mite, ma ciò è attribuito da R. all’insegnamento dei liberi pensatori, dal Rinascimento in poi: quindi all’opera degli stessi uomini che un tempo erano perseguitati dai cristiani. (…)  La nostra etica sessuale. Secondo Russell "un moralismo sessuale particolarmente rigoroso è il segno di una sessualità vissuta male intesa oscenamente e moralisticamente."

Passiamo al Diario Minimo di Umberto Eco, del 1963 (un Secondo diario minimo ha fatto seguito trent’anni dopo, nel 1992). Qualcuno potrebbe chiedere cosa c’entri questo libro con la filosofia; rispondiamo che qui ci occupiamo dell’influsso che hanno esercitato sulla società non solo i veri filosofi, ma anche quelli fasulli, di solito sfruttando l’ignoranza, la superficialità e il conformismo del pubblico, come, appunto, ha sempre fatto Eco, debitamente sostenuto da tutto l’establishment pseudo culturale italiota, che ne ha fatto quasi, niente di meno, il maestro per eccellenza.

ELOGIO DI FRANTI.

In un periodo, il secondo dopo guerra, in cui il libro Cuore veniva smontato per la sua mentalità borghese e nazionalistica, Eco decide di rivalutare e reinterpretare il personaggio che nel romanzo è sempre visto come "il cattivo" tanto che alla fine viene pure espulso dalla scuola. Nel 28 gennaio del romanzo, dopo che Franti era stato espulso da scuola per otto giorni, arriva la madre di lui disperata e chiede al direttore che il figlio venga riammesso. Qui si comprende la povertà di quella famiglia, diversa da quella borghese di Enrico. Il sorriso di Franti alla frase del direttore "tu uccidi tua madre" fa supporre a Enrico un atteggiamento demoniaco, mentre per Eco è simbolo umano, che dimostra la sua timidezza di fronte alla sua povera situazione economica. Peggio è invece il carattere di Enrico, un burattino borghese, che vive sui pregiudizi, come quello verso Franti.

FENOMENOLOGIA DI MIKE BONGIORNO.

In questa sezione Eco dipinge un impietoso ritratto del popolare conduttore italoamericano – o meglio, del personaggio che egli rappresenta – che, nonostante la sua tendenza alla gaffe e alla mediocrità, viene idolatrato da milioni di telespettatori, giungendo ad affermare come "Mike Bongiorno convince dunque il pubblico del valore della mediocrità […]. Egli dice ai suoi adoratori: "Voi siete Dio, restate immoti".

MY EXAMINATION ROUND HIS FACTIFICATION FOR INCAMINATION TO REDUPLICATION WITH RIDECOLATION OF A PORTRAIT OF THE ARTIST AS MANZONI.

In questa sezione, scritta secondo lo stile dei New Critics, l’autore analizza il romanzo I promessi sposi come se fosse l’ultima opera, in ordine cronologico, di James Joyce, non il culmine della sua produzione, ma di certo "il [suo] compimento". L’analisi si sviluppa lungo molti parallelismi con le opere dello scrittore irlandese: il saggista sostiene che, in opposizione all’Ulisse, in cui la descrizione di una giornata vissuta dal protagonista Leopold Bloom si muta nel discorso intorno a una città e a uno Stato, le vicende narrate nei Promessi Sposi coprano "in realtà gli eventi di una sola giornata vissuta dal protagonista, Renzo Tramaglino". Inoltre, il famoso "Addio ai monti" di Lucia Mondella viene accostato all’altrettanto celebre monologo notturno di Molly: nelle "cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi" salutate dalla giovane lombarda, l’autore giunge a vedere un potente simbolo fallico, manifestazione inconscia del complesso di Edipo. Infine, alla fine del capitolo XXVI, un Padre Cristoforo ormai morente, alle domande dei promessi ormai riuniti: "Ci rivedremo? Ci rivedremo?", risponde con l’espressione "Lassù, spero". Privando questa scena di "una complicata luce soprannaturale" l’autore coglie un riferimento a uno dei fondamentali dettami contenuti nel Corpus Hermeticum: "Sicut inferius sic superius".

Potremmo andare avanti con le opere di Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Umberto Galimberti. Nessuna di esse è diventata un classico; nessuna ha suscitato un dibattito internazionale; nessuna ha segnato un svolta, ha dischiuso una porta, ha mostrato una nuova prospettiva. Se non si tratta di miseri giochi semantici, come nel caso di Umberto Eco, si tratta comunque di libri modesti, che non aggiungono niente, che non depongono certo a favore della genialità dei loro autori. Eppure, nonostante l’irrilevanza della loro opera, costoro sono assurti al rango di maîtres-à-penser, e ormai fanno parte del paesaggio fisso dei salotti televisivi, e non c’è discussione, su qualsiasi argomento, di politica, di ecologia, di attualità, di cultura, nel quale la loro opinione non sia domandata come una grazia, e ricevuta come uno speciale privilegio, da conduttori ossequenti e quasi in soggezione. Conclusione: non è necessario essere dei grandi pensatori per influenzare l’orizzonte filosofico del proprio tempo, basta aver raggiunto una posizione mediatica di visibilità, che reca con sé la sindrome della indispensabilità. Come è impossibile celebrare il Natale senza appendere un Babbo Natale di pezza sulla porta di casa, così è impossibile che un programma televisivo si occupi di un argomento di carattere generale, o specifico, senza che vengano invitati Cacciari, o Galimberti, o qualcun altro della stessa scuderia. Che si parli della scuola pubblica, o d’immigrazione, o di urbanistica, o di spesa sociale, o di guerre, o della sanità, o di cinema, o di fisica quantistica, o del problema dello smaltimento della plastica, o di musica leggera, o di televisione, o di sport, o della questione religiosa, o di papa Francesco, o di bullismo, o di disordini alimentari, o di depressioni, suicidio, nevrosi, felicità, progresso, l’opinione di Cacciari e Galimberti è considerata irrinunciabile e imperdibile. Non è che abbiano molto da dire, né che lo sappiano dire in maniera molto chiara e comprensibile (alzi la mano chi ci capisce qualcosa dei loro libri, ammesso che li abbia mai letti, e specialmente quelli di Cacciari), però le loro facce sono ormai considerate decorative e rassicuranti, una garanzia di serietà del discorso, una promessa che si volerà alto, non si scivolerà nelle solite chiacchiere da Bar Sport.

E che cosa dicono, in sostanza, questi signori, con tutta la loro alterigia e la loro prosopopea, con il loro abituale e ormai scontato disprezzo per chi dissente dal loro pensiero? No: non dicono che Dio, patria e famiglia sono concetti totalmente obsoleti; lo danno addirittura per acquisito. Ciò che dicono, parte dal presupposto che dobbiamo rivolgere lo sguardo in tutt’altra direzione che non siano Dio, la patria e la famiglia. Ma quale sia questa direzione, il guaio è che non lo sanno neppure loro: non ne hanno proprio la minima idea…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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