
Ossessivi ritornelli e strane amnesie
15 Luglio 2018
Montale cosa aveva capito di Italo Svevo?
16 Luglio 2018La fama di Napoleone riposa soprattutto sulle sue vittorie militari e la maggioranza degli storci, pur dopo accese discussioni, propende per giudicare il generale corso come uno dei più grandi geni militari della storia. Indipendentemente da questo giudizio, sul quale si può ancora discutere, perché in tutte le sue campagne si possono osservare deficienze di strategia che avrebbero potuto essere fatali, e che, alla fine, lo furono, rimane da esplorare un altro aspetto delle sue campagne, al quale, ci sembra, non è stata dedicata tutta l’attenzione che merita: vale a dire la propensione di Napoleone a ricorrere a dei bluff, puntando sull’effetto psicologico e sulle circostanze emotive oltre che sulla decisione delle armi e mostrando così di non essere un genio militare "puro", ma un condottiero che nella ricerca del successo passava disinvoltamente dalla strategia militare alla minaccia d’infliggere danni irreparabili al nemico, inducendolo così a capitolare, o comunque a venire a patti, pur senza avergli inflitto una sconfitta risolutiva sul campo. Se questo giudizio è esatto, allora si tratta di vedere quale dei due, il militare o il politico, prevaleva e dettava la condotta all’altro. La nostra opinione è che, in Napoleone, prevaleva sempre il militare, sia pure nella forma "mista" che abbiamo detto; questo è stato anche il limite della sua politica, perché, giusta la sentenza di von Clausewitz che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, allora è chiaro che deve essere la politica a comandare la strategia, non la strategia militare a ispirare la politica. In altre parole, bisogna pur arrivare alla pace, visto che lo scopo della guerra è piegare il nemico con mezzi militari e costringerlo a sottomettersi sul piano politico, e che, una volta raggiunto questo risultato, non è pensabile che si individui sempre un nuovo nemico, per prolungare la guerra e trasformarla in una condizione permanente. La guerra consuma e distrugge risorse, e la pace, se non altro, ha lo scopo di permettere che queste si ricostituiscano. Se uno Stato vive permanentemente in una condizione di guerra, ad onta di tutte le sue vittorie finirà inesorabilmente sconfitto, perché brucia più risorse di quante ne produca e perché il prelievo delle risorse altrui esige sempre nuovi nemici da affrontare, e quindi una richiesta sempre maggiore di risorse con cui sottometterli. Se ciò accade, ci si trova in presenza della nemesi della politica di guerra e, di fatto, è proprio quel che è accaduto a Napoleone, ma anche ad altri imperi prima del suo, come l’Impero romano (se è lecito paragonare un impero che è durato secoli e secoli ad un altro che è durato, in tutto, una quindicina d’anni) e ad altri condottieri, venuti anche dopo di lui, per esempio a Hitler.
Torneremo al discorso su Hitler e al parallelo fra lui e Napoleone, ovviamente restando sul piano politico-militare e astraendo, in questa sede, da ogni giudizio morale sui contenuti specifici delle loro rispettive ideologie. Qui c’interessa motivare la nostra affermazione che Napoleone si faceva guidare dal suo istinto di militare anche nelle questioni di carattere prevalentemente politico, peraltro senza mai, o quasi mai, agire da militare "puro", ma con una forte propensione per il bluff. E la motivazione è questa: Napoleone stratega amava l’azzardo, ma l’azzardo militare: tutte le sue campagne presentano questa caratteristica. Era un grande giocatore d’azzardo, che rischiava tutto per vincere l’intero piatto., e raddoppiava continuamente la posta. Però era un gioco d’azzardo tutto militare, il cui scopo era piegare il nemico militarmente; solo quando il margine di rischio era troppo grosso, egli spostava l’azzardo sul piano psicologico, con lo scopo d’intimidire il nemico e indurlo a venire a patti, senza che si giungesse alla prova delle armi, ed è questo che chiamiamo, propriamente, un bluff. La sua carriera militare comincia con un grande azzardo, quando, nella campagna d’Italia del 1796-97 (parte della campagna contro la prima coalizione antifrancese), si spinge fino a 100 km. da Vienna, pur non avendo riportato una vittoria decisiva e pur sapendo di non avere né le risorse, né il tempo per giungere a un risultato utile sul piano strettamente militare, ma confidando semplicemente nella sua buona stella; e si chiude con un altro azzardo, la campagna dei Cento giorni (settima coalizione), quando, alla vigilia di Waterloo, affronta Blücher e lo sconfigge a Ligny, poi affronta Wellington e cerca di batterlo prima che i suoi due nemici possano ricongiungersi; e fallisce solo di poche ore, perché Blücher si riprende dalla sconfitta e si muove più in fretta del previsto, e Grouchy non rispetta le sue istruzioni, nel qual caso l’esito della battaglia sarebbe stato completamente diverso. È pur vero che per tutti i giocatori che non riescono a staccarsi dal tavolo verde arriva, prima o poi, il momento della rovina, perché l’arte del vero giocatore consiste nel capire quando è il momento di alzarsi, accontentandosi della vincita realizzata. Per Napoleone, ipnotizzato dai suoi stessi successi, accade quel che sarebbe poi accaduto a Hitler: non vide quand’era il momento di fermarsi e sprecò le occasioni di giungere a una pace di compromesso. Eppure ne ebbe molte, fino al’ultimo. Durante la campagna del 1814, per esempio (sesta coalizione), mentre si batteva disperatamente, anche se con indubbia genialità, per difendere Parigi, ci fu un momento in cui l’imperatore d’Austria avrebbe certamente accettato una pace di compromesso, dopo che Schwarzenberg era stato battuto; ma Napoleone lasciò passare il momento favorevole, verso la fine di febbraio, ed esso non si sarebbe più ripresentato. Appena un mese dopo i prussiani, gli austriaci e i russi entravano a Parigi e l’impero napoleonico crollava.
Ma torniamo alla prima campagna importante di Napoleone, la campagna d’Italia. Le brillanti vittorie di Lodi, Arcole e Rivoli avevano stupito il mondo (e imbarazzato il Direttorio), ma non erano state risolutive; perciò egli decise di spingere più a fondo l’offensiva e di premere sugli austriaci, che si stavano ritirando lentamente, in modo da trasformare il loro arretramento in una disfatta. Lo fece pur sapendo di avere a disposizione uomini e materiali in misura limitata e, soprattutto, pur sapendo che il suo teatro di guerra era secondario rispetto a quello del Reno dove agiva Moreau, non solo nei piani del Direttorio, ma anche rispetto a una valutazione oggettiva della strategia d’insieme: arrivare a Vienna dall’Italia, valicando le Alpi da sud, in inverno, era una impresa ben più difficile che infliggere al nemico una sconfitta decisiva nello scacchiere del Reno. Ma tutto ciò poco gli importava, perché, guidato dalla sua sfrenata ambizione e indifferente al quadro politico complessivo, egli era deciso a trasformare un teatro di guerra secondario nel palcoscenico del suo trionfo e nel piedistallo per la sua scalata al potere.
La situazione alla fine di febbraio è la seguente: la fortezza di Mantova è caduta; gli austriaci, comandanti dall’arciduca Carlo, si stanno riorganizzando; Napoleone, che ha varcato successivamente il Brenta, il Piave, il Tagliamento, l’Isonzo, e si è spinto in marzo oltre le Alpi, raggiungendo e conquistando Klagenfurt, dispone di forze insufficienti per marciare su Vienna; eppure egli decide di proseguire l’offensiva nella valle della Drava per forzare il nemico ad arrendersi. Ecco come ha rievocato questa fase della campagna uno dei massimi storici militari contemporanei, David. G. Chandler, nel suo classico studio Le campagne di Napoleone (titolo originale: The Campaigns of Napoleon, London, Weidenfeld and Nicolson, 1966; edizione italiana a cura di M. Pagliano e L. Bellavita, Milano, Rizzoli, 1968, pp. 185-186):
Il successo della puntata su Vienna dipendeva dall’avanzata concentrica, dall’Italia e dal Reno, di Bonaparte e di Moreau, che avrebbero dovuto agire di concerto; quest’ultimo però non dava alcun segno di voler iniziare l’offensiva. Questo fatto mise Bonaparte in una situazione tutt’altro che invidiabile; infatti, non era forte abbastanza per poter avanzare da solo su Vienna e, nel contempo, un arresto a Klagenfurt, o una ritirata, avrebbero comportato il fallimento di tutta la campagna. Poiché i giorni si succedevamo senza che nessun movimento venisse attuato da parte dell’Armata d’Italia, il morale austriaco prese rapidamente a risollevarsi.
Visto che le armi non erano sufficienti per risolvere la situazione a suo favore, Bonaparte ricorse alla diplomazia. Il 31 marzo rivolse un appello all’arciduca Carlo, invitandolo ad una sospensione delle ostilità, con la speranza di provocare un piccolo indugio che avrebbe consentito a Moreau di iniziare la sua offensiva. Per dare l’impressione di agire in base ad una effettiva superiorità, l’Armata d’Italia si spinse avanti audacemente e il 7 aprile occupò Leoben. Le avanguardie giunsero fino al passo del Semmering, dal quale ebbero un’indistinta visione delle guglie e delle torri di Vienna, oltre cento chilometri più a nord. Nello stesso giorno gli austriaci accettarono una sospensione delle ostilità per cinque giorni.
Questo però risolveva solo momentaneamente il problema; ben presto la situazione peggiorò perché Moreau ritardò ancora l’offensiva, mentre nel Tirolo ed a Venezia le popolazioni approfittavano della partenza di Joubert e di Bernadotte per sollevarsi. Bonaparte ricorse allora alla diplomazia. Il 13 si assicurò un ulteriore prolungamento dell’armistizio di altri cinque giorni e il 16, di sua iniziativa e senza attendere l’arrivo del generale Clarke, plenipotenziario del Direttorio, avanzò una serie di proposte preliminari per l’apertura di negoziati ufficiali. Mentre la corte imperiale esitava a prendere una decisione, la tensione aumentava; se si fosse giunti al 18 aprile senza alcuna novità circa i movimenti dei francesi sul Reno o senza una risposta favorevole da Schönbrunn, la precarietà della situazione di Bonaparte sarebbe stata evidente e la partita perduta. All’ultimo giorno gli austriaci cedettero: avuta notizia che Hoche e Moreau stavano per iniziare il passaggio del Reno, i ministri consigliarono l’imperatore di firmare le trattative preliminari di Leoben (18 aprile). Alcuni punti vennero poi modificati nella pace di Campoformio, che fu firmata il 17 ottobre 1797, ma in linea generale i guadagni iniziali di Bonaparte vennero mantenuti in pieno.
Sappiamo bene in che senso i preliminari di Leoben del 17 aprile vennero modificati col Trattato di Campoformio del 17 ottobre successivo: mentre gli austriaci cedevano alla Francia i Paesi Bassi e la Lombardia, in modo da permettere la formazione della Repubblica Cisalpina, Venezia, i cui territori di terraferma, inizialmente, avrebbero dovuto andare all’Impero asburgico, ma senza il Dogado (e le Isole Ionie alla Francia), nel frattempo, il 12 maggio, aveva cessato di esistere, e quindi in ottobre passò interamente all’Austria, e la sua storia più che millenaria, così gloriosa, ebbe ingloriosamente fine. Dal punto di vista politico, l’azione di Napoleone fu un atto di banditismo internazionale: egli barattò l’annessione di alcuni territori e risarcì l’Austria con qualcosa che giuridicamente non gli apparteneva, il più antico Stato d’Europa e uno dei più civili, che per secoli aveva fatto da antemurale contro il dilagare della potenza turca nel Mediterraneo.
Dal punto di vista militare, l’ultima fase della campagna d’Italia evidenzia in maniera esemplare le qualità e i difetti di Napoleone stratega. Le qualità erano l’audacia, la risolutezza, la fulmineità nel prendere le decisioni e nell’eseguire gli spostamenti delle truppe, incalzando il nemico senza dargli il tempo di ricostituire una linea di resistenza. Il difetto principale era la tendenza ad agire come un giocatore i poker, rischiando il tutto per tutto in situazioni oltremodo pericolose e mirando a sgomentare l’avversario, facendogli credere di essere più forte e più sicuro di quanto non fosse in realtà. Se Moreau non fosse stato schierato sulla linea del Reno, e gli austriaci avessero potuto concentrarsi contro Napoleone, questi sarebbe stato certamente battuto. Si era spinto troppo avanti, non aveva forze bastanti per investire Vienna, e le sue linee di rifornimento si erano allungate abbastanza da rendergli impossibile una veloce ritirata, senza contare i contraccolpi politici di un ripiegamento in Italia. La sorte di Napoleone era appesa a un filo: sarebbe bastato che i nervi di Francesco II reggessero ancora per ventiquattr’ore e invece dei preliminari di Leoben ci sarebbe stata una ripresa delle ostilità, dove i difensori, battendosi in casa e avendo le linee di rifornimento assai più brevi, avrebbero avuto tutte le circostanze a loro favore. Avrebbero potuto concentrare un grosso esercito e schiacciare l’imprudente che si era spinto fin là. Non è vero quel che ha scritto Hemingway nel romanzo Addio alle armi, che l’esercito austriaco era stato fatto per regalare vittorie a Napoleone. Esso, almeno in questa campagna, rappresentò per lui un temibile avversario e ci vollero tutto il suo genio e tutta la sua audacia per strappare la vittoria. Che poi fu una vittoria parziale, perché, cedendo Venezia all’Austria, si creavano le premesse per un inestinguibile antagonismo austro-francese nell’Italia settentrionale, foriero di nuovi conflitti. In conclusione, Napoleone ebbe fortuna; ma la stessa avventatezza e la stessa fiducia irrazionale nella sua buona stella avrebbero un giorno giocato contro di lui, specialmente nella campagna di Russia. Anche Hitler si asserragliò a Berlino nell’aprile del 1945, convinto che bastasse resistere un giorno in più dei suoi nemici; era infatti persuaso che la Germania nel ’18 fosse stata battuta per non aver saputo conservare i nervi saldi e perseverare nella lotta. Un giudizio del tutto erroneo, ma tipicamente "napoleonico". Quando un giocatore sfida la fortuna e vince molto, finisce per auto-ipnotizzarsi…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio