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Perdere la fede è perdere anche la propria umanità
10 Luglio 2018Di modernismi, basta consultare un dizionario, ce ne sono stati almeno una dozzina, dall’arte alla religione, dall’architettura alla poesia; anche se, a ben guardare, nonostante l’apparente dispersione e confusione, una matrice comune ce l’hanno: la volontà di spingere avanti, sempre più avanti, il "punto di non ritorno" della cultura moderna rispetto al passato, cioè rispetto alle fasi iniziali della modernità stessa, operando un vero e definitivo cambio di paradigma. Alcuni vedevano ciò come un’impresa gloriosa, o, comunque, come una operazione di segno progressivo: un andare avanti, un oltrepassare nuove frontiere (e sempre nuovi tabù) e un conquistare nuovi spazi; altri, invece, andavano avanti semplicemente perché convinti di non poter tornare indietro, perché certi che non esistevano alternative praticabili, di non aver più alcun ponte dietro le spalle, e dunque nello stato d’animo di chi non spera altra salvezza che dal futuro, ma dubita intimamente del risultato finale e perciò è dominato da un’inquietudine crescente, se non da un vero e proprio senso di angoscia. Ad ogni modo, ottimisti o pessimisti, volonterosi o rassegnati, gli uni e gli altri non credevano più nella tradizione: ritenevano che fosse morta e inutilizzabile, anche se i primi la disprezzavano e i secondi, segretamente, la rimpiangevano, o almeno rimpiangevano le passate certezze; arrivando entrambi a coltivare, in diversa maniera, una sorta di religione del progresso: religione laica, anzi laicista, completamente secolarizzata, e nondimeno religione, nel senso di riporre in essa tutta la fede che le generazioni passate avevano riposto in Dio.
Ma anche questa religione nasceva minata da una tara originaria: il dubbio sistematico, che sarebbe divenuto quasi immediatamente, per la forza della sua stessa natura, un dubbio rivolto contro il progresso. Ai modernisti, allora, non rimase che concentrarsi sugli aspetti tecnici, stilistici e formali del progresso, lasciando perdere quelli contenutistici e ideologici. Nel caso degli artisti, degli scrittori e dei poeti, si trattava di sbizzarrirsi nella ricerca di forme sempre più avanzate, dunque sempre più progressiste, di esplorazione e di rappresentazione della realtà; e siccome, a livello di contenuti — di ideologia, appunto — la cultura moderna ci mise pochissimo a dubitare di se stessa, quindi a dubitare che la realtà sia conoscibile, e soprattutto che sia rappresentabile, ecco che tutti costoro si concentrarono nell’escogitare forme sempre più spinte di decostruzione della realtà e di distruzione delle forme tradizionali, in modo da far emergere, se non altro, la sola cosa di cui fossero realmente e assolutamente certi: che nulla di certo esiste, o, quantomeno, che nulla di certo è conoscibile e rappresentabile. Da ciò il netto prevalere della sperimentazione sui problemi di fondo, sulla ricerca della verità. Si prenda il caso dei romanzi di Virginia Woolf, come Gita al faro, oppure il capolavoro di Joyce, Ulisse: come negare che si tratta di funambolismi formali, peraltro noiosissimi, pesanti, indigeribili, ai quali non fa riscontro alcun contenuto effettivo, se non nella forma più generica, più vaga e più dubbiosa che sia concepibile? A forza di elaborare molteplici punti di vista e di esplorare indecifrabili flussi di coscienza, questi scrittori si perdono nei labirinti dell’esperimento: senza dubbio si sono lusingati di essersi avvicinati al mistero dell’uomo, della coscienza umana colta nel germinare dei suoi pensieri e delle sensazioni, insomma nella dimensione subconscia; ma davvero si può dire che sia stato un gran guadagno, per ciò che riguarda quel che l’uomo sa di se stesso? Davvero i romanzi di Virginia Woolf e di James Joyce ci avvicinano, anche solo di poco, di pochissimo, al cuore segreto delle cose? Se il loro merito fosse questo, allora bisogna pur dire che i decadentisti e i simbolisti avevano colto nel segno, prima e meglio di loro, in particolare con la tecnica dell’epifania, la rivelazione improvvisa e luminosa di una verità interiore, fatta scaturire da qualche evento accidentale e apparentemente banale, quotidiano. Ma se l’ambizione dei modernisti era quella di aver creato un nuovo modo di fare arte, di fare letteratura e di scrivere poesie, insomma un nuovo paradigma culturale, allora bisogna aver l’onestà di riconoscere che hanno mancato clamorosamente l’obiettivo; né avrebbe potuto essere diversamente. Essi hanno sostenuto l’assurda teoria che per rappresentare in maniera più completa e più veritiera la realtà, bisogna sbriciolare la coscienza dell’osservatore, dare la parola a una quantità di osservatori diversi e possibilmente contrastanti, magari anche inattendibili (bugiardi cronici, nevrastenici, dementi, alcolizzati, drogati, posseduti, o semplicemente sognatori che confondono il sonno con la veglia e viceversa), in modo da introdurre un ulteriore elemento di precarietà e di ambiguità, e sbriciolare ulteriormente anche queste "testimonianze", spezzettandole e isolandone singoli istanti, singole fuggevoli ispirazioni, come fotogrammi rivisti alla moviola. Logico, no? Se il centro non esiste più; se la coscienza, intesa come un fatto unitario e trasparente, non esiste più; se non possiamo più fidarci di nulla, tranne che dell’impressione fuggevole del singolo istante, che non è propriamente nostra, bensì qualcosa che accade, non si sa come, non si da dove, né perché, allora essi furono semplicemente coerenti con le premesse: mai si è vista tanta coerenza al servizio di un progetto artistico e conoscitivo tanto balordo e, date le premesse, impossibile. Il risultato è stato non una rappresentazione più completa e veritiera, ma un totale sgretolamento e una irreparabile dissoluzione del reale. Risultato che sarebbe stato più che prevedibile, se costoro avessero avuto un po’ più di rispetto per la tradizione e si fossero sopravvalutati un po’ meno: si sono sentiti i protagonisti di una nuova rivoluzione copernicana; hanno creduto di essere i primi esploratori sbarcati su un nuovo continente, dopo una navigazione audacissima, mentre non erano che i sopravvissuti d’un naufragio, approdati per caso sulla medesima spiaggia dalla quale erano partiti, ma che non sapevano più riconoscere, perché avevano distrutto le lampade, le carte di navigazione, gli strumenti nautici e tutto ciò che avrebbe permesso loro di capire dove si trovavano. Ironia del destino: viaggiare tanto, credere di aver fatto tanta strada, di aver scoperto nuovi mari e nuove terre (a cominciare dall’inconscio, il "luogo" per eccellenza della modernità, che dovrebbe spiegare tutto anche se, ahimè, non si lascia spiegare da nessuno) per tornare al punto di partenza. Una vera e propria metafora della civiltà moderna: la civiltà del viaggio inutile, dell’errore gratuito, del discorso vuoto e petulante, ma con pretese di profondità abissale; della peregrinazione senza senso, senza scopo e senza meta. In ultima analisi, la civiltà della beffa, della risata grossolana e bestiale, gargantuelica, sulla totale assurdità del reale: non è un caso che il romanzo col quale si apre la stagione della modernità sia quello di Rabelais.
Scrive Paolo Bertinetti in Breve storia della letteratura inglese (Torino, Einaudi, 2004, pp. 242-44):
Nel dopoguerra, come ha scritto in un lontano ma insuperato saggio Erich Auerbach, alcuni scrittori (inglesi, francesi, tedeschi) sentirono che i vertiginosi cambiamenti avvenuti dalla fine dell’ottocento in poi, e culminati con lo sconvolgimento della guerra, avevamo fatto crollare quella "comunanza di pensiero e di sentimento" che prima consentiva allo scrittore di ritrarre la realtà "avendo in mano dei riferimenti sicuri per ordinarla". Ciò da un lato comportava la rinuncia a voler rappresentare la vita nel suo svolgimento e nella sua completezza, con la scelta di limitare l’argomento della narrazione a poche ore o giorni, nella convinzione che meglio era indagare il singolo fatto; e nella persuasione che esso, attraverso il collegamento con altre vicende nel passato appena intuite, potesse, forse, fare scorgere il senso di una vita (in Joyce saranno rivelatrici le "impressioni" fuggevoli, le "epifanie" che rappresentano improvvise rivelazioni).
Dall’altro lato comportava la scelta di "dissolvere la realtà, che passando per il prisma della coscienza" veniva così frantumata in aspetti e significati molteplici. Tecnicamente questo, nei narratori, comportava il ricorso al rivoluzionario "stream of consciousness" di Joyce, al flusso di coscienza, alla traduzione sulla pagine del flusso inconsapevole di pensieri, associazioni e sensazioni che attraversano la mente. Oppure, esemplarmente in Virginia Woolff, nella rinuncia al punto di vista del narratore (che non può più esserci in un mondo inconoscibile nella sua interezza,(come invece era per il narratore ottocentesco) per l’adozione di una molteplicità di puti di vista. L’intento, diceva ancora Auerbach, era quello di "avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da molte persone(e in momenti doversi)". È significativo che, già prima, sia Conrad, sia Ford Madox Ford, pur senza adottare tali tecniche, avessero elaborato soluzioni narrative (il secondo narratore, il narratore inattendibile) che registravano la difficoltà di raccontare alla maniera tradizionale. Furono poi i modernisti, i testimoni della "perdita del centro", a denunciare l’impossibilità di raccontare una storia con la linearità e consequenzialità che veniva da un’ordinata visione del mondo ora che il mondo non era più conoscibile nella sua totalità. E questo fu vero sia per i romanzieri, sia per i poeti: "Non so connettere nulla con nulla", lamenta Eliot in "The Waste Land".
Lo sconcerto, la confusione, la mancanza di solidi punti di riferimento, ma al tempo stesso la consapevolezza della necessità e della possibilità di rappresentare dimensioni inesplorate e nuove dimensioni della realtà, si tradussero nella splendida fioritura letteraria degli anni Venti.
Questo è un classico esempio di come la modernità valuta, e naturalmente promuove con lode, se stessa. Una volta assunto il dogma che l’io non esiste, che la coscienza è solo un fluire di attimi, che la realtà esterna è tropo complessa per essere decifrabile e che, probabilmente, niente è chiaro e ordinato, dunque rappresentabile, perché niente ha un senso e una ragione per esistere; una volta assunto tutto questo come una verità assoluta, religiosa, non resta che sperticarsi nelle lodi a Virginia Woolf, a James Joyce e tutti gli altri. Ma, se si assume come punto di partenza quanto meno l’ipotesi che le cose esistono per una ragione precisa; che la realtà è abbastanza ordinata, pur nell’apparente disordine, da consentire di essere rappresentata; che, se si vuol uscire dalla prigione del solipsismo, bisogna correre il rischio d’ipotizzare che la coscienza esista come qualcosa di unitario e di coerente, e sia pure con ampi margini di oscillazione, interna ed esterna, ecco che le cose prendono tutto un altro aspetto, e i pretesi scopritori di mondi nuovi diventano dei buffi personaggi che si sono divertiti a rimestare fra le ceneri di una sterile rinuncia a capire e a rappresentare, e di questa loro impotenza di sono fatti un vanto e un motivo di merito. Dopotutto, che ce ne importa di quel che passa per la testa di Leopold Bloom mentre evacua le sue feci, e perché dovrebbe essere importante sapere che non se ne sprigionava un profumino? Le masturbazioni interiori (e talvolta anche fisiche) di Joyce, di Woolf, di E. A. Forster, saranno anche genialmente descritte a livello del flusso di coscienza, cioè come fatto tecnico e narrativo, ma non hanno alcuna rilevanza per il lettore, non aggiungono nulla alla sua esperienza del mondo. E, siamo sinceri: chi si mette a leggere l’Ulisse per il piacere di leggerlo? Non è forse uno di quei libri che si leggono per dovere, perché tutti dicono che è un libro intelligente, imprescindibile? E chi si mette a leggere volentieri la Gita al faro, o La signora Dalloway, sorbendosi pagine e pagine di testo senza un punto e una virgola, solo per accompagnare il divagare mentale delle protagoniste, nevrotiche, insoddisfatte, frustrate, femministe e per lo più invertite? Sì, perché l’inversione sessuale, così trasparente anche nell’opera di Forster, è molto più che un fatto accidentale: siamo in presenza di un’idea della letteratura che ha qualcosa di malato, di patologico, di anormale. Niente a che vedere con la predilezione di un Dostoevskij per la patologa spirituale degli uomini moderni; semmai, il maestro dei modernisti anglosassoni è Zola, con la sua sterile, compiaciuta e depravata fissazione per tutto ciò che è sordido, obbrobrioso, nauseabondo. Infine, tutto parte da Kant, dalla sua esclusione della metafisica e della cosa in sé, per assegnare alla ragione il compito di riflettere solo sui fenomeni, cioè sulla superficie delle cose. Una volta così delimitato il campo dell’esperibile, si finisce per soffermarsi sul cesso di Leopold Bloom e sui relativi fetori.
Ma, si dirà, possibile che il modernismo letterario non abbia prodotto nulla di buono? Certo che sì: e il buono si trova nei suoi precursori, specialmente in T. S. Eliot ed Ezra Pound, ai quali spetta sia la definizione di rivoluzionari, sia di reazionari, che il saggio sopra citato elargisce loro. Peccato che Bertinetti, nel confronto, lodi piuttosto il Gruppo di Bloomsbury, appunto perché più moderato nella forma, e più liberale, o progressista, nei contenuti, specie in materia sessuale (il femminismo e il lesbismo della Woolf e l’omofilia repressa, peraltro sullo sulla carta, di Forster). Come volevasi dimostrare: la modernità è costituzionalmente autoreferenziale. Che sia benedetto lo spirito "reazionario" di Eliot e di Pound, suscettibile di una critica costruttiva al conformismo della civiltà moderna; ma dallo snobismo radical-chic del Gruppo di Bloomsbury, cosa ci sarà mai da imparare?
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