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5 Luglio 2018È nella natura dell’uomo anelare al bello; ed è parimenti nella sua natura essere attratto, d’istinto, dalle cose semplici. Si usa dire: un difficile problema di matematica, ma è un’espressione fuorviante: il problema sarà anche difficile, ma ciò che attrae il matematico è trovare la soluzione più semplice, che sia anche, nello stesso tempo, la più elegante. Nessun matematico si sente soddisfatto se è costretto a risolvere un problema in maniera difficoltosa e inelegante, con passaggi tortuosi; e la stessa cosa vale per il fisico, il chimico, il biologo. Vale anche per l’architetto: quale architetto sarà contento di realizzare un edificio, lasciandosi condizionare dal peso della materia, permettendo ai fattori statici di influenzare l’opera finita, così come lui l’aveva concepita nella sua mente? E vale per il musicista, poiché la musica, dal punto di vista compositivo, è matematica. Vale per il poeta, il quale si sente soddisfatto se riesce ad esprimere il suo sentimento con il minimo delle parole: per questo la parola poetica è sempre essenziale, possiede risonanze che il discorso quotidiano non ha e non possiederà mai. E vale per il filosofo, il quale, se è un vero filosofo, non si appaga di vane parole, di ragionamenti ellittici, d’inutili sfoggi di maestria retorica e dialettica, ma va dritto al cuore dei problemi, con una consequenzialità tesa, intransigente, riducendo il discorso ai suoi termini essenziali, sfrondato di tutto ciò che è accidentale, ininfluente. Perfino un atleta, per esempio un tuffatore, o un trapezista, o una pattinatrice sul ghiaccio, o le praticanti del nuoto sincronizzato, perfino costoro sanno, o meglio sentono, che la vera bellezza sta nella perfetta semplicità: neppure un movimento fuori posto, o fuori tempo, ma armonia assoluta, scioltezza, naturalezza, ogni più piccolo gesto sincronizzato con gli altri e risolto nell’azione totale. Non è vero che le cose vere sono anche difficili; è vero, semmai, che esiste una difficoltà nel cogliere ciò che, di per sé, è semplice. Il vero non è mai difficile, se per difficile s’intende qualcosa di oscuro; il vero è luminoso, e perciò semplice; tuttavia, per riuscire a coglierlo, bisogna esser diventati trasparenti, in modo che i suoi raggi di luce ci attraversino senza incontrare alcuna resistenza: e ciò richiede un lungo lavoro su se stessi. Pochissime persone possiedono naturalmente il dono della trasparenza; i bambini lo possiedono quasi tutti, ma poi, crescendo, lo smarriscono, se lo scordano. Che le cose profonde debbano essere anche difficili, è un pregiudizio che nasce dall’ignoranza, dal conformismo e dalla pigrizia intellettuale: serve a scusare il fatto di non osare alcun passo decisivo verso la verità. Ci si sente giustificati dal fatto che, se il vero è difficile, tanto vale lasciar perdere. Ci si guadagna anche in popolarità, si riesce più simpatici, perché dire che il vero esiste, che lo si può raggiungere, che è alla nostra portata, equivale ad attirarsi l’immediata antipatia della cultura oggi dominante, intrisa di relativismo e di soggettivismo: «Ma come, tu vorresti farci credere che sei arrivato alla verità? Tu, dunque, ritiene di avere la verità? Ma non lo sai che la tua verità non è, non potrà mai essere la mia? Chi ti credi allora di essere?».
Bisogna metter in chiaro una cosa: la verità è la retta comprensione del reale, e null’altro. Se questo ci riesce difficile non dipende dal reale ma da noi. Bisogna aggiungere che, per il nostro atteggiamento abituale, noi ce la mettiamo tutta per non capire, per restare chiusi alla comprensione. Per comprendere il reale bisogna aprirsi: aprire la mente, aprire il cuore, rendersi trasparenti; e la prima cosa da fare, in questo senso, è spogliarsi del fardello dell’io e indossare la veste dell’umiltà. Chi non sa fare ciò, non capirà mai nulla, troverà tutto difficile, o, peggio ancora, crederà d’aver capito, e andrà in giro a fare mille discorsi, a compiere mille azioni, ma parlando e agendo come un ubriaco. Chi pensa che la verità sia una conquista è del tutto fuori strada; al contrario, è una resa. Bisogna arrendersi: arrendersi al mistero luminoso del reale, abbassare le armi della presunzione, dell’orgoglio e del compiacimento di sé. C’è una bellissima pagina di Francesco Chiesa, il grande scrittore ticinese, che bene esprime la perfetta semplicità del bello e anche la sua labilità (F. Chiesa, La scatola di pergamena, Lugano, Edizioni del Cantonetto, 1960, pp. 167-68):
IL LAGHETTO OVALE
Non avendo meta, né conoscenza del luogo, lasciai che i piedi andassero. Era un sentierino appena segnato in terra, che divagava fra larici abeti, morendo di tanto in tanto sul musco silenzioso; poi rinasceva, e così il suono dei miei passi. La foresta a un tratto cessò, e mi ritrovai libero e aperto dinanzi all’inatteso mirabile spettacolo.
Un laghetto ovale, d’un tenere lapislazzoli pagliettato d’oro, splendeva in un contorno ocra di collinette monde. Nulla si vedeva, oltre i lenti dossi che si susseguivano orlandosi nel cielo, tranne, lontanissima, una sembianza d’alpi incorporee, d’un lilla rosa. Nulla si moveva nell’incantata conca, tranne quelle innumerevoli freccette d’oro che saettavano in silenzio la grande gemma azzurra.
Mai m’era avvenuto di trovarmi dinanzi all’apparizione d’una bellezza che fosse così perfetta semplicità: un’acqua e il suo luminoso brivido, un giro di collinette e il suo colore ocra uguale, un cielo e il suo sole. Per un poco mi parve di sentirmi anch’io contento al modo di quelle semplici grandi cose, e che anch’io fossi un contemplare incantato, immemore di tutto, non sollecito di nulla, concentrato nel suo bel presente. Ma poco durò l’illusione; e tornai l’inquieto ricordare temere desiderare ch’io sono; e l’apparizione stupenda della cosa che non potevo essere, cessò d’essere gioia anche mia, e cominciò a diventare turbamento, avvilimento e dispetto, voglia di non essere più lì. Volsi le spalle, e tornai senza guardarmi indietro nel nostro mondo.
Nel finale di questo minuscolo raccontino, o forse dovremmo chiamarlo apologo (eh, questo eterno impulso di denominare, classificare, etichettare!, è appunto una delle cose che fanno velo alla trasparenza del nostro sguardo!), lo scrittore ha saputo magistralmente esprimere, con una manciata di parole, lo sconcerto improvviso, poi la tristezza e, infine, il bisogno di fuggire, davanti alla insostenibilità di quella esperienza rivelatrice. Infatti: se l’anima non è preparata ad accoglierla, la perfetta bellezza è insostenibile: proprio per la sua assoluta, disarmante semplicità. Abbiamo detto che per raggiungere la trasparenza è necessario un intenso lavoro su se stessi: è una lunga strada quella che si deve fare, prima d’imparare che il vero guadagno è la perdita, e la vera ricchezza è la povertà. Bisogna avere rivoluzionato tutte le categorie dell’io, e l’io per prima cosa, per mettersi nelle condizioni di riuscire a vedere, guardando, e di udire, ascoltando, e di capire, ponendosi di fronte al reale. Altrimenti, tutto ciò che guardiamo, che ascoltiamo, tutto ciò che abbiamo di fronte, non ci rimanderà altro che innumerevoli volte la nostra stessa immagine, le nostre parole, i nostri pensieri. E non riusciremo mai a fare neppure un passo al di là del nostro piccolo io, al di fuori e al disopra della superficie di quegli innumerevoli specchi. In pratica, dobbiamo imparare l’arte dello scultore: non si tratta di aggiungere qualcosa, ma di togliere: di togliere tutto ciò che, in noi, fa resistenza, a cominciare dalla nostra pretesa di capire, ma di capire dettando le nostre regole al reale, di capire da padroni della situazione, mentre l’atteggiamento che dobbiamo indossare è esattamente quello opposto: farci umili e lasciar andare ogni pretesa, ogni presunzione, abolire la corazza dell’orgoglio e dell’auto-compiacimento. Si deve abolire, in verità, anche l’auto-disprezzo: perché anche l’auto-disprezzo è una manifestazione dell’ipertrofia dell’io; è una delle tattiche preferite con le quali il diavolo travisa la realtà per metterci fuori strada.
Ad ogni modo, riuscire a cogliere, qualche rara volta, la sensazione della bellezza perfetta e vedere che essa consiste in una semplicità assoluta, è già un’esperienza privilegiata: il solo fatto di esperirla, significa che l’anima possiede, almeno potenzialmente, gli strumenti per spingersi assai più avanti. Ma poi, generalmente, l’esperienza si esaurisce molto in fretta, e ad essa subentra un senso di profonda insoddisfazione, un amaro rimpianto: Francesco Chiesa descrive il suo rapido allontanarsi da quel luogo incantato, precisando che non si voltò indietro nemmeno una volta, che è l’atteggiamento tipico di chi ha commesso un delitto, forse contro se stesso, e non vuol confrontarsi con l’esperienza che si lascia dietro le spalle. Insomma, è una fuga da se stessi, ma carica di dolore e senso di colpa; un po’ come quando Adamo ed Eva dovettero allontanarsi dal paradiso terrestre: la colpa era loro, eppure avevano l’anima straziata dalla sofferenza, anche perché, pur vergognandosi di se stessi e accusandosi a vicenda, sapevano di non poter dare a nessun altro la responsabilità di quella immensa sciagura. Eppure, quei rari momenti di contemplazione della vera bellezza, con tutto il rapimento estatico, con il senso di felicità perfetta che portano con sé, meriterebbero qualcosa di meglio che essere accantonati in fretta, o, peggio, inutilmente rimpianti, con una carica di nostalgia tanto intensa quanto sterile. Vi sono persone che si trastullano per anni nel ricordo; altre le quali addirittura vivono nel rimpianto di uno di quei momenti e sprecano il presente fantasticando su ciò che avrebbe potuto accadere, se… La verità, tuttavia, è che, se l’unica cosa di cui si è capaci, dopo aver "perso" quei rari momenti di rivelazione, consiste nel logorarsi in una inutile nostalgia, ciò significa semplicemente che non si è pronti per guardare in faccia il mistero e lo splendore del reale, e non si sa far altro che consolarsi con dei sentimenti di seconda scelta: rimpianto, gelosia, invidia, tristezza, disperazione. Tutte trappole dell’io; tutti strumenti di cui si serve la malizia del diavolo per allontanarci dal sentiero giusto, dalla direzione giusta; perché è geloso, lui sì, eccome se è geloso, della nostra possibile felicità, e sta sempre all’erta per fare in modo che noi non riusciamo a coglierla, e se per caso essa sfiora la nostra fronte, noi stessi ci affrettiamo a scacciarla, come una mosca che ci dà noia ronzandoci attorno. È pur vero che ci sono persone le quali non fanno mai l’esperienza della bellezza, né quella della pura felicità spirituale, l’unica che meriti questo none; persone per le quali un paesaggio sconosciuto e meraviglioso, o un concerto di musica classica eseguito con sovrana maestria, o la vista di una sublime opera di pittura, non suscita alcuna emozione, non dischiude alcun orizzonte. Tuttavia, è altrettanto vero che, se si ha bisogno di paesaggi nuovi e di incontro nuovi, magari con un bel paio d’occhi da ammirare da vicino, per sollevare il velo che nasconde la rivelazione del bello e immettere un respiro d’infinito nella propria vita, allora ci si trova molto, ma molto indietro sulla strada della consapevolezza, e si son fatti ben magri progressi nella liberazione dal peso opprimente dell’io. Per l’anima un po’ evoluta, tutto lo spettacolo del reale, in qualsiasi momento, è sempre un catalizzatore d’infinito, di pace e di gioiosa meraviglia. Non tutte le anime sono uguali, ma tutte sono chiamate a lavorare su se stesse per essere degne di contemplare la bellezza: poiché si tratta di un grande privilegio, che Dio concede solo a quanti si sono seriamente impegnati per avvicinarsi alla meta. Proviamo a riflettere. È nostro costume dolerci, come ha mirabilmente narrato, nello spazio di poche frasi, Francesco Chiesa, di non poter sostenere l’esperienza della bellezza, e la felicità che ne deriva, se non per un tempo brevissimo, dopo di che ci sentiamo trascinati via, alla vita di sempre, nostro malgrado. E tuttavia, se vogliamo essere giusti, meriteremmo forse qualcosa di meglio? Come lo studente pigro non merita la promozione, né l’operaio svogliato merita le lodi, né il soldato vile merita la medaglia, né colui che vive in maniera disordinata merita la salute, allo stesso modo non è degno della felicità chi non si è mai curato di dare alla propria vita un indirizzo sano, onesto e consapevole. Sano: cercando ciò che è buono ed evitando ciò che è cattivo; onesto: sforzandosi di essere sempre leale e sincero, con se stesso, con gli altri e con Dio; consapevole: alzando gli occhi dalla palude degli appetiti disordinati e volgendoli verso le altezze, dove l’aria è pura e si scorge con più chiarezza quali sono le cose che danno un nobile significato alla vita umana, e la rendono realmente degna di essere vissuta.
In conclusione. Noi possiamo far qualcosa di meglio che lamentarci perché sono così rari i momenti di pienezza, di gioia, di godimento della vera bellezza; e rimpiangere, sterilmente, che scivolino via tanto in fretta. Noi possiamo far sì che quei momenti siano sempre più frequenti; possiamo vivere immersi in un lago di luce e di verità, senza restarne abbagliati, senza vederli fuggire via ogni volta. O meglio, non dipende da noi, perché è un dono di Dio, è il premio di una vita indirizzata verso la verità, cioè verso di Lui, perché Dio è la Verità stessa, ed è la Bellezza, così come è il Bene e il Giusto. Da noi, però, dipende una cosa: creare le condizioni affinché Dio ci possa toccare il cuore. Finché viviamo rotolandoci nel fango, non avremo mai la possibilità di vedere altro che fango. Ed ecco perché la colpa dei neoteologi e dei neopreti è veramente imperdonabile: perché, invece di insegnare alle anime la via per innalzarsi al di sopra del fango, si mettono a insegnare che il fango non è fango, è la nobile terra in cui viviamo, e che non c’è niente di male a rotolarsi nel fango, perché abbiamo diritto di realizzare i nostri sogni. Ma di sogni buoni, ce n’è uno solo: quello di Dio.