
«E voi, chi dite che io sia?»
29 Giugno 2018
L’arte brutta è anche immorale
30 Giugno 2018Nel precedente articolo, L’arte brutta è anche immorale (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 30/06/2018) abbiamo sostenuto che un’arte brutta è una contraddizione in termini, una impossibilità logica, perché l’arte è la creazione del bello, e il desiderio del bello è connaturato all’anima umana; e che è anche immorale, perché accarezza i gusti peggiori del pubblico e incoraggia la sua pigrizia intellettuale, dandogli in pasto le cose più facili da produrre, anche se, appunto, brutte, ripugnanti o patologiche: si pensi solo, per fare un esempio, alla Merda d’artista di Piero Manzoni, o al famoso Orinatoio di Marcel Duchamp, e via orripilando e disgustando, ce n’è per tutti i gusti. Abbiamo anche sostenuto, nel corso di numerosi interventi, che l’arte moderna cosiddetta sacra è, a sua volta, una contraddizione in termini, perché, se davvero è moderna, non ha e non può avere nulla di sacro; inoltre è sovente brutta, il che aggiunge un tassello al quadro complessivo della malattia della modernità: la provocazione verso Dio, vale a dire la bestemmia. Un’architettura religiosa che non ha nulla di spirituale, ma che pare un cubo di cemento, una fabbrica, un’officina, una fortezza o un deposito di materiali, e nella quale i fedeli non si sentono agevolati nel raccoglimento e favoriti nella preghiera, ma, al contrario, percepiscono un ambiente freddo, pragmatico, senz’anima e perciò senza Dio, svolge la funzione diametralmente opposta a quella che dovrebbe svolgere e per la quale, in teoria, è stata concepita (cfr., in particolare, Le brutte chiese post-conciliari inseguono il mondo, non cercano il divino, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 10/02/2015, e sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/10/2017; È la bellezza della liturgia a educare il cuore, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 27/11/2017; e Ma è proprio questo il volto del nostro Redentore?, dedicato alle opere del mosaicista sloveno Ivan Rupnik, un gesuita oggi assai di moda nella Chiesa, e pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’08/12/2017: vuoi vedere che i gesuiti, dopo aver preso la direzione della Chiesa in ambito teologico, vogliono imprimerle anche la "giusta" direzione nell’ambito dell’arte sacra?) Non per nulla gli ortodossi hanno sviluppato una vera e propria riflessione teologica sulla bellezza nell’arte sacra e, in modo particolare, sulla bellezza delle icone, eredi del pensiero greco e specialmente di Platone, per il quale la bellezza sensibile è il primo gradino nella scala ideale che conduce alla contemplazione del Bello eterno e alla realtà invisibile; mentre nel protestantesimo si è verificato il fenomeno opposto, un atteggiamento di contrapposizione fra bellezza e senso del divino (cfr. La bellezza, nel protestantesimo, è sempre nemica di Dio, lo sostituisce o lo combatte, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/01/2018).
La stessa cosa si può dire per la musica moderna cosiddetta sacra, o per i canti liturgici moderni, dai quali non traspare alcun rapimento mistico, alcun senso di interiorità, alcuna spinta verso la trascendenza, ma che somigliano a delle noiose e dolciastre filastrocche, banali nei motivi e insipide nei testi: anche una tale musica svolge una funzione opposta a quella che deve svolgere la musica sacra. Abbiamo parlato con un vecchio sacerdote (vecchio non tanto in senso anagrafico, ma per il numero di anni della sua vita consacrata) il quale ci ha confidato come è nata, fin da ragazzino, la sua profonda vocazione religiosa: dalla bellezza impareggiabile della musica sacra, specialmente del canto gregoriano e, in genere, dei canti in latino; dalla loro solennità, dalla loro vetustà, dalla loro composta, ordinata, suggestiva armonia, che gli struggeva il cuore. E lo diceva con profonda commozione, quasi con le lacrime agli occhi. Poi, entrando in seminario, la prima delusione (o una delle prime): proibito, non solo abolito, ma addirittura proibito, il canto gregoriano; proibita qualunque forma di canto in latino; e avanti con le canzoni profane o con i loro bislacchi adattamenti ad uso liturgico, sul tipo di Blowing in the Wind di Bob Dylan, per le quali si scioglievano in estatica ammirazione i cattolici progressisti e postconciliari, a cominciare dai superiori del seminario (dove gli iscritti sono passati da 80 di quarant’anni fa, agli attuali zero virgola zero). Testi che, a parte la loro dubbia origine ideologica, non esprimono affatto la specificità del sentire cristiano e cattolico, ma, tutt’al più (e con molta buona volontà) una qualche forma di religiosità generica, "liquida" — come direbbe Zygmunt Bauman -, quasi volatile; una religiosità che può andar bene per tutte le stagioni, canzoni che starebbero altrettanto bene sulle labbra di un coro luterano, o presbiteriano, o magari di qualche setta New Age, di quale gruppo vagamente "spirituale", magari di tipo gnostico o panteista. Però la fierezza di essere cattolici, la proclamazione delle verità cristiane, niente di niente. Sarà appunto per questo che Bob Dylan e tutti gli altri dello stesso genere piacevano e piacciono ancora tanto ai cattolici progressisti, in perfetto "spirito di Assisi": perché "fanno dialogo", mostrano apertura, ecumenismo, spirito d’inclusione; e, come direbbe il signor Bergoglio, gettano ponti gli uni verso gli altri, creano unione, solidarietà, baci e abbracci, mentre le "vecchie" canzoni liturgiche, sul tipo di Io son cristiano! Dal sacro fonte / un’onda pura scese su me…, che venivano insegnate ai bambini del catechismo negli anni ’60 del Novecento, quelle no, che orrore!, quelle creano divisioni, alzano muri, scherziamo, non bisogna mica offendere il mondo, sbattendogli in faccia la propria identità cristiana e cattolica. Ci vuole un po’ di discrezione, un po’ di bon ton, che diamine! Siamo o non siamo educati e razionali cittadini del terzo millennio? E ciò vale anche per i credenti: non siamo più nel Medioevo, come diceva il buon padre David Maria Turoldo, il grande poeta catto-progressista, allorché spezzava la corona del Rosario e la gettava a terra, esortando i cattolici a sbarazzarsi, una volta per tutte, dei loro superstiziosi e poco invidiabili modi di pregare.
Dunque: l’anima ha bisogno di bellezza: è un bisogno naturale, come quello di mangiare, bere e riposare; e, se non la trova, intristisce e sviluppa qualche anomalia, qualche deviazione, proprio come un albero il quale, trovandosi la naturale via di crescita sbarrata da un muro o da un qualsiasi altro ostacolo, continua a svilupparsi comunque, ma piegandosi sul tronco e assumendo una figura quanto mai contorta, oltre che precaria: costretto a spostare innaturalmente il proprio baricentro, prima o poi verrà il momento in cui le radici non riusciranno a fare sufficiente presa nel terreno e l’intera pianta rovinerà al suolo, trascinata dal peso sbilanciato del trono e della chioma. Ebbene, la stessa cosa si verifica, e a maggior ragione, per l’arte sacra e per la musica sacra. L’anima, che è naturalmente religiosa (non esiste un ateismo naturale: l’ateo è sempre colui che fatto un scelta di tipo intellettuale), cerca nell’arte liturgica e nella musica liturgica un aiuto e un sostegno nella ricerca di Dio; e, non trovandole, ritorna indietro vuota e inaridita, delusa e disperata. Anche da ciò si può capire quale ruolo importantissimo, fondamentale, svolge la bellezza nel complesso della liturgia. La liturgia non è solo espressione della bellezza, ma la bellezza, nella liturgia, è un potentissimo strumento di avvicinamento al sacro: perché l’anima, nel brutto, non si sente affatto stimolata a rivolgersi a Dio, al contrario, si sente sempre più respinta e racchiusa entro un orizzonte chiuso, limitato, asfittico, che ha qualcosa di demoniaco, perché la bruttezza è il riflesso del diavolo, così come la bellezza è un attributo di Dio: come ben sanno i seguaci del satanismo e i cultori del rock satanico (e, a proposito: anche la sodomia è demoniaca, e infatti il sesso anale viene praticato dai gruppi satanisti, appunto perché orrido, doloroso e contrario alla natura umana). Evidentemente sapevano il fatto loro quei padri conciliari (ci scotta la lingua a chiamarli così) i quali vollero, fortissimamente vollero, un concilio pastorale e liturgico, e si preoccuparono, per prima cosa, di far passare la "loro" riforma liturgica, per opera principalmente dell’arcivescovo massone Annibale Bugnini. Essi ebbero l’astuzia di presentare tale riforma in termini quasi minimalisti (in fondo, cosa volete che sia la liturgia?; però la dottrina, state tranquilli, resta sempre la stessa…), mentre sapevano benissimo che cambiare la liturgia significava cambiare tutto. Perché la liturgia, lo abbiamo detto e ripetuto mille volte, né mai ci stancheremo di dirlo, non è solo una specie di abito che il credente indossa quando si reca alle sacre funzioni: no, ma è molto, molto di più; la liturgia è un tutt’uno con la fede, con la preghiera, con il mistero del soprannaturale: è inseparabile dalla sostanza stessa di ciò in cui si crede. Tolta la liturgia, o meglio, tolta la dignità, la solennità e l’armonia della vera liturgia, non resta che una sua squallida contraffazione, la quale, proprio come l’are brutta, svolge la funzione contraria a quella che le sarebbe destinata: invece di avvicinare l’anima a Dio, l’allontana, e la sospinge verso pensieri mondani, fatti di carne e di cose immanenti, di desideri e aspirazioni puramente terreni.
Non c’è alcun dubbio che una delle prossime mosse dello scellerato pontificato di Francesco sarà l’attacco finale alla liturgia; la quale, peraltro, è già precipitata nel caos più totale, dal momento che, ormai, ogni singolo prete si sente autorizzato a ritagliarsi ed inventarsi la sua propria liturgia, fosse pure la più sconveniente, la più balzana, la più buffonesca e oltraggiosa che si possa immaginare, la più contraria allo spirito, alla bellezza e al buon gusto. Ormai, nella liturgia della santa Messa, se ne vedono di tutti i colori: l’elenco degli abusi sarebbe lunghissimo, tanto che ormai perfino parlare di "abusi liturgici" risulta incongruo e anacronistico: l’eccezione essendo diventata la sana liturgia cattolica, mentre gli abusi sono divenuti praticamente la regola, grazie anche al silenzio, alla distrazione o, peggio, alla connivenza e all’attivo incitamento degli stessi vescovi. Ma ai vescovi non importa se il parroco tal dei tali si reca all’altare scivolando sui pattini, oppure in bicicletta, in mezzo alla folla dei fedeli; o se il parroco talaltro si mette a raccontare barzellette durante l’omelia, si esprime scherzosamente in dialetto, canta, ride, fa il pagliaccio, provoca le risate del "pubblico"? Evidentemente no, dal momento che non si ha mai notizia che un vescovo sia intervenuto per reprimere simili abusi. Viceversa, si ha talvolta notizia di un vescovo che interviene per punire e allontanare un bravo sacerdote che seguita a fare, coraggioso e imperterrito, quel che i sacerdoti hanno sempre fatto; che celebra una santa Messa così come si è sempre celebrata, che predica ai fedeli restando nel solco della sana dottrina, e non improvvisando affermazioni di sua personale matrice, magari sul versante della politica e di cento altre cose, le quali però, con la fede cattolica, non c’entrano per niente, o hanno un rapporto soltanto indiretto.
Il mondo moderno si è volontariamente allontanato da Dio: pertanto, l’uomo sta ricevendo in se stesso, come direbbe san Paolo (cfr. Romani, 1, 26-27), il castigo per la propria arroganza e per il proprio traviamento. Una volta lontano da Dio, l’uomo impazzisce, perché non trova più la propria misura, e nemmeno una ragione per vivere: come potrebbe, un’anima immortale, appagarsi di una vita finita, di un mondo nel quale ogni cosa finisce ed è destinata alla dissoluzione? Noi siamo fatti per la felicità, e la felicità non conosce l’ombra angosciosa della morte, se morire è scivolare in un eterno nulla. L’imbruttimento della liturgia, dei canti sacri, della musica sacra, della pittura, della scultura e dell’architettura sacre, ha perciò qualcosa di veramente diabolico: sembra impossibile che il clero e i fedeli ci siano arrivati inconsapevolmente, in maniera "naturale"; è molto, ma molto più verosimile, che risponda ad una regia ben precisa, a un piano, a un disegno finalizzato a recidere anche quest’ultimo legame fra Dio e gli uomini, che è rappresentato dalla bellezza. E all’origine di questo piano, subdolo e scellerato, vi è, ancora e sempre, la teologia della "svolta antropologica": anche qui si allunga l’ombra inquietante di un altro gesuita, il nefasto Karl Rahner. Se la teologia non è più la ricerca di Dio, umile e devota, da parte dell’uomo, ma è l’analisi dell’uomo che, facendo perno su se stesso, si innalza verso Dio, in realtà quasi auto-divinizzandosi, allora non desta meraviglia che anche l’arte cosiddetta sacra cessi di protendersi verso la trascendenza e si metta a celebrare l’immanenza. Il volto di Cristo che ci si mostra nei mosaici di padre Rupnik, dietro la maschera di una sorta di "primitivismo" ingenuo e quasi naïf, non ha nulla di divino, nulla di solenne, nulla di spirituale: è un volto semplicemente assonnato, da tonto, un volto brutto, quasi repellente, carico di tutta la miseria dell’umano, immerso e chiuso nella propria finitezza. E così le figure che gli stanno intorno, e lo stesso paesaggio: su tutto grava il peso della materia; da nessuna parte si respira la dimensione dell’infinito. Chi cerca in quelle immagini "sacre" il sia pur minimo spiraglio per avvicinarsi a Dio, per trovare il clima propizio al raccoglimento, alla devozione, alla preghiera, non trova niente di tutto ciò, ma resta deluso, spogliato di una legittima aspettativa, come il figlio che domanda al proprio padre un pezzo di pane e riceve invece, un serpente o uno scorpione (cfr. Luca, 11, 11-13): Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! Le cose sono giunte a tanto nella neochiesa odierna: invece dell’aiuto a credere, il fedele vi trova la spinta verso l’incredulità…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI